RIFORMISTA DAY I - ROMA 10 FEBBRAIO 2004 –Relazione introduttiva di Michele Salvati

31 agosto 2004

RIFORMISTA DAY I - ROMA 10 FEBBRAIO 2004 –Relazione introduttiva di Michele Salvati

Un po' di volpe e un po' di leone per vendere riformismo serio a una società civile ambigua Serve un unico, grande partito che riscopra la meritocrazia di sinistra e una cultura dei diritti e dei doveri ! ! ! ! La società civile Il succo dell'appello che abbiamo rivolto ai partiti riformisti è che la società civile non è fatta soltanto di girotondi o di altri movimenti che scendono in piazza e tirano la giacchetta ai "loro" politici affinché facciano una politica diversa da quella che fanno. E' composta anche da cittadini che si auto-organizzano per finalità non immediatamente politiche, e dunque da una rete di associazioni che si propongono finalità culturali, sociali, assistenziali, ricreative: una rete molto densa in alcune zone del nostro paese. Ed è infine composta da cittadini relativamente isolati, ma non per questo massa amorfa ed eterodiretta: anche costoro hanno idee, esigenze, problemi; anche costoro, in modo silenzioso, rivolgono domande alla politica. Tutti poi hanno il diritto di voto, sia chi grida in piazza, sia chi non grida, e una sinistra riformista deve avere anche il loro voto per vincere. Tutto qui, molto banale.(...) Quando Paolo Flores o Pancho Pardi si riferiscono ai girotondi come società civile certamente non sbagliano, ma aggiungono implicitamente una qualificazione e una restrizione che è necessario rendere esplicite. La restrizione è che essi si riferiscono non all'insieme della società civile (in senso stretto), ma ad una parte soltanto; la qualificazione è che la parte di società civile cui si riferiscono è la parte "mobilitata", quella che scende in piazza, che si dà parole d'ordine e strutture organizzative, che sceglie portavoce e leader. E' la parte che compie l'elementare, ma cruciale, operazione politica di definire amici e nemici, soprattutto i nemici. Insomma, si tratta di un movimento. Ora, di movimenti ce ne sono di tanti tipi e non intendo rubare il mestiere ai miei amici sociologi che li hanno descritti. Qui volevo aggiungere due osservazioni che ci possono aiutare. La prima è che i politici tendono a rapportarsi maggiormente con la parte mobilitata della società civile, specie quando questa identifica con chiarezza un soggetto politico di riferimento, a cui tirare la giacchetta, come è stato per i girotondi o per gli stessi no global: il che è comprensibile, ma non sempre saggio da un punto di vista elettorale. La seconda è che tra indici di densità della società civile e mobilitazione politica autonoma di segmenti di questa società il rapporto non è evidente, e alcuni arriverebbero a sostenere che è addirittura inverso. Mi spiego meglio: è ben possibile pensare ad una società civile densa, ad un associazionismo vitale e diffuso, che non si accompagna però ad una forte predisposizione di segmenti della società a scendere in piazza, ad auto-organizzarsi per esprimere una protesta politica vistosa. E, simmetricamente, si può pensare ad una società civile povera, con scarsa capacità di auto-organizzarsi per finalità diverse dalla politica, una società in cui la fiducia è scarsa e regna il "familismo amorale" di Banfield e però - forse proprio per questo? - predisposta a mobilitazioni collettive intense e violente: gli studiosi americani del nostro Mezzogiorno stabilirebbero subito una relazione positiva tra debolezza della società civile e ribellismo di "piazza". Non io: tra il "boia chi molla" di Ciccio Franco e il "con questi politici non vinceremo mai" di Nanni Moretti vedo molte differenze. Le difficoltà che incontra la vendita di un riformismo serio Questo basta per dare un'idea della cautela con cui dev'essere maneggiato il concetto di società civile. Il secondo punto che volevo toccare ci fa ritornare alla politica, o meglio, all'intersezione tra l'offerta politica e le domande della parte maggioritaria della società civile, quella il cui consenso è necessario per vincere le elezioni. Formulare un'offerta politica che, da un lato, sia in grado di raggiungere il consenso della parte maggioritaria della società civile e, dall'altro, lo raggiunga sulla base di un progetto riformistico serio, di un progetto