Rino Formica:
20 giugno 2023
L’ex ministro socialista: "Il leader FI nasce nella Prima Repubblica poi approfitta della sua crisi guidato dal profitto e non dai principi politici. Con lui ritardato il rinnovamento: è degenerato il sistema democratico. Ora il governo Meloni non starà tranquillo" 18 GIUGNO 2023 Rino Formica, 96 anni, socialista, più volte ministro, ha vissuto da protagonista la Prima Repubblica e da spettatore impegnato la Seconda Repubblica, il cui debutto (1994) è legato all'avvento di Silvio Berlusconi sul palcoscenico politico. Le sue analisi vanno quasi sempre controcorrente. La morte di Berlusconi ha scatenato un fiume di ricordi, ricostruzioni e previsioni. "Siamo nel pieno di un necrologio collettivo. Un tempo si diceva che, nella vita, non ci fosse nulla di più falso dei necrologi, che costituiscono una rappresentazione edulcorata della verità. Quando, tra una decina di giorni, cesserà quest'orgia di dichiarazioni di fede e fedeltà, s'imporrà una riflessione pacata". Per giungere a quale conclusione? "Quella berlusconiana viene definita da tutti, detrattori e sostenitori, come un'esperienza trentennale. Il che significa che ha avuto una funzione". Come è stata assolta questa funzione da Berlusconi? "Vado subito alla sintesi. L'Italia è più povera e meno libera di come Berlusconi l'ha trovata. Berlusconi è più ricco e più potente di quando è entrato in politica". Ma Berlusconi era anche un po' figlio della Prima Repubblica. "Certo. Berlusconi nasce e cresce nella Prima Repubblica, ma riesce ad approfittare della crisi di quella fase storica senza possedere né indicare un orientamento di carattere politico. Qual era la sua bussola politica? Dov'era? Bah. È andata in scena un'anomalìa figlia di questo paradosso: quello di un imprenditore che si appropria dell'esperienza politica altrui e di un uomo politico che si trova a dover operare il cambiamento in un sistema in crisi. Berlusconi non è in grado di svolgere questo secondo compito. Lui resta un imprenditore che acquista tutto a basso prezzo e non si discosta dal principio tipico dell'imprenditore: il profitto. C'è una bella differenza tra l'uomo politico che ritiene non negoziabile il suo principio identitario e l'imprenditore che ritiene non negoziabile il principio fondamentale del profitto, che è la ragione di vita di un'impresa". Sta dicendo che nel berlusconismo prevale solo questa seconda figura? "Sì. È la sublimazione, il berlusconismo, del principio imprenditoriale grezzo e rozzo della prevalenza del profitto individuale e/o di gruppo a scapito dei princìpi politici identitari non negoziabili. Il suo obiettivo è stato la destrutturazione della fisiologia della politica". Perché, allora, seguendo il suo ragionamento, i partiti sconfitti nel '94 non hanno reagito? "Hanno commesso un errore di valutazione. Pensarono che il ritorno ai princìpi classici della politica sarebbe avvenuto in autonomia, col tempo e che la fase della sostituzione dei princìpi da parte del profitto sarebbe stata provvisoria e transitoria. Invece si trattava di un elemento degenerativo che intaccava il midollo spinale dei sistemi istituzionali democratici". Ma come si arriva a questa crisi? La caduta del Muro di Berlino, Mani pulite... "Questi furono eventi incidentali. Bisogna partire da un secolo fa, dalla fine della Prima Guerra mondiale. Un secolo che va diviso in quattro periodi, da studiare: il ventennio autoritario fascista, il centrismo democratico degasperiano successivo alla Resistenza e alla Costituente, il trentennio del riformismo di centrosinistra che comincia con Moro e Nenni e finisce col centrosinistra debilitato di Amato, infine il trentennio della destrutturazione e del vuoto. Il vero problema permanente della storia nazionale è lo scontro tra cambiamento e conservazione, riformismo e autoritarismo che attraversa questi periodi". Berlusconi scende in campo all'insegna del cambiamento. "La sua