RELAZIONE INTRODUTTIVA DI ENRICO BOSELLI AL CONSIGLIO NAZIONALE DELLO SDI - Roma, 6 novembre 2005
12 novembre 2005
Con questo nostra riunione dobbiamo portare a conclusione il processo che avevamo avviato con il patto federativo tra socialisti e radicali.
Noi ci eravamo prefissati di sviluppare con grande tempestività un confronto che non avesse solo come obiettivo la presentazione di una lista elettorale per il voto del 2006 ma soprattutto una finalità di notevole portata come la costruzione di un nuovo soggetto politico laico, socialista, radicale e liberale.
La convenzione per le libertà, che abbiamo svolto a Fiuggi, ha definito una prima piattaforma programmatica che ha voluto essere un’anticipazione di un progetto comune di ampia portata, con un esplicito riferimento a nomi assai significativi come Blair, Zapatero e Fortuna. Sulla base di questi risultati i radicali con il Congresso di Riccione hanno dato una valutazione positiva del lavoro comune e semaforo verde al varo di una nuova forza politica da presentare agli italiani entro il prossimo 15 novembre.
Nell’intervento che ho svolto a Riccione ho cercato di dare una concretezza ancor maggiore alle intese che abbiamo raggiunto, annunciando che avrei proposto a questo nostro Consiglio nazionale l’adozione della “Rosa nel pugno” che è il simbolo dell’Internazionale socialista e di importanti partiti del socialismo europeo, di cui i radicali hanno acquisito dai socialisti francesi a suo tempo il possesso e per questo motivo non ne era stato mai possibile l’uso da parte nostra. E’ un bel simbolo che racchiude bene la tradizione socialista come quella radicale.
Stiamo lavorando per arrivare al più presto a definirne i dettagli e siamo certi di poterlo presentare tra pochi giorni.
Spetta ora allo Sdi pronunciarsi formalmente. Una volta che avremmo preso la nostra decisione, saranno stati compiuti tutti gli atti formali necessari per la creazione di una nuova forza politica tra socialisti e radicali.
Si tratta di una importante novità che introduciamo nella scena politica italiana.
Questo nuovo soggetto non vuole essere una pura e semplice sommatoria di socialisti e radicali. Vuole invece costituire un punto di riferimento per tutte le elettrici e per tutti gli elettori che richiedono una forte innovazione del centro sinistra.
L’incontro tra la tradizione socialista e quella radicale non risale ai tempi d’oggi. Tutti ricordano le comuni battaglie per l’introduzione della legge sul divorzio, come quella per la legalizzazione dell’aborto, delle quali furono protagonisti Marco Pannella e Loris Fortuna.
Tuttavia il rapporto tra socialisti e radicali si è sviluppato nel tempo sino al punto che vi sono stati iscritte e iscritti, compresi alcuni importanti dirigenti che hanno avuto la doppia tessera, quella del PSI o del PSDI e quella del partito radicale. Ma per comprendere meglio queste forti convergenze che vi sono state, bisogna ricordare che i radicali sono riconducibili alla migliore tradizione del liberalismo riformatore in Italia.
Ecco il perché abbiamo definito il nuovo soggetto politico che vogliamo costruire non soltanto socialista e radicale ma anche laico e liberale.
Il confronto tra socialisti e liberali e all’interno dello stesso movimento socialista sui temi della libertà ha una grande tradizione nella storia d’Italia. Sono stati soprattutto il pensiero e l’opera di Carlo Rosselli con il suo ‘Socialismo liberale’ a portare avanti un tentativo per realizzare un forte rinnovamento della cultura politica del socialismo italiano, rivolto a farlo uscire dalle secche di tanti dogmatismi che hanno pesato sulla storia dell’antico movimento operaio. Questo filone ha avuto in Gaetano Salvemini un antesignano, si è diramato nella storia d’Italia prima con il movimento di “Giustizia e libertà”, poi con la costituzione del partito d’Azione sino al partito Liberale dove vi è stata una corrente di sinistra che seppe interpretare in senso riformatore le istanze di libertà e da queste radici venne la costituzione del moderno partito radicale.