di "società civilizzata ",se vogliamo continuare a giocare con i due significati del nostro concetto, è porsi un obiettivo che fa tremare le vene ai polsi. Ed è così per due motivi. Anzitutto perché, nel centro-sinistra del nostro paese, un soggetto politico che sia in grado di elaborare e proporsi un programma riformistico serio e poi di offrirlo alla società civile non c'è ancora. In secondo luogo perché, se anche riuscissimo a costruirlo (ed è questa la nostra grande speranza), e dunque se alla fine un programma riformistico serio venisse elaborato e offerto alla società civile da parte di un soggetto sufficientemente robusto e credibile, anche in questo caso "venderlo" non sarebbe per nulla facile. Fuor di metafora, non sarebbe per nulla facile trasformarlo in un messaggio elettoralmente vincente. Della prima difficoltà - il soggetto riformista - dirò qualcosa in seguito; alla seconda vengo subito. Le difficoltà principali che si incontrano nel trasformare un programma serio in un programma vincente - parlo ora in via molto generale - sono diverse e tra loro collegate. La prima e più importante ha a che fare con l'ottica di medio-lungo periodo di gran parte delle riforme proposte e dunque, inevitabilmente, con la dipendenza degli effetti benefici che da esse si attendono da processi sociali non facilmente controllabili, irti di effetti imprevedibili e talora perversi. Il legame che connette la riforma ai benefici futuri quasi sempre è stabilito mediante un ragionamento complesso, che dipende da una qualche teoria, sempre contestabile, e da informazioni, spesso insufficienti o incerte. Sicché l'entità dell'effetto benefico futuro, i tempi in cui maturerà (se maturerà), i soggetti sociali che ne trarranno beneficio sono sempre soggetti a notevoli margini di dubbio. Insomma, ben di rado le vere riforme che dovrebbero trasformarci in una società civilizzata hanno la semplicità e l'immediatezza della patente a punti: anche questa ha incontrato e incontra resistenze, ma i suoi risultati sono così evidenti, immediati e rapidi che esse possono essere facilmente superate. Purtroppo gran parte delle riforme serie assomigliano di più alle riforme del mercato del lavoro o alle riforme costituzionali: siamo proprio sicuri che la maggiore flessibilità comporti effetti benefici complessivi superiori agli svantaggi che intanto generano? E in che tempi? E per chi? E siamo proprio sicuri che il potere di scioglimento delle camere conferito al Premier risulti in un netto miglioramento del bipolarismo e della governabilità, non compensato da costi inaccettabili - nel contesto italiano – in termini di democrazia? Ho usato termini imprecisi (flessibilità, democrazia) per non farla troppo lunga e ho scelto apposta due tipi di riforme di cui sono ragionevolmente convinto. Ma altri, nella stessa sinistra riformista, possono non esserlo e possono difendere l'opinione contraria sulla base di ragionamenti teorici e di informazioni empiriche (quasi) altrettanto buoni di quelli che hanno convinto me. Questa situazione ha due conseguenze. La prima è che contribuisce a mantenere in vita contrasti all'interno dei soggetti politici riformatori, tra coloro che propongono le riforme. Tali contrasti hanno radici lontane, derivano spesso da a- priori ideologici, ma sicuramente i margini di incertezza che sono inevitabili in un processo di riforma non facilitano l'eliminazione dei dissensi: ma di questo parleremo dopo. La seconda, di cui dobbiamo parlare ora, è che questi margini di incertezza rendono difficile la "vendita" del programma, la sua trasformazione in un messaggio elettorale vincente. Ma vediamo meglio. Ben di rado riforme serie apportano benefici nell'immediato e per tutti, e quasi sempre esse promettono grandi benefici futuri a fonte di sacrifici modesti, o benefici per un gran numero a fronte di sacrifici sostenibili per pochi. Se gli effetti fossero certi e facilmente calcolabili - cioè se le difficoltà che ho descritto prima fossero facilmente eliminabili - non sempre, ma spesso, sarebbe possibile trovare una maggioranza in netto favore della riforma. Se quelli avvantaggiati nel lungo periodo fossero gli stessi svantaggiati nel breve, sarebbero loro stessi a calcolare se la riforma gli conviene: in una società ricca e colta, fenomeni di ignoranza e