RICORDO DI JAN PALACH di Giuseppe Nigro
16 gennaio 2019
E’ trascorso mezzo secolo da
quando la notizia che lo studente Jan Palach si era dato fuoco “come i bonzi”
fece il giro del mondo. Il paragone con il bonzo buddista che nel 1963, a Saigon, si era
ucciso dandosi alle fiamme per denunciare le discriminazioni religiose in Vietnam
fu immediato.
La breve stagione politica, nota
come la primavera di Praga, con cui Dubcek e Svodoba tentarono di riformare il
regime a partito unico, fu interrotta drasticamente nell’agosto del 1968 con
l’occupazione sovietica. La presenza dei carri armati russi in Piazza San
Venceslao segnò tragicamente la fine di
quell’esperimento. Democrazia e libertà in Cecoslovacchia furono di nuovo
conculcate, come nel 1948.
Fu proprio in piazza San
Venceslao che, nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969, lo studente di
filosofia Jan Palach, all’epoca aveva 21 anni, diede fuoco ai suoi vestiti per
protestare contro l’occupazione russa che durava ormai da cinque mesi mettendo
in subbuglio il mondo politico cecoslovacco. Il plenum del comitato centrale
del partito comunista cecoslovacco, preoccupato che altri studenti potessero
emulare il gesto, condannò l’atto suicida nel “modo più severo” (sic!).
Jan Palach non era un eroe
isolato. Egli faceva parte di un gruppo
di studenti che aveva deciso di sacrificare la propria vita pur di tenere desta
tra la popolazione la resistenza al neostalinismo. È quanto si legge nella
“lettera di congedo” che fu trovata nel portafoglio di Palach.
Un altro documento rinvenuto
rivelò che all’università di Praga si era costituito un gruppo di quindici
studenti “volontari della morte”, decisi a denunciare la censura e scuotere i
vertici del partito comunista cecoslovacco che aveva capitolato di fronte ai
russi.
Il giorno 17 gennaio i giornali
parlavano ancora di “tentato suicidio” ma che l’epilogo sarebbe stato tragico
era evidente. Il 19 gennaio giunse la notizia che Jan Palach a seguito della
gravi ustioni era morto.
Jan Palach fu per molti come me,
all’epoca studente liceale, il compagno di scuola che s’immolava per le sue
convinzioni, per la libertà. Non si era neppure lontanamente in grado di
comprendere la complessità in cui quel drammatico episodio s’inseriva. Prevalse
in molti di noi la pietas e l’indignazione contro chi impediva la
libertà, l’autodeterminazione di un popolo.
Nel mio immaginario Jan fu il
martire che si sacrificava per la patria contro lo straniero invasore. Per me
non era molto diverso dai martiri del Risorgimento italiano che avevano
combattuto sprezzanti della vita per la libertà d’Italia.
Con i miei compagni di scuola non
organizzammo una manifestazione di protesta, ma una commemorazione, un rito
funebre. Il funerale era aperto da nove studentesse che portavano ognuna una
lettera con cui composero il nome JAN PALACH. Seguiva una bara di cartone
portata a spalla da quattro studenti,
accodati una marea silenziosa di giovani studenti commossi.
Fu forse la prima e ultima
manifestazione unitaria di un movimento degli studenti nascente. Prevalse in
quell’episodio il desiderio di testimoniare umana pietà e vocazione alla
libertà. Subito dopo sarebbero seguite le divisioni ideologiche, le contrapposizioni
di gruppo, corrente, partito.
Quando anni dopo nel 1980 andai a
Praga, in piazza San Venceslao non vi era neppure un segno a ricordare la
ribellione del giovane studente. Neppure
un fiore sul luogo del sacrificio. Mi fermai in raccoglimento, fra gli occhi
indagatori di qualcuno degli astanti.
Soltanto dopo il 1989, caduto il
muro di Berlino, una piccola lapide fu
posta sotto il monumento di San Venceslao. La stessa che trovai anni dopo
quando ritornai in quel luogo a testimoniare nuovamente, con i miei figli, il
ricordo di Jan Palach.