ROMA, RIPARTIRE DALLE PERIFERIE? di Alberto Benzoni del 14 luglio 2020
14 luglio 2020
“Ripartire dalle periferie”. E’ il consiglio contenuto in tutti i manuali a uso e consumo dei politici del nostro tempo. E si applica, in particolare, alle periferie romane.
E questo per due ragioni fondamentali. Primo perché fanno parte di una città il cui territorio è molto grande (anziché essere comuni autonomi come è avvenuto in ogni parte d’Italia). Con il duplice effetto di essere sempre più rilevanti dal punto di vista elettorale; e proprio quando diventano sempre più marginali e comunque separate da ogni altro punto di vista. E, in secondo luogo, perché, a differenza di quanto accade a Napoli e in altre grandi città del centro- sud, comprendono in sé praticamente tutte le aree di “criticità sociale”.
Ciò le rende oggetto di esercizi, magari un tantino rituali, di pentimento collettivo da parte della nostra sinistra storica (riproposizione, in varie forme, del “non vi abbiamo ascoltato; ma adesso vogliamo rimediare”). E, per altro verso, di uso strumentale da parte della destra populista (“le èlites del politicamente corretto vi ignorano e vi disprezzano; noi siamo con voi”) e di tutti gli aspiranti salvatori della patria in circolazione nel nostro paese, già predisposti ad arrivare a frotte in occasione delle prossime elezioni amministrative.
Nell’insieme, le voci saranno molto diverse. E questo conta. Ma le ricette sostanzialmente simili. E anche questo conta.
E sono simili perché si basano sulla stessa ottica. Nel concreto perché guardano alle periferie della nostra città come a una specie di variante soft delle favelas o, più esattamente, delle banlieues parigine. Povertà, degrado, criminalità, guerre tra poveri e così via.
E allora compare il binomio sicurezza/posti di lavoro. Due campi, guarda caso, in cui il comune può fare poco o nulla. Perché è gravato da un forte debito di cui non si è mai preoccupato di capire e di spiegare le ragioni e i rimedi. Perché le sentenze della Corte in materia di espropri rendono questo strumento pressoché inaccessibile. Perché le risorse a sua disposizione sono poche e comunque male utilizzate. Perché il clima politico (che è e rimane di attacco allo stato, al pubblico e a Roma capitale) non consente un rapporto costruttivo con lo stato centrale. E, infine, perché anche, ma non solo per queste ragioni, l’apparato comunale è demotivato e vicino al collasso.
Ecco, allora, il ripetuto appello al soccorso esterno, leggi al privato. In un contesto non di razionale collaborazione ma di totale subalternità. A simboleggiarlo infinite vicende; l’ultima e più clamorosa, lo stadio della Roma. Poteva e doveva sorgere al centro di un agglomerato urbano e in un’area di proprietà comunale; sorgerà, se mai sorgerà, allo sprofondo, per consentire ad un imprenditore fallito di pagare i suoi debiti alla banca.
Si dirà che il privato non è santa Teresa di Calcutta. Certo che non lo è. Ma, proprio per questo non può assoggettare alla sue esigenze lo sviluppo della città. Fino a considerare normale: che si moltiplichino gli appartamenti invenduti mentre non si costruiscono case popolari; che si spendono valanghe di soldi per le metropolitane e non per i tram; che si svenda il patrimonio pubblico anziché utilizzarlo; e, infine, che il territorio diventi una palla al piede anziché una risorsa.
E allora, si può anche ripartire dalle periferie. Ma per arrivare subito al centro. E questo perché il male delle periferie non è la miseria ma la privazione e l’abbandono. Simboleggiato dalla mancanza di servizi e di strutture destinati alla collettività. Parliamo di trasporti, scuole, cultura, luoghi di aggregazione, strutture produttive collegate con il territorio; ma anche di una pressoché totale assenza di rappresentatività politica complessiva.
Realizzare queste strutture significa ridisegnare la città. E per ridisegnare la città è necessario un progetto. E il progetto non è una somma di propositi generici,e quindi destinati a rimanere sulla carta ma un impegno, anzi, tecnicamente parlando, una missione; missione articolata in una serie di obbiettivi concreti, e verificabili nel tempo.
Rispetto al quadro attuale, una vera e propria rivoluzione copernicana. Nel rapporto tra stato e mercato, con il recupero della centralità del primo. Nel rapporto tra la capitale e lo stato : non più invocazione di aiuti, legati alla presenza di governi amici ma collaborazione per la realizzazione di progetti di interesse comune. Nella concezione stessa del pubblico che non può essere più legata alla proprietà ma, appunto alla missione.
E’ bene ricordare, a questo riguardo, che compito del pubblico è il fare ciò che il privato non vuole o non può fare; che è su questa base che sono nate e hanno prosperato le aziende municipalizzate nel nostro paese e, in particolare, a Roma; e, a questa stregua le attuali Atac e Ama ( tanto per citare un esempio) non hanno alcun titolo ad essere considerate pubbliche se non il fatto di essere controllate dal comune. Privatizzarle non le renderà certo migliori; renderle strumento specifico di un obbiettivo pubblico, funzionale al governo razionale della città, probabilmente sì.
Rivoluzione copernicana, infine, nel rapporto tra comune e cittadini. Finora segnato dall’opacità, dal disinteresse e dall’inganno. E che dovrà essere basato, a partire dalle nomine, su regole e opzioni chiare; e sulla possibilità di verificarne il rispetto.
“Ma qui manca/ci vuole la volontà politica”, si sarebbe detto una volta.
Oggi però il ruolo di “deus ex machina” è privo di interpreti e anche di aspiranti interpreti.
C’è qualcuno che si fa avanti ? Potremmo farlo anche noi…
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