"SACCONI: «DETASSARE»" di Alberto Mingardi da "Il Riformista" del 9 maggio 2008
10 giugno 2008
«La priorità di questo governo è ricostruire le condizioni dell'ottimismo. Dobbiamo dare di nuovo all'Italia un senso del futuro»: dice al Riformista il neo ministro del welfare Maurizio Sacconi. Che elenca i temi da affrontare per produrre una svolta «in tempi rapidi»: crescita, sicurezza sul lavoro e, soprattutto, salari. «La leva fiscale è fondamentale» dice Sacconi, che spiega quali saranno i primi provvedimenti del governo: «Alzeremo i salari dei lavoratori dipendenti in relazione alla loro produttività». E aggiunge: «Detassare gli straordinari e soprattutto i premi vuol dire agevolare la collaborazione fra le parti». Il neo ministro invita le parti sociali a «un nuovo modello di relazioni industriali» e a dotarsi di «cornici più leggere e idonee». «Il fronte dei no si sgretola, ora toccano a noi le riforme» Neoministro del welfare, Maurizio Sacconi parla la lingua di chi vuole aprire una nuova stagione di dialogo. Usa toni pastello, incassa gli elogi di Repubblica perché non perde la calma quando si scaldano le trattative. Eppure, il nome di Sacconi è associato ad operazioni di rottura - a cominciare dalla legge "intitolata" al suo amico Marco Biagi. Siamo di fronte a un altro segno dei tempi, all'ennesima prova dell'ingentilimento della compagine berlusconiana? La risposta è «no». Sacconi, che ha un ricordo di prima mano della battaglia sulla scala mobile (era parlamentare socialista), non vuole fare il «ministro della concordia». Ma è convinto di due cose. La prima è che sia finita l'epoca delle lotte di classe. Questo significa non l'allineamento sulle posizioni dei "padroni" - ma riconoscere che lavoratore e datore di lavoro stanno sulla stessa barca, dettaglio non trascurabile specie se si naviga in acque agitate. La seconda è che la crescita rilassi le tensioni sociali. E possa creare le condizioni per una riforma del welfare ad ampio raggio, per «un aggiornamento dei nostri istituti in funzione della responsabilità della persona, dando valore agli spazi privati». Dobbiamo tendere verso una «società delle opportunità, e della responsabilità». È un pensiero di lunga gittata, che presuppone un percorso non breve. Il contrario dell'investimento politico sulle paure. «La priorità di questo governo è ricostruire le condizioni dell'ottimismo. Dobbiamo dare di nuovo all'Italia un senso del futuro»: dice al Riformista il ministro. «L'Italia è un Paese flessibile e veloce, nel bene e nel male. Ci adattiamo in fretta. Vuol dire che possiamo scivolare verso il declino a una velocità impensata. Ma anche che è possibile dare al Paese una svolta in tempi rapidi». Per la verità, c'è un senso di invidia sociale, e quindi di negatività e tensione, che oltrepassa i confini dell'impresa. Pensiamo soltanto all'entusiasmo con cui gli italiani sono diventati "guardoni" delle dichiarazioni dei redditi altrui... «Mi auguro che quello di Visco sulle dichiarazioni dei redditi sia stato l'ultimo colpo di coda di una prospettiva che va ad esaurirsi - perché l'invidia sociale, la conflittualità sono legate a una ansietà, a una paura, che riflettono un'involuzione economica e sociale. Invece quando in Italia c'è una speranza diffusa, sappiamo dare moltissimo. È la lezione degli anni 50, degli anni 60, degli anni 80». È una prospettiva che in questa fase può unire governo e opposizione? «Tocca al governo dare segnali chiari. Temo ci sarà ancora chi vuole giocare la carta della negatività, sgranare di nuovo il rosario dei no. Però sicuramente vediamo pure elementi di novità, nel Pd. Se noi riusciremo a dare il segno di una nuova direzione di marcia, non potranno non esserci ripercussioni positive». Lo stesso si può dire delle parti sociali? Di solito c'è tensione fra centro-destra e sindacati. Lei però sembra essere molto ottimista, in questo frangente. «Mi sembra si siano create le condizioni perché finalmente il lavoro si liberi da quei significati innaturali con cui è stato caricato nel corso del Novecento». Il post-ideologia anche in fabbrica? «Direi che c'è un sano ritorno a una lettura naturale e pragmatica del lavoro. Liberare il lavoro vuol dire essenzialmente riconoscere la centralità della persona, il che è doveroso e giusto di per sé, ma è pure imprescindibile nell'economia della conoscenza. Gli spazi di creatività individuale crescono - e così, in parallelo, quelli di iniziativa e responsabilità. È vero a qualsiasi livello, non solo per le figure apicali: il lavoro rifiuta di essere pensato solo in termini di esecuzione, di gerarchie, di "ordini"». Non a caso, torna il tema della contrattazione di secondo livello - enfatizzando la dimensione