imprevidenza diffuse come quelli che indussero a introdurre le assicurazioni obbligatorie all'inizio del secolo scorso dovrebbero essere limitati. Se gli avvantaggiati sono in parte diversi dagli svantaggiati, ma se gli effetti della riforma fossero certi e prevedibili, i riformisti dovrebbero solo far prevalere la teoria della giustizia sulla base della quale la riforma è elaborata: e una teoria che contiene forti elementi solidaristici, come quella che la sinistra dovrebbe sostenere, troverebbe un consenso maggioritario in una società democratica. Non sempre, dicevo: gli avvantaggiati possono essere generazioni future, non nati o individui non ancora provvisti di diritto di voto, ma non credo sia il caso di proseguire l'analisi. Il punto che intendo affermare è che, in presenza di incertezza, o anche semplicemente in presenza di conclusioni ragionevolmente sicure ma derivanti da ragionamenti complicati, gli interessi di breve periodo, gli interessi che contrastano la riforma, tendono ad essere molto forti. E che costruire coalizioni maggioritarie a sostegno della riforma è molto difficile. Ora, mentre è subito comprensibile che gli interessi di breve periodo siano fortemente sentiti e difesi, perché sono deboli gli interessi e la voce di chi sarebbe avvantaggiato dalla riforma? La risposta sta in parte nell'alone di incertezza e complessità che abbiamo addotto come primo motivo della difficoltà di costruire un programma riformistico vincente. In altra parte sta in ulteriori motivi cui accenno brevemente ora. E' piuttosto raro che i possibili avvantaggiati si rendano conto del costo che essi pagano se prevalgono gli interessi di chi è ostile alla riforma. E quando ciò avviene, essi spesso (e a ragione) credono che otterrebbero solo un modesto e incerto vantaggio dalla riforma stessa. Perché i contribuenti in generale, o i futuri pensionandi in particolare, dovrebbero insistere per una più rapida eliminazione delle pensioni di anzianità in essere? E' forse sicuro che le imposte o i contributi verrebbero ridotti pro quota? O che i diritti pensionistici verrebbero aumentati? E se anche così avvenisse, non si tratterebbe forse di importi minimi? E se le risorse liberate, in una "ricalibratura" del welfare come quella che illustrerà Ferrera, fossero destinate a categorie diverse (alle madri indigenti e ai loro figli) è forse facile costruire una coalizione che si confronti a muso duro con i pensionandi d'anzianità, cui le risorse verrebbero sottratte? Insomma, gli avversari delle riforme, coloro che ne ricevono uno svantaggio immediato - pochi o molti che siano – sono sempre molto determinati. I tanti che popolano il sistema non capiscono che cosa avrebbero da guadagnare sostenendo i politici riformatori: i calcoli di compatibilità finanziaria, le valutazioni di efficienza, le promesse di diverse destinazioni che i riformatori avanzano, sono troppo complicati e incerti per essere compresi, e, anche se lo fossero, non di rado i vantaggi sarebbero ripartiti su una platea così grande e differiti su un tempo così lungo da essere irrilevanti. Questo è, ovviamente, il motivo per cui gli interessi concentrati prevalgono di solito su quelli diffusi, o perché gli interessi dei produttori sono normalmente preferiti a quelli dei consumatori e degli utenti. Forse, in qualche angolo della sinistra, è rimasta una lontana eco della giustificazione marxiana di questo favor, con riferimento agli operai e ai loro sindacati. E' una giustificazione che è crollata insieme alla teoria che la sosteneva e oggi è priva di ogni senso: gli interessi diffusi non hanno rappresentanza perché il singolo utente o consumatore ha un interesse troppo debole a farli valere. Gli interessi dei produttori sono invece forti, sono alimentati un damnum vitandum essenziale per il loro benessere presente, e spesso sono difesi da sindacati e associazioni professionali agguerrite e competenti. Quale motivo spiega, altrimenti, lo scacco costante dei governi che hanno tentato di attuare una riforma decente degli ordini professionali? L'ultima osservazione sulla difficoltà di far passare un programma riformatore serio si riferisce a un orizzonte concettuale diverso da quello della sociologia politica rational choice cui mi sono attenuto sinora. Quello di rational choice è un orizzonte efficace, che