figura, invece, si rivela subito ritardatrice del processo di rinnovamento del trentennio riformistico che non aveva potuto concludere la sua opera di cambiamento sia per ragioni internazionali che nazionali, entrambe frenanti". Qual è il ruolo della magistratura? "Un ruolo corporativo. La magistratura avverte la debolezza di un potere generale e politico e mira ad essere un potere autonomo, non indipendente. Quindi, un potere politico, a sé stante. La magistratura diventa prigioniera di questa grande illusione, dimentica del fatto che l'amministrazione della giustizia resta la più alta missione nella società. Giudicare gli altri esseri umani significa infatti esercitare una funzione paradivina. Invece si è preferito acquisire potere politico". Ha ragione D'Alema quando dice che Berlusconi è stato un po' perseguitato dalla magistratura? "Non vedo il fenomeno della persecuzione ai danni di Berlusconi. Tutto rientra nel quadro di una degenerazione sistemica, di un'interferenza di ruoli da parte della magistratura. I magistrati lo hanno fatto con Berlusconi, ma lo avrebbero fatto con chiunque altro. Berlusconi è arrivato a 58 anni, quando è salito a Palazzo Chigi, senza essere mai stato inquisito. Successivamente viene indagato per mafia. Allora: o era mafioso prima, e non si comprende perché non sia stato indagato; oppure è falso ciò che avviene dopo. La questione è che quando una forza indipendente agisce come forza giudicante, non può trasformarsi in parte politica. Tanto è vero che quando è iniziata a calare l'influenza politica di Berlusconi, si è andati alla ricerca di nuovi esponenti politici da colpire anche sul piano giudiziario". A chi o a cosa si riferisce? "Parliamoci chiaro. D'Alema non sarebbe stato indagato o messo sotto controllo se fosse stato esponente di una forza politica che contava". Non rischia di essere un po' complottistico questo ragionamento? C'è davvero un disegno della magistratura teso a far fuori alcuni leader politici? "Non è un disegno. Sono dinamiche della società. Quando si crea un vuoto, qualcuno lo riempie. E naturalmente chi lo riempie parte dai propri punti di forza all'interno della società. L'illusione di Berlusconi, alimentata dalla sua incultura politica e dalla sua sprovvedutezza, era che fosse sufficiente essere solo imprenditori per governare un Paese come l'Italia". Com'erano i rapporti diretti tra Berlusconi e Craxi? "Non corrispondevano alla visione idilliaca riproposta da Stefania Craxi. Erano assai più complessi. I giudizi di Bobo Craxi sono quelli più aderenti alla verità". Che futuro vede per il centrodestra fondato da Berlusconi? "Non può durare, in democrazia, un'organizzazione politica priva di un giusto equilibrio tra il carisma della guida e la forza dell'istituzione. In questo caso c'era un'identificazione, non una differenziazione equilibrata, tra carisma e istituzione. È nella natura delle cose che la cessazione, per via naturale, del carisma porti alla cessazione dell'istituzione. Penso che la morte di Berlusconi, ad un anno dalle prossime europee, non favorisca, sin dalle prossime settimane, una fase di tranquillità per il governo Meloni". Per la sinistra che futuro vede? "Deve liberarsi dall'illusione di scegliersi il competitore, che nel centrodestra era Berlusconi, con il relativo berlusconismo. La sinistra deve ancora imparare a costruire la propria forza. Il periodo più importante del secolo prima descritto resta il trentennio riformista del centrosinistra, che ha dato fortuna e forza alle ragioni della sinistra in Italia. Una verità mai riconosciuta anche dagli eredi del Pci, secondo cui togliendo di mezzo i socialisti tutto si sarebbe risolto, definitivamente, a favore di una sinistra scampata al giudizio della Storia sulle responsabilità di una dottrina, di un'utopia che oltre a prefabbricare la società, intendeva prefabbricare anche l'uomo".
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