Questa relazione tra il socialismo democratico e il liberalismo riformatore non è tuttavia confinata all’Italia, ma ha avuto una dimensione europea e internazionale. La stessa costruzione dello Stato sociale trova nel ‘New Deal’ di Franklin Delano Roosevelt e nel rapporto di William Beveridge due fondamentali pilastri di riferimento.
Le differenze storiche tra il socialismo democratico e il liberalismo riformatore, consistevano innanzitutto nel diverso approccio che era dato ai temi della società e a quelli dell’economia. Da parte dei socialisti si tendeva a porre l’accento più sulla collettività, mentre da parte dei liberali si è sempre considerato primario il valore dell’individuo.
Solo con la svolta di Bad Godesberg, fatta nel 1959 dalla SPD, la socialdemocrazia accettò pienamente l’economia di mercato, mandando – come allora si disse – il marxismo in soffitta.
Tuttavia, nella concezione dei socialdemocratici, impegnati nella costruzione dello Stato sociale, si era continuato a ritenere che vi fosse un rapporto quasi meccanico tra l’espansione della sfera pubblica nell’economia e l’ampliamento della democrazia. Vi era nell’affermazione di questo legame una netta sottovalutazione del ruolo che gioca la burocrazia negli apparati pubblici e dello Stato: un vero e proprio diaframma insuperabile tra coloro che affidano il mandato di governare e coloro che lo ricevono.
La crisi dello Stato sociale non nasce essenzialmente come crisi fiscale: come dimostra il modello scandinavo, è assolutamente possibile conciliare una elevata pressione fiscale e una forte sviluppo economico. Sono proprio questi processi di burocratizzazione, accanto ad altrettanti pesanti fattori corporativi che riguardano anche i sindacati, a ingenerare inefficienze e disfunzioni nelle prestazioni e nei servizi sociali.
Ha ragione Emma Bonino quando sostiene che ad essere maggiormente investito dalla crisi è il modello tedesco renano sia rispetto a quello scandinavo sia rispetto a quello anglosassone.
Posso aggiungere che nell’ambito della socialdemocrazia europea si sta determinando una convergenza tra socialdemocratici scandinavi, laburisti inglesi e socialisti spagnoli nelle politiche da seguire: il livello della pressione fiscale non è definito nei diversi paesi sulla base di astratte teorie economiche ma sul grado di accettazione rilevabile tra i cittadini. Gli stessi socialdemocratici tedeschi da tempo si sono resi conto dell’esigenza di procedere ad una forte revisione del modello Germania e le stesse riforme del governo Schroeder hanno dato alcuni risultati positivi.
Da tempo la socialdemocrazia europea ha cambiato la sua visione delle cose. Nel campo del socialismo europeo è avanzata una nuova concezione che è stata chiamata “Terza via” e che si è espressa nel manifesto lanciato da Tony Blair e da Gerhard Schroeder. I socialisti italiani sono stati tra i primi ad impostare un rapporto con il pensiero liberale: la Conferenza di Rimini è stata sicuramente un punto essenziale di questa revisione che è stata portata avanti dal Psi. Lib-Lab ha costituito un vero e proprio slogan, lanciato a suo tempo da Intini e da Bettiza, che ha espresso in termini semplici questo rapporto essenziale tra la tradizione socialista e quella liberale.
Del resto, nella costruzione del primo centro sinistra l’apporto dei liberali riformatori è stato davvero decisivo. Personalità, come Ernesto Rossi, hanno saputo indicare quali dovessero essere gli obiettivi che i socialisti, una volta al governo, avrebbero dovuto realizzare per rinnovare il Paese. È a queste elaborazioni che noi ci siamo riferiti ripetutamente nel corso dell’ultimo decennio, dopo la drammatica fase nella quale è avvenuto il collasso del nostro sistema politica italiano e la crisi del PSI e dello PSDI.
