RIFORMA FISCALE. TANTO FEDERALISMO PER NULLA. di Giovanni Crema, da Mondoperaio n. 10, ottobre 2010
14 dicembre 2010
La strada tracciata dalla Costituzione per il federalismo nel nostro paese indica che i livelli essenziali delle prestazioni devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Ma i “livelli essenziali” devono ancora essere definiti, e la manovra economica 2011-2012 ha come effetto sia tagli diretti ai Comuni sia tagli indiretti provenienti dalle Regioni, con evidenti ripercussioni sulla capacità degli enti locali di salvaguardare un “sistema minimo” di servizi, a fronte di un bisogno crescente.
D’altra parte i recenti decreti legislativi di attuazione del federalismo fiscale presentano molte carenze, o sono delle scatole ancora vuote. Essi rinviano a successivi studi ed elaborazioni che li sottraggono sostanzialmente ad ogni controllo politico e parlamentare; quindi sono pieni di incognite.
Quello sul federalismo demaniale si sta rivelando una cosa modesta. In realtà si tratta di una distribuzione disomogenea sul territorio di beni sui quali occorre un approccio molto cauto da parte degli enti locali in ordine alla loro effettiva potenzialità di valorizzazione, considerato:
- che i proventi delle eventuali alienazioni vanno per il 25% allo Stato;
- che gli enti locali perdono sul versante dei trasferimenti gli eventuali minori introiti da parte dello Stato; che sui beni immobili gli enti locali vedono venir meno le imposte e tasse (in primo luogo l’ICI) che prima incassavano. Quello sui fabbisogni standard rinvia ai successivi studi di SOSE (la Società per gli studi di settore). Quello sul fisco municipale presenta grossi limiti di dinamicità e di manovrabilità, e inoltre, nella quantificazione delle risorse da fiscalizzare, consolida i tagli operati dalla manovra economica collocandosi ben al di sotto di quello che era stato quantificato dalla stessa Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale, senza dire che è privo di almeno un miliardo di euro di copertura. Quello sui costi standard presenta anch’esso grandi incognite che rischiano di annacquare lo stesso spirito della legge delega sul federalismo fiscale.
In sostanza non vorremmo che su questo terreno si alimentasse una pericolosa tensione tra regioni del Nord e regioni del Sud; oppure, al contrario, che non cambi nulla perché si allarga il numero delle regioni prese a riferimento fino al punto che il parametro standard si avvicina alla media nazionale. Quindi sarebbe necessario che prima si definiscano i livelli essenziali delle prestazioni sociali e poi si fissi l’asticella dei “costi standard”, così da avere un parametro certo, fondato sulla coesione e la responsabilità per i “fabbisogni standard”. Invece con un colpo di reni in parte imprevisto (aria di elezioni?) il Consiglio dei ministri del 6 ottobre ha approvato, impacchettandoli in un decreto omnibus, una serie di blocchi fondamentali della riforma del federalismo fiscale: il sistema tributario delle Regioni, i fabbisogni standard in sanità, il meccanismo perequativo regionale, quello dei Comuni, e il sistema dei tributi provinciali.
L’impressione generale è che la riforma vada avanti per compartimenti stagni, senza un quadro di insieme che faccia da collante, quel quadro di insieme che la Relazione Tremonti sul federalismo fiscale del 30 giugno avrebbe dovuto fornire. Sul piano della fiscalità regionale, lo schema di decreto non è rivoluzionario. Conferma il menù di tributi oggi disponibili alle Regioni: Irap, addizionale Irpef, compartecipazione Iva. Riconosce qualche spazio di manovrabilità aggiuntivo, ma allo stesso tempo, in modo vagamente schizofrenico, lo costringe sotto la cappa di quello che secondo il ministro Tremonti rimane l’obiettivo fondamentale del governo: “non aumentare la pressione fiscale generale”. Più in dettaglio, l’Irap è pienamente confermata almeno “fino alla data della sua sostituzione con altri tributi”, a conferma che questa imposta, pur non essendo nelle corde del governo, non è facilmente rimpiazzabile. Viene ampliato il margine di manovrabilità dell’aliquota da parte della Regione, ma soltanto verso il basso, fino al limite del totale azzeramento dell’imposta.
Sul sistema perequativo delle Regioni lo schema di decreto aggiunge poco a quanto detto dalla legge delega sul federalismo fiscale. Scioglie qualche dubbio, non ne risolve altri, e suscita anche interrogativi aggiuntivi. Ad esempio, si prevede la cancellazione a partire dal 2013 di tutti i trasferimenti correnti che le Regioni attualmente erogano a favore dei propri Comuni.
Anche questi trasferimenti verranno puntualmente “fiscalizzati”, in specifico mediante una compartecipazione dei Comuni sull’addizionale regionale all’Irpef (di fatto una compartecipazione su un’altra compartecipazione!). Se, come previsto, il fondo perequativo delle Regioni verrà attivato nel 2014 (e quello dei Comuni addirittura nel 2016!) cosa succederà da qui a quella data? I trasferimenti statali alle Regioni sono soppressi dal 2012 e, come detto, sostituiti dall’addizionale Irpef all’aliquota base: cosa succederà di questi gettiti? Saranno attribuiti alla Regione fonte dei redditi senza alcuna forma di (pseudo)- perequazione?
Ma il vero problema è la ulteriore assenza della riforma della seconda Camera (il “Senato delle regioni”), fondamentale per il riassetto complessivo di cui il nostro paese ha bisogno.
Non basta infatti aver proceduto ad un trasferimento di competenze legislative (riforma del Titolo V), al tentativo di trasferire quelle amministrative (carta delle autonomie, in discussione) e all’avvio del federalismo fiscale (con la legge delega 42 del 2009 e i primi decreti attuativi). Senza una seconda Camera in seno alla quale trovare una sintesi fra le istanze locali e quelle nazionali attraverso una ricomposizione degli interessi e degli eventuali conflitti fra i diversi livelli interessati, nella migliore delle ipotesi si rischia di procedere con un neocentralismo di fatto che violenta e umilia qualsiasi velleità da parte delle autonomie locali e delle regioni.
Se la struttura ordinamentale è così debole quello che rischiamo di vedere attuato è un federalismo fiscale dei forti in barba all’equilibrio fra i diversi livelli istituzionali. Un federalismo fiscale in cui vedremo applicato un altro “articolo quinto”, quello per cui chi ha i soldi vince sempre. A questo punto, per il bene del paese, è responsabile chiedersi se il gioco di continuare su questa strada vale la candela.