più "locale" e "particolare" dei contratti. «Se si pensa il lavoro senza orpelli ideologici, è necessario realizzare che l'epicentro è laddove il lavoro si svolge, l'epicentro è l'impresa...». Chi ha più paura di "liberare il lavoro", le aziende (che temono la contrattazione in fabbrica) o i sindacati (che hanno paura di essere "scavalcati")? «Occorre un movimento sinergico, per dare forma nuova alle relazioni industriali. Questo movimento il governo lo può favorire: la leva fiscale sarà fondamentale. E alzeremo i salari dei lavori dipendenti in relazione alla loro produttività. Detassare gli straordinari e soprattutto i premi vuol dire agevolare la collaborazione fra le parti, aprire le finestra ad una concreta collaborazione fra le parti in azienda. Tanto oggi la fiscalità è penalizzante in questa prospettiva, e tanto invece noi vorremmo premiasse e aiutasse. Tuttavia, le parti sociali devono a loro volta fornire cornici più leggere e idonee, anche a valorizzare persino il rapporto individuale. Altrimenti il loro destino è finire disintermediate». Il nocciolo del suo discorso sta nel riconoscimento nella natura fondamentalmente "cooperativa" di un'impresa: nella quale c'è una "divisione del lavoro" dovuta a una diversità di ruoli e aspettative, ma anche la condivisione di un destino. «In Italia, i lavoratori da tempo partecipano del rischio d'impresa. Il forte dinamismo che ha assunto l'economia globale è per forza legato alla possibilità di cambiamenti continui. E l'accorciamento del ciclo di vita delle imprese va in questa direzione: non c'è articolo 18 che ti tuteli nel momento in cui un'azienda viene meno. Ecco perché ora bisogna fare in modo che il lavoratore condivida di più anche i momenti belli e positivi. Agli attori istituzionali, sta adattare le regole. Agli italiani, sta sviluppare una cultura appropriata a questo mondo nuovo». Un mondo nuovo che qualcuno accuserà di essere "senza", o con meno, diritti... «Credo che tutto oggi vada ripensato alla luce di tre diritti fondamentali: salute e sicurezza sul luogo di lavoro, diritto al continuo aggiornamento delle competenze, e diritto a una giusta retribuzione. In un Paese con uno degli impianti regolatori più complessi, è curioso come oggi la garanzia di questi diritti sia del tutto inefficace. Ecco perché dobbiamo pensare ad essi non come regole formali ma come comportamenti sostanziali». Nell'operatività quotidiana dell'azione di governo, che cosa significherà? «Anzitutto, lavorare per obiettivi - con attitudine laica ed ansia del risultato. Tarare gli interventi sempre su benchmark internazionali. E impegnarsi in concreto: per una significativa riduzione della frequenza degli infortuni, per una crescita dei tassi di apprendimento e occupazione, per un aumento dei salari secondo una struttura più meritocratica». Sulla sicurezza del lavoro, lei eredita un tavolo lacerato: il testo unico ha registrato l'opposizione di tutte e quindici le associazioni del lavoro autonomo e dell'impresa. «È importante che le regole vengano condivise, perché in questo caso la condivisione è un valore in sé. È un valore perché le regole bisogna applicarle tutti e assieme. Sarebbe importante lo sviluppo di strumenti comuni (comitati paritetici, enti bilaterali...) per creare condizioni di sicurezza al di là degli adempimenti formali». Lei parla di un nuovo welfare, fatto di coordinamento fra pubblico e privato. La sanità è il terreno ideale, su cui sperimentarlo? «È un tema cruciale: sanità e federalismo fiscale sono strettamente dipendenti, e pertanto questo governo dovrà per forza dare risposte nuove. Tenendo presenti due fattori: primo, che noi ci poniamo il problema del risultato, del benessere delle persone, e sappiamo che per raggiungerlo le istituzioni pubbliche non bastano. Secondo, che l'Italia non è solo terra di cattive pratiche, ma anche di eccellenze. Le possiamo diffondere, senza bisogno di cercare modelli all'estero». Su tutto il welfare, lei lo sa bene, grava l'ipoteca demografica... «L'ipoteca demografica ha una sola risposta: la natalità. Deve essere un valore riconosciuto, nel lavoro, nella produzione, nella società. Dobbiamo impegnarci per un aumento robusto, e in forma plurale, dei servizi di cura all'infanzia. Per una più forte modulazione degli orari di lavoro, che non condanni la donna al "meta-tempo". Per consentire, anche in questo caso, una migliore adattabilità impresa/lavoratore». Ma la politica può sconfiggere la demografia? «La politica può fare quel che può. È chiaro che considerare la natalità come un valore è una sfida in primo luogo per la società. Dobbiamo tornare a crescere in tutti i sensi».
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