Non si può, quindi, affermare che nel rapporto tra socialisti democratici e liberali riformatori vi possa essere una sottovalutazione della questione sociale o di quella dei diritti del mondo del lavoro poiché, come ha sottolineato proprio a Fiuggi il segretario della UIL Luigi Angeletti, libertà individuale e sicurezza sociale non si presentano oggi come due esigenze contrapposte.
Questa visione innovatrice è stata sempre alla base della riflessione e delle elaborazioni dello SDI. Noi socialisti non ci siamo affatto rinchiusi all’interno dei confini della tradizionale socialdemocrazia, pur essendo forte e ripetuto il richiamo alla nostra identità messa in forse dal cataclisma politico che è avvenuto. Data la drastica riduzione della nostra consistenza elettorale non potevamo puntare a un puro e semplice lento accrescimento dei consensi del movimento socialista. Neppure era più possibile concepire un nostro impegno per la costruzione di un partito socialdemocratico di tipo europeo sulla base delle forze in campo nella sinistra tradizionale. Infatti, se si considerano i DS e lo SDI, ci si accorge facilmente che la somma di questi due partiti non avrebbe potuto e non potrebbe riuscire a creare una grande forza riformista, equivalente alle grandi socialdemocrazie europee.
Abbiamo ritenuto, sin da quando fu sciolto il PSI, che una ripresa socialista dovesse avvenire sia per lo SDI ma anche per i DS su una base riformista più ampia.
È da questa valutazione che è iniziata da parte nostra la ricerca di interlocutori con i quali iniziare un cammino comune soprattutto nel campo dei liberali riformatori, dei cattolici progressisti e degli ambientalisti riformisti.
Quello che è apparso una sorta di continua ricerca tattica di alleanze di tipo esclusivamente elettorale, e mi riferisco ad alcune amichevoli osservazioni che ci ha fatto Paolo Franchi sul Corriere della Sera, sono riconducibile al fatto che i socialisti non potevano concepire un proprio rilancio come soggetto politico influente nella società italiana solo sulla base della propria tradizione, della propria storia e della propria memoria.
Proprio per questo motivo noi giudicammo molto positivamente l’idea di costruire una casa dei riformisti lanciata da Romano Prodi. L’Ulivo si presentava come una prospettiva strategica che avrebbe dovuto finalmente superare gli storici steccati tra cattolici-democratici e laici credenti e non credenti e costituire una nuova formazione democratica capace di assicurare un forte timone riformista a tutta la alleanza di centro sinistra. Su questa prospettiva strategica noi ci siamo cimentati con una riflessione che ha attraversato ben due nostri congressi, con un impegno in ben due esperienze di liste unitarie che sono avvenute nelle ultime europee e nelle ultime regionali, con nostri sacrifici evidenti a cui siamo stati costretti per il diverso peso che nell’ambito di questa intesa avevano rispettivamente i DS, la Margherita e lo SDI.
Noi non siamo stati certo tra coloro – e voglio apertamente ribadirlo - che hanno contribuito a mettere in crisi questo progetto. Anzi, noi siamo stati tra coloro che più volte si sono adoperati per cercare di evitare che l’Ulivo, come prospettiva strategica, venisse archiviato.
Da una comune condivisione strategica, e non solo da un consolidato rapporto di amicizia personale e di solidarietà politica, è venuto da parte dello SDI un sostegno pieno e convinto a Romano Prodi come candidato premier che abbiamo voluto confermato, e non certo per forza d’inerzia, in occasione delle Primarie, pur in un quadro in cui l’Ulivo era ormai in crisi.