spiega bene gli stalli che subiscono riforme distributive, ma non è l'unico, perché –concentrandosi sugli interessi come sono di fatto percepiti - non tiene conto delle idee che tali interessi definiscono. Chiediamoci perché Tony Blair,un monarca repubblicano nel suo paese, il leader di un partito che raccoglie l'intero centro- sinistra - insomma un uomo che dispone di un potere di riforma che neppure nei nostri sogni più esaltati possiamo immaginare - ha fatto tanta fatica a far passare in parlamento la sua riforma sul finanziamento dell'università. Per come io l'ho intesa, si tratta di una riforma importante, efficace e giusta. Non ho qui il modo di argomentare questo giudizio, e spero che avremo modo di discuterne a lungo. Per ora accettiamolo e concentriamoci sulla domanda: perché tanta fatica nel farla passare? In un orizzonte di rational choice c'è una risposta parzialmente efficace: i parlamentari rispondevano agli interessi delle famiglie che nella riforma vedevano ulteriori ostacoli all'ascesa sociale dei loro figli e ulteriori, pesanti esborsi se volevano farli studiare. Esborsi che i genitori ricchi potevano permettersi e i poveri no: i figli dei poveri avrebbero dunque iniziato la loro carriera con un pesante debito nei confronti dello stato. Inoltre le famiglie non credevano nel programma di borse di studio che la riforma accompagnava: non sarebbe stato abbastanza generoso da includere i loro figli. Né credevano al ragionamento generale, alle compatibilità fiscali, con cui la riforma veniva giustificata: se veramente l'Università aveva bisogno di maggiori risorse, perché lo stato non aumentava il suo contributo, com'era sempre avvenuto in passato? La domanda cruciale è: perché non ci credevano, o meglio, perché non ci volevano credere? Perché definivano i loro interessi in un modo così poco lungimirante? Non ci volevano credere anche perché, non solo nella sinistra, prevale una cultura dei diritti e non una di diritti e doveri. E' per questo che rifiutavano di accettare l'evidenza che oggi l'Università gratuita o a buon mercato è un grosso trasferimento dell'intera collettività dei contribuenti a favore del ceto medio e medioalto e tale continuerà ad essere fino a quando differenze di reddito e cultura resteranno un tratto ineliminabile nelle nostre società. E rifiutavano l'evidenza che gli studi universitari sono sì un bene meritorio che la collettività deve favorire, ma sono anche un bene privato di cui i singoli si appropriano e da cui ricavano rendite per il resto dei loro giorni. Le idee contano nella definizione dei propri interessi e, per vedere meglio il punto, allarghiamo lo sguardo al nostro paese. L'università versa da noi in uno stato comatoso: è sottofinanziata ed ha abbassato i suoi standard di qualità - per accomodare l'ingresso semi-gratuito di chiunque abbia un diploma di scuola media superiore - in un modo che la pone al di sotto di quasi tutte le sue consorelle europee. Tutti i discorsi sull'istruzione e sulla ricerca, sull'importanza, anzi la centralità di questo punto nel nostro programma, sono aria fritta se non si affrontano questi due problemi. Affrontare il problema del finanziamento ci porterebbe alle riforme di Blair: vi lascio solo immaginare che cosa succederebbe in Italia. Affrontare il problema della qualità significa o escludere una parte dei diplomati dall'accesso all'università o accettare la distinzione - mettetela come volete - tra università pubbliche di serie A e di serie B. Sia per il problema del finanziamento, che per il problema della qualità ci si scontra con interessi: interessi delle famiglie e interessi dei docenti. Ma ci si scontra anche con idee radicate, che sono alla base della definizione degli stessi interessi. Per il finanziamento l'abbiamo appena visto: è l'intera dimensione dei "doveri" che va ricostruita e fatta propria dalla sinistra. Per la qualità ci si scontra contro il pregiudizio anti-meritocratico. Meritocrazia è diventata una brutta parola, un insulto nel lessico della sinistra, almeno dal '68 in poi. Ma dev'essere proprio così? Non esiste una meritocrazia di sinistra? Una meritocrazia - intendo - accompagnata da un poderoso sistema di aiuti alle famiglie, non solo di borse di studio nel periodo scolare, ma di sussidi e asili nido a partire dalla primissima