RENZI, VELTRONI, SINISTRA. SENZA SOCIALDEMOCRAZIA di Maurizio Ballistreri, da Fondazione Nenni
01 marzo 2017
Di ritorno da San Francisco il segretario del Pd Matteo Renzi ha lanciato l’idea di un “lavoro di cittadinanza”, per fare fronte alla disoccupazione dilagante, specie nel nostro Sud (e nella nostra Sicilia), tra i giovani e gli over 50. “Bene, bravo, bis” avrebbe detto Ettore Petrolini, peccato che nulla ha fatto durante la sua presidenza del Consiglio, tranne il Jobs Act, vera e propria riscrittura regressiva dei diritti del lavoro, con la diffusione generalizzata dei voucher, il demansionamento e i licenziamenti più facili. Si tratta di una proposta fumosa, uno schermo propagandistico con il quale presentarsi alle primarie dei democrats. Il lavoro per Renzi è come l’araba Fenice descritta da Metastasio: “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”.
Una proposta seria e rigorosa, basata sul rapporto tra occupazione e diritti di cittadinanza, in ossequio al principio di cui all’art. 4 della Costituzione, che sancisce un impegno a carico dello Stato di perseguire una politica di pieno impiego per combattere la disoccupazione, che da norma meramente programmatica si trasforma in precetto poiché permette e giustifica l’intervento dello Stato nel sistema economico allo scopo di promuovere il lavoro, venne elaborata dal grande economista di Scuola keynesiana Paolo Sylos Labini, nei primi anni ’80 del secolo passato. Sylos, coerente con i modelli all’epoca più avanzati della socialdemocrazia europea, scrisse di un “esercito di lavoro” per servizi di interesse sociale, soprattutto nei settori dell’ambiente, della pubblica utilità e della protezione civile, nel quadro, ovviamente, di una politica espansiva dell’economia, basata sulla domanda aggregata, alternativa, quindi, all’austerity dei nostri giorni imposta da Frau Merkel all’Europa e accettata dai governi Renzi-Gentiloni.
In una lunga intervista al fondatore de “la Repubblica”, Eugenio Scalfari, Walter Veltroni, a sua volta fondatore del Partito democratico, invero frutto di un esperimento di genetica politica, “un compromesso storico bonsai” tra ex democristiani ed ex comunisti, ha ricostruito l’esperienza storica della sinistra italiana dal ‘900 sino ai giorni nostri. Naturalmente c’è solo il filone del Pci, con l’esaltazione di Berlinguer e della sua “questione morale”, depurata ovviamente dal lato oscuro dei copiosi finanziamenti sovietici ai comunisti italiani e dei rapporti con le coop rosse, e nemmeno una parola sui socialisti. Come se Andrea Costa, Filippo Turati, Giacomo Matteotti, Bruno Buozzi, Carlo Rosselli, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Riccardo Lombardi, Giacomo Brodolini, Francesco De Martino (di Bettino Craxi manco a parlarne!), solo per citare alcune delle personalità del socialismo italiano, non fossero mai esistiti, e il socialismo italiano, nei suoi diversi tronconi, non abbia rappresentato un asse fondamentale e decisivo per la costruzione della democrazia e dei diritti sociali e civili in Italia.
Vengono alla memoria le parole di Nenni nell’articolo pubblicato sull’”Avanti!” del 28 gennaio 1945, dal titolo “Un anno di lotte politiche”, in relazione alla proposta di Togliatti del “partito unico dei lavoratori italiani”, che, mutatis mutandis, si ritrova nell’appello all’unità veltroniano. Nenni evidenzia come il leader comunista parlasse nei suoi scritti di “un’unione più stretta, completa, la quale potrà esprimersi soltanto con la creazione di un partito unico”, ma solo esaltando Lenin e Engels e liquidando la tradizione teorica e politica pluralista del socialismo italiano. Dietro l’immagine del democratico all’ ”americana”, Veltroni mostra sempre la matrice settaria delle proprie origini, con tanto di quell’antisocialismo che proprio in Eugenio Scalfari ha avuto un portabandiera.
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