Noi socialisti non abbiamo abbandonato l’Ulivo, ma abbiamo constatato che si era verificata una crisi di portata strategica alla quale bisognava prontamente reagire. La crisi dell’Ulivo non è stata di carattere congiunturale, non è nata da una pura e semplice volontà di competizione della Margherita nei confronti dei DS, non è stato un accidente di percorso che può essere facilmente superato.
Francesco Rutelli non ha solo bloccato la presentazione di una lista unitaria nella quota proporzionale alla Camera, come è regolata nella legge maggioritaria che Berlusconi sta cambiando, ma ha anche assunto una posizione sul referendum sulla fecondazione assistita che è stata in sintonia con le posizioni più arretrate delle gerarchie ecclesiastiche e in particolare con quella del presidente della Conferenza Episcopale, il cardinale Ruini. Queste due posizioni non devono essere assunte come atti distinti, ma sono le facce di una stessa medaglia.
Con questa nuova impostazione la Margherita ha puntato ad una divisione dei compiti tra centro e sinistra che è l’esatto contrario di ciò che implicava la costruzione dell’Ulivo. E noi sappiamo bene che il centro, calato nella nostra storia, è destinato inevitabilmente ad assumere connotati cattolici. È del tutto evidente – o almeno a noi è assolutamente chiaro – che l’Ulivo non può svilupparsi se al suo interno una delle sue forze maggiori si caratterizza sulla base di principi religiosi e stabilisce rapporti preferenziali con le gerarchie ecclesiastiche.
Non vi può essere né partito riformista né partito democratico in un puro e semplice raggruppamento elettorale che metta insieme il centro cattolico e la sinistra socialdemocratica.
Da questa sommatoria non può nascere quella contaminazione positiva tra tradizioni e culture riformiste diverse che è alla base del progetto di Romano Prodi, ma un assetto che è destinato a conservare puramente e semplicemente uno status-quo.
La falla che si è aperta nel progetto dell’Ulivo è avvenuta sul terreno della laicità.
La rapida riconversione, fatta da Francesco Rutelli dopo il grande successo politico e personale di Romano Prodi alle primarie, appare una mossa tattica dettata da un sano realismo, poiché non è stata accompagnata da una profonda revisione critica delle posizioni neointegralista che la Margherita aveva assunto prima, durante e dopo il referendum sulla fecondazione assistita.
Noi socialisti assieme ai radicali non abbiamo aperto alcun fronte laico contro la Chiesa, ma abbiamo individuato un nostro fondamentale ruolo comune nel cercare di contrastare l’offensiva neointegralista delle gerarchie ecclesiastiche.
Le nostre posizioni non sono affatto dovute al riemergere di un’antica tradizione anticlericale che pure ha fatto parte della storia del movimento socialista.
Non si è affatto aperta una contesa tra il cardinale Ruini che vuole trasformare valori della Chiesa in leggi dello Stato e i socialisti e i radicali decisi a imporre a tutti una sorta di ideologia laica che negherebbe il senso profondo del sentimento religioso.
Le cose non stanno così.
È ben lontana da noi una posizione che tenda a sottovalutare il ruolo che la fede può avere sia nella vita privata sia nella vita pubblica. Non ci sfugge affatto l’opera che tante associazioni cattoliche fanno a vantaggio di coloro che sono esclusi ed emarginati. Non ignoriamo che ci sono tanti parroci che cercano di dare un contributo per migliorare la convivenza civile. Non c’è una contrapposizione tra il teismo di Stato e l’ateismo di Stato. Nelle fila dello SDI vi sono cattolici con posizioni di primo piano.
Ciò che riemerge, a quasi un secolo e mezzo dalla presa di Porta Pia, è la questione vaticana. La Chiesa, dopo aver perso il potere temporale, ha chiesto ed ottenuto dallo Stato italiano una serie di privilegi che sono stati considerati come una sorta di riparazione al fatto che Roma sia stata sottratta al potere dei Papi.