infanzia, che è il momento in cui si trasmette l'eredità sociale. Sulla base delle idee e delle ricerche di Esping-Anderesen dirà qualcosa Ferrera in proposito subito dopo di me. Se c'è questo accompagnamento, però, poi i meriti vanno premiati, i "capaci e i meritevoli", come si diceva nel buon tempo antico, vanno sostenuti. Sono passati più di vent'anni dal congresso socialista di Rimini, quello sui meriti e i bisogni: possibile che stiamo ancora ripetendo mantra sessantottini che ormai non riescono più a nascondere gli interessi di docenti pigri e di studenti illusi da un pezzo di carta? Alla discriminazione tra università buone e cattive, tra studenti capaci e incapaci, si arriva lo stesso. Solo che le università buone saranno quasi tutte private o straniere e gli studenti capaci saranno solo quelli nati nelle famiglie giuste. E' questo che si vuole? Mi sono soffermato a lungo sulle difficoltà che un governo riformatore incontra nel far passare un programma di riforme serie, congruenti con le esigenze del nostro paese e con una visione della giustizia sociale che una sinistra liberale (un centro-sinistra, se volete) dovrebbe sostenere: quella visione di cui parlerà Ferrera nella terza "ricalibratura" del welfare che illustrerà nel suo intervento. Sono difficoltà che nascono dal contrasto con interessi di breve periodo, ma anche con idee ricevute e profondamente radicate. Far passare le riforme sotto il vincolo democratico del consenso è un'arte, un'arte difficile, cui Albert Hirschman ha dedicato pagine illuminanti. Prima di Passare a qualche commento sul soggetto politico riformatore vorrei però chiudere un'ultima scappatoia a chi sottovalutasse il problema e poi fare qualche osservazione finale su come esso può essere affrontato. Venerdì scorso ho ascoltato una puntata di Otto e mezzo in cui l'ospite di spicco era Sandro Bondi. Bondi sosteneva - c'era anche Polito e se lo ricorderà - che le riforme attuate dal governo Berlusconi erano ottime ma che cinque anni di intervallo tra un'elezione politica e un'altra sono un intervallo di tempo insufficiente perché l'elettorato si accorga dei benefici. La prima osservazione è falsa, ma la seconda è vera, maledettamente vera, se le riforme non sono tutte del tipo della patente a punti. Se è vera, essa toglie una via d'uscita a chi pensasse che, riforma per riforma, possono sì generarsi proteste e dissensi, ma poi l'elettorato si accorgerà che il disegno complessivo ha messo il paese su una pista migliore e dunque premierà il governo che le ha fatte. Cinque anni sono pochi per valutare nel suo insieme un disegno riformatore. Anzitutto i benefici normalmente maturano più tardi e, ironia della sorte, può avvantaggiarsene un governo successivo di diverso colore politico: è già accaduto e può accadere ancora. Inoltre, se alla fine della legislatura la situazione migliora, ciò può avvenire per i motivi più diversi (It's the economy, stupid) e l'opposizione può sollecitare gli interessi lesi nel frattempo sostenendo che il miglioramento è avvenuto nonostante le riforme. La tagliola tra la necessità di consenso e lentezza nella maturazione degli esiti positivi delle riforme (nonché la difficoltà di valutazione di tali esiti) non è evitabile. E allora? Allora, inevitabilmente, la strategia da perseguire si compone di due indirizzi tra loro in parziale contrasto, è un cocktail tra un ingrediente "volpe " e un ingrediente "leone", per prendere a prestito i consigli che dava Machiavelli al Principe.Dove però la componente "volpe" deve apparire (e, se vuole apparire, deve essere) nettamente minoritaria: diciamo, 1/4 volpe e 3/4 leone. La componente volpe - e i politici navigati che ho davanti mi hanno già capito - è quella che asseconda gli interessi e i pregiudizi correnti. O meglio, non se li rende nemici tutti insieme. E' quella che segue i consigli di Hirschman, che usa strategia e astuzia, if you can't beat them,join them,se non puoi sconfiggerli, alleati con loro. Guai però se questo sapore del cocktail diventasse troppo forte, se i cittadini avvertissero che la miscela sa troppo di volpe, sarebbe una bevanda disgustosa. E' questo il rischio vero, in un paese corporativo come il nostro e in una politica all'italiana: proprio non vedo il rischio opposto, che prevalga il sapore del leone.Ma è