Si tratta di elargizioni crescenti che hanno un riflesso nei nostri conti pubblici, ma anche di questioni – e sono le più importanti – che determinano una vera e propria limitazione delle libertà di tutti i cittadini. Le gerarchie ecclesiastiche si muovono ancora nel nostro paese come se il cattolicesimo fosse ancora la religione di Stato e tutti gli altri culti e tutte le altre concezioni filosofiche fossero tollerate o comunque destinate a svolgere un ruolo modesto.
Noi sappiamo bene che proprio attraverso la revisione del Concordato operata da Craxi, si è definitivamente cancellata l’affermazione che il cattolicesimo è la religione dello Stato italiano. Tuttavia da questo importantissimo cambiamento non si sono affatto tratte tutte le conseguenze.
È vero che nel Concordato viene confermato l’insegnamento religioso nelle scuole, gestito dalla Curia, anche se questa scelta è accompagnata da una cornice nella quale è fatta salva la libertà degli studenti e delle famiglie di seguire o non seguire questo tipo di lezioni.
A ciò si è però aggiunta una sorta di cassa di integrazione del Vaticano, secondo la quale gli insegnanti di religione, licenziati dalla Curia, sono comunque mantenuti in ruolo dallo Stato per altre materie. Contraddicendo il dettato costituzionale, che prevede la libertà delle scuole senza oneri per lo Stato, si sono finanziati gli istituti cattolici. Da ultimo per evitare gli effetti di una sentenza della Corte di Cassazione, si sta facendo una legge per esentare le attività commerciali gestite dalle confessioni religiose dall’Ici, con un criterio che contrasta nettamente con i principi di eguaglianza. Esiste un sistema di finanziamento della Chiesa basato sull’8 per mille, ma i soldi che se ne ricavano non sono solo quelli appositamente destinati da coloro che lo decidono nella propria dichiarazione dei redditi: si è trovato un sistema per cui la proporzione, tutta a vantaggio della Chiesa, tra coloro che esprimono la propria scelta viene utilizzata per spartire anche tutte le risorse di coloro, e sono la maggioranza, che non si pronunciano affatto.
Su tutte queste questioni è calato un velo di acquiescenza, basato su una aspirazione a vedere finalmente chiusa la questione vaticana, nella speranza che in tal modo le gerarchie ecclesiastiche non sarebbero entrate più a gamba tesa negli affari politici del nostro Paese.
Le cose sono andate assai diversamente.
Il presidente della Conferenza Episcopale in prima persona non solo ha difeso i valori della Chiesa, come era del tutto naturale, ma ha dato dettagliate indicazioni sul modo più efficace in cui vanificare il referendum sulla procreazione assistita, invitando elettrici e elettori, come se fosse il capo di un partito politico, ad astenersi.
A questo punto, si sarebbe potuto invocare lo spirito del Concordato per chiedere alle gerarchie ecclesiastiche di porre fine ad una vera e propria ingerenza.
Dato che noi non ci sogniamo di esercitare forme di censura nei confronti di chicchessia, tanto meno nei riguardi della Conferenza Episcopale e del suo presidente, l’unica strada che ci restava era quella di rilevare che così erano state poste le premesse per il superamento del Concordato.
Questa sollecitazione non è stata quindi un colpo di testa, una trovata pubblicitaria o peggio una provocazione, ma la conseguenza del modo in cui la Cei si è comportata.
Sappiamo bene che le gerarchie ecclesiastiche difendono tutti questi privilegi, compresa la possibilità di orientare elettrici e elettori, sulla base del fatto che la religione cattolica è prevalente in Italia.
Chi contrasta questa offensiva neo integralista è, quindi, descritto come una sorta di anticlericale e di mangiapreti che vuole strappare le radici cristiane dal nostro Paese.
Questa posizione della Chiesa, che tende a conservare e ad espandere il proprio primato in Italia, non può però avere un valore universale a livello internazionale perché, se così fosse, si ritorcerebbe contro la stessa libertà dei cattolici nel mondo. Infatti se si accettasse come principio universale la supremazia della religione prevalente in tutti i paesi dove vi è un culto diffuso differente, i cattolici non avrebbero più argomenti per difendere la propria libertà e dovrebbero subire come se fossero giuste condizioni di inferiorità. Se in Italia si mettono i crocifissi negli edifici pubblici, con lo stesso criterio negli altri paesi si dovrebbe accettare che vi siano i simboli della religione più diffusa. Con lo stesso criterio, se si finanziano le scuole cattoliche, si devono dare risorse a quelle di tutte le altre confessioni.
Invece, solo il pluralismo che mette alla pari le diverse concezioni religiose e filosofiche può assicurare la libertà di tutti i cittadini.
Non esiste un’ideologia laicista da imporre ai cattolici. Vi sono un gran numero di cattolici che sono laici. Quando noi parliamo di laicità ci riferiamo ad una concezione dello Stato che si basa su principi e valori condivisi da tutta la comunità, senza che ciò significhi stabilire una sorta di gerarchia tra chi la pensa in un modo e chi la pensa in un altro. È il pluralismo che viene messo in discussione dall’offensiva neo integralista.
Non è quindi di poco conto riaffermare il principio della laicità dello Stato. Noi abbiamo altamente apprezzato che in occasione della visita del Papa al Quirinale, il presidente della Repubblica abbia riconfermato la laicità dello Stato. Ci ha invece stupito che Benedetto XVI abbia colto questa occasione ufficiale per proporre al nostro presidente della Repubblica e quindi a tutti i nostri cittadini un modello diverso basato sulla “laicità sana”, che corrisponde esattamente ad una richiesta di primato dei valori della Chiesa cattolica in Italia. Abbiamo più volte dato atto a Romano Prodi di avere difeso nelle parole e negli atti questi principi fondamentali della nostra democrazia liberale.
La laicità non abbraccia tutti i temi politici e programmatici che sono di fronte a noi.
Tuttavia non si tratta di una questione settoriale come tante altre. La laicità coincide con la libertà.
Senza laicità vi è una libertà limitata. E la libertà limitata si avvicina pericolosamente ad essere una non libertà.
Tutto ciò non ha un riflesso solo nel campo dei diritti civili, nel costume e negli stili di vita. E già questi temi sono di grande rilevanza per la vita dei cittadini. Pensiamo al significato e all’utilità che hanno avuto leggi come quella sul divorzio e quella sull’aborto. Pensiamo a quanto potrà contribuire a migliori rapporti umani e sociali l’istituzione delle unioni di fatto.
La laicità investe la libertà della ricerca scientifica. Noi individuiamo in questa offensiva neo integralista innanzitutto una volontà di limitare in modo arbitrario e ingiustificato il lavoro degli scienziati che, aprendo nuovi campi, possono rimettere in discussione antichi pregiudizi. Nel referendum sulla procreazione assistita era in gioco anche la libertà di ricerca sulle cellule staminali embrionali.
La laicità ha un riflesso straordinario nel campo della scuola. Noi pensiamo che vi debba essere libertà di scuola, ma senza oneri per lo Stato come recita la nostra Costituzione. Siamo nettamente contrari a una diffusione nel nostro Paese, come modello prevalente, di una serie di scuole di tipo confessionale che siamo incentivate con le risorse pubbliche. Le scuole confessionali possono anche in alcuni casi fornire un ottimo insegnamento. Non saremo noi a negare questo dato di fatto. Tuttavia se prevalesse questo modello di libertà delle scuole, invece che di libertà nella scuola, noi ci troveremo di fronte a forti pressioni integraliste che limiterebbero, e fortemente, la libertà di insegnamento e con la libertà di insegnamento lo sviluppo delle singole personalità.
Tutto ciò, in una economia che pone alla sua base la qualità in un mondo globalizzato, determinerebbe un vero e proprio handicap del nostro Paese.