proprio questo il sapore che deve prevalere, il sapore del coraggio e dell'innovazione. Se questo è forte, molte cose possono essere perdonate al governo, molti interessi dovranno piegare la testa, molti pregiudizi verranno superati e la valutazione a fine legislatura non si ridurrà ad un calcolo al bilancino di costi e benefici: si sarà creata un'opinione pubblica favorevole, una maggioranza che asseconderà lo sforzo del governo e gli rinnoverà la sua fiducia. Il gusto del leone è fatto di due cose, un hardware e un software. L'hardware sono le riforme stesse, che devono essere passate in parlamento e soprattutto attuate, e controllate nella loro attuazione. Il software è la loro giustificazione d'insieme, la visione che le accompagna. Io ho l'impressione che la gran parte dei cittadini si renda conto che viviamo in momenti difficili, che la prospettiva del ristagno, se non del declino, ci sovrasta e che, in tutti i settori della nostra società, è necessario sforzo e unità d'intenti. Gran parte si rende conto che la moneta unica è stata solo la prima tappa di un processo di risanamento della nostra economia e della nostra società, e che altri e più difficili passaggi ci attendono (in retrospettiva, quanto rivelatore di profonde inadeguatezze culturali è stato l'atteggiamento di tanti miei colleghi parlamentari dopo l'ingresso nella moneta unica: "finiti i sacrifici, ora si spartisce la ciccia"). E gran parte degli italiani si rende conto che questo processo sarà lungo, come lungo è stato il processo che dai fasti del miracolo economico ha condotto il paese nella situazione in cui è ora. E quindi attenti a non buttare tutta la colpa sul centrodestra: la vera colpa del centrodestra (al di là dell'anomalia Berlusconi) è quella di aver illuso il paese, di aver perso tempo, non quella di aver provocato la situazione in cui siamo. Se non mi sbaglio in queste impressioni – ma posso benissimo sbagliarmi, e sarebbe meglio consultare qualche buon spin doctor, perché se ha ragione il pifferaio di Hamelin dobbiamo cambiare completamente strategia - non dovrebbe essere difficile costruire un software ideologico adatto ad assecondare un programma di riforme serie, orientate ad una coerente teoria della giustizia di impianto liberale e solidaristico. Meriti e bisogni, per impugnare una fiaccola che ci siamo rifiutati di impugnare vent'anni fa. Ma, lo ripeto, io non sono un "elettore rappresentativo " e il software è meglio farlo disegnare da qualcuno che se ne intende, come fa Berlusconi. Medice, cura te ipsum E vengo all'ultimo punto, al soggetto riformatore. Non c'è programma di riforma che sia così bello e convincente da poter essere sostenuto da un soggetto qualsiasi, da un soggetto che non sia altrettanto convincente e credibile del programma stesso. Se si tratta di un programma serio, di un programma che invita gli italiani ad una vera e propria rivoluzione culturale, che chiede anche sacrifici, allora la rivoluzione e i sacrifici devono cominciare da chi propone il programma, dal soggetto riformatore. Insomma, il soggetto riformatore è parte, e parte essenziale, del programma. Di questo io sono profondamente convinto e ho cercato di giustificare questa mia convinzione in numerosi scritti, da ultimo nel libro sul partito democratico. Come sono convinto che, con la lista unitaria, qualche passo avanti è stato fatto, anche se ancora insufficiente. Ovviamente sono consapevole che il centro-sinistra è un soggetto plurale, che il programma sarà l'incontro di punti di vista diversi: non si può pretendere che,diviso l'intero arco politico in due schieramenti contrapposti, come l'esigenza di alternanza e il bipolarismo impongono, all'interno di ognuna delle due metà tutti abbiano poi le stesse idee. Si può però pretendere che all'interno di ognuno dei due schieramenti ci sia un soggetto prevalente: nel nostro caso un soggetto liberal-solidaristico, con il dirittodovere di definire i tratti essenziali del programma, così come terrà in pugno la barra del governo, se vincerà le elezioni. Non tutti, tra di noi, sono convinti di quanto ho affermato nella stessa misura in cui ne sono convinto io. Alcuni, pochi, nutrono ancora dubbi sulla logica stessa del bipolarismo, e forse rimpiangono i bei tempi del proporzionale, con alleanze mobili in parlamento che facevano e disfacevano i governi. Per me, quelli, sono stati tempi pessimi, tempi che hanno condotto ad una politica economica irresponsabile, che ci ha gravato di un debito paralizzante. Tempi di consociazione, in cui era impossibile addossare la responsabilità ad alcuno e fargli pagare il conto per come l'aveva esercitata. Ma credo che, tra noi, i sostenitori del proporzionale e del parlamentarismo estremo siano veramente pochi. Molto più numerosi sono i politici gelosi delle vecchie identità di partito. Anch'io sono geloso della mia, e porto la responsabilità della mia storia: di socialista libertario e radicale in gioventù fino alle posizioni liberal-socialiste che ora sostengo. Ma sono disposto a sostenere e difendere le mie convinzioni anche in un partito riformista e sono convinto che per il 90% esse coincidono con quelle di coloro che provengono da tradizioni riformistiche diverse dalle mie. Come sono convinto che il restante 10% sia ulteriormente riducibile mediante convivenza e discussione e quanto residua sia insufficiente a imporci una identità organizzativa autonoma. Questa è stata la mia esperienza coll'Ulivo e credo sia stata l'esperienza degli amici che hanno partecipato al gruppo Artemide. E allora perché queste resistenze? Capisco le cautele, molto meno le resistenze. E passi che non le capisca io, ma come fanno a capirle coloro, e sono sempre di più tra gli elettori, che delle nostre origini, delle vicende della prima repubblica, non sanno nulla? Siccome non sono nato ieri, c'è una forte componente retorica nelle mie domande: in realtà conosco bene le origini delle diffidenze che esistono tra noi riformisti: le differenze di modelli organizzativi e di "filosofia" tra Cisl e Cgil (quante volte ne ho discusso col mio amico Guido Baglioni!) o le differenze di cultura ancora esistenti tra cattolici liberali e liberalsocialisti, che è ciò che sono diventati o sono in procinto di diventare gli ex-comunisti riformisti. Ma non ditemi, vi prego, che sono queste differenze a impedirci di stare in un unico, grande, partito democratico. Sono invece differenze feconde, se conducono ad uno sforzo di comprensione reciproca, ad uno scatto culturale in due direzioni. In direzione storica, anzitutto: come possiamo, credibilmente, sostenere lo sforzo del Presidente della Repubblica che invita centro-destra e centro-sinistra ad una storia condivisa (io preferirei dire storia accettata) se non siamo capaci noi, nel centro-sinistra, di leggere la storia della prima repubblica in un modo simile, se ci portiamo appresso categorie incompatibili, incomprensioni e risentimenti? La seconda direzione nella quale dovremmo muoverci è di natura ideologico-filosofica: verso un impianto liberalsolidaristico anch'esso in larga misura condiviso, che ci fornisca una base filosofica, di teoria della giustizia, da cui derivare le nostre proposte di riforma. Questo io trovo un compito esaltante per un partito o una federazione vera tra i riformisti italiani. Mi scuso di avervi inflitto la mia privata ossessione del Partito Democratico. Non è però ossessione, è necessità, quella di inventarsi un centro propulsore riformistico credibile, che, già da subito, non continui a dividersi su argomenti importanti all'ordine del giorno: dalle riforme costituzionali, alle pensioni, al finanziamento delle diverse missioni all'estero dei nostri militari. Più ci dividiamo, più ogni gruppo o partito dell'attuale lista unitaria decide di testa propria e senza avere quantomeno discusso con gli altri, meno credibile diventa un programma riformistico serio come quello cui ho alluso e di cui diranno, per alcuni aspetti, gli interventi che seguono. Naturalmente non ce l'ha ordinato il dottore di presentarci uniti, con un programma ambizioso, un programma che pretende di contrastare le forze di declino che minacciano il nostro paese. Si può tirare a campare, con un grado tollerabile di divisione. Si può scommettere, con qualche speranza di vincere la scommessa, che il centro-destra si affossi da solo. Si può fidare in un giudizio finale degli elettori che - confrontandoci con il centro-destra e senza molto entusiasmo valutino che siamo un po' meglio di loro. Cari amici, politici riformisti, vedete voi: siamo nelle vostre mani. !

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