Non ho fatto a caso, parafrasando Tony Blair, questa affermazione: la nostra prima priorità è la scuola pubblica; la nostra seconda priorità è la scuola pubblica; la nostra terza priorità è la scuola pubblica.
Noi abbiamo chiaro che alla base dello sviluppo economico, ma anche di quello più generale della nostra civiltà, sta la formazione, l’istruzione, la diffusione della cultura e della scienza.
Io vorrei che questa nostra priorità trovasse nel programma del centro sinistra un posto di primo piano.
Noi sappiamo bene quanta passione e quante energie siano impiegate dagli insegnanti e dai docenti per cercare di mandare avanti e migliorare la scuola italiana, così carente delle risorse che sarebbero necessarie. Comprendiamo bene che, nonostante i recenti aumenti, gli stipendi degli insegnanti siano ancora a un livello insufficiente. Soprattutto non vengono dati quegli strumenti essenziali che sono necessari per l’aggiornamento continuo che l’insegnamento richiede.
Nell’epoca della globalizzazione, se c’è una classe davvero generale, cioè che risponde agli interessi di tutti i cittadini, questa non è tanto costituita da coloro che sono maghi dei programmi informatici, ma da tutti gli insegnanti che consentono ai cittadini di apprendere e, quindi, di poter entrare nel nuovo mondo. Noi pensiamo che si debba promuovere un manifesto a difesa della scuola pubblica che possa raccogliere non solo le firme delle personalità più eminenti della nostra cultura e della nostra scienza ma anche quelle di tutti i cittadini. Questo è il tema di fondo sul quale noi vogliamo impegnarci nella costruzione del programma del centro sinistra ed è questo l’argomento che vogliamo presentare alle elettrici e agli elettori come il problema più importante che scaturisce dalla stessa nostra affermazione dei principi della laicità.
La libertà non può essere una bandiera della destra.
Abbiamo visto come ha governato e continua a governare il presidente del Consiglio. È sul piano della distribuzione delle risorse e su quello dell’impulso allo sviluppo che il centro destra ha decretato il suo completo fallimento. Si è proceduto ad una riduzione delle imposte personali che non solo sono andate soprattutto a vantaggio delle classi di reddito più elevate ma non sono riuscite in nessun modo a favorire la ripresa.
Si è fatta una riforma, come quella della Moratti, che non solo non ha introdotto grandi cambiamenti ma in alcuni casi ha peggiorato lo stato di cose esistenti.
Ormai in tutto il nostro sistema di istruzione serpeggia la contestazione e l’agitazione, segni evidenti di un diffuso e fondato malessere.
In tutto questo contesto non si ha avuto non solo lo sviluppo ma non si è neppure continuata l’opera di risanamento delle nostre finanze pubbliche. I nostri conti sono fuori linea. L’eredità che sarà lasciata dal centro destra, se gli elettori ci daranno il mandato di governare, sarà tra le più pesanti. Occorreranno scelte profondamente innovative. Non si potrà certo applicare il metodo dei due tempi: prima il risanamento, poi lo sviluppo. Sarà necessario fare delle scelte.
Il nostro sistema appare sempre di più chiuso: chiuso alle nuove generazioni; chiuso alle donne; chiuso agli anziani. La parola d’ordine ‘liberalizzare’ non è rivolta contro il mondo del lavoro. La flessibilità, introdotta dalle misure del ministro Treu e dalla legge Biagi, si è trasformata in precarietà non solo perché non sono stati predisposti nuovi sistemi di sicurezza sociale, ma anche perché non si è liberalizzato il resto della società italiana, consentendo la conservazione di privilegi corporativi, di monopoli e di oligopoli nel campo delle pubbliche utilità e in quello delle assicurazioni.
Tutti sostengono che i lavoratori vanno messi sul mercato, ma molti di coloro che lanciano questi proclami si guardano bene dall’esserci sul mercato.
Il tema della libertà e della democrazia deve investire anche i rapporti internazionali. Non possiamo lasciare la bandiera della libertà ai neo conservatori in nome del realismo politico. Noi non siamo certo tra coloro che sostengono che la democrazia deve essere diffusa sulla canna dei fucili. Va fatta un’opera di convinzione e di persuasione che può, e senza interventi armati, dare consistenti risultati. Non escludiamo, però, che in certi casi estremi si debba operare anche con la forza.
Noi siamo stati nettamente contrari all’intervento unilaterale degli Stati Uniti in Iraq. Non siamo infatti del parere che qualsiasi potenza, anche la più importante potenza democratica del mondo, possa decidere da sola i destini di tutti. Ci rendiamo però ben conto che non è possibile lasciare da sola la fragile democrazia irachena, esposta com’è ai colpi del terrorismo.
Condividiamo perfettamente quanto disse a suo tempo Fassino: i veri resistenti in Iraq sono rappresentati dalle elettrici e dagli elettori che con coraggio sono andati a deporre la loro scheda nell’urna. Siamo però del parere che la presenza militare in Iraq debba avere un carattere multinazionale, rispondendo ad organizzazioni multilaterali, come sono le Nazioni Unite, la Nato e l’Unione europea.
I temi della libertà non possono neppure essere accantonati per garantire solo i nostri interessi economici. In questo modo si ripropone una sorta di imperialismo che punta solo al profitto, quale che siano le condizioni nelle quali questo si realizza. Noi non siamo stati mai per porre sanzioni di tipo economico, perché abbiamo sempre ritenuto che il libero commercio veicoli oltre alle merci anche culture, costumi e stili di vita. Tuttavia dovrebbe essere ben chiaro che di fronte ad affermazioni, come quelle fatte dal presidente iraniano, che invocano la distruzione dello stato di Israele, vi deve essere un vero e proprio allarme nel mondo. Noi abbiamo partecipato con convinzione alla fiaccolata, promossa dal direttore del Foglio, Giuliano Ferrara, poiché su questi temi fondamentali vi deve l’unità del Paese e di tutte le forze politiche. Ogni volta che si solleva questo spettro della minacciata distruzione d’Israele, in Europa la memoria va naturalmente all’Olocausto. Noi pensiamo che debbano essere contrastate in tutti i modi le tentazioni ricorrenti rivolte a colpire Israele al fine di eliminarla dalla scena del mondo. Lo Stato di Israele non va certo cancellato, come ha detto il presidente palestinese Abu Mazen, ma nelle carte geografiche deve poter apparire anche lo Stato della Palestina.
Queste nostre posizioni si sono incontrate quasi naturalmente con quelle dei radicali. Abbiamo infatti ispirazioni comuni, principi che da tempo ci legano, una vocazione forte all’innovazione. La costruzione politica alla quale ci stiamo dedicando non è rivolta solo a mettere in campo una lista elettorale, ma ha ambizioni assai più elevate: noi crediamo che un nuovo soggetto laico, socialista, radicale e liberale sia una risorsa preziosa per il centro sinistra.
L’alleanza che si ritrova intorno a Romano Prodi è pluralistica: ciò significa che vi sono forze e componenti tra loro ben diverse. Nel centro sinistra troppo spesso si dà per scontata una certa acquiescenza alle posizioni dell’estrema sinistra, mentre solleva addirittura scandalo che ci possano essere componenti, come la nostra, impegnate nella difesa della laicità.
Io sono stato sempre del parere che nel centro sinistra vi deve essere un diritto di cittadinanza uguale per tutti.
Non vi sono forze di serie A e forze di serie B. Naturalmente, come è chiaro in democrazia, chi raccoglie più consensi conta di più di coloro che ne prendono di meno. Tutti, però, devono avere la possibilità di far valere la forza delle idee che è essenziale affinché il centro sinistra possa ottenere buoni risultati.
E’ quindi assurda l’opera di sbarramento nei confronti dell’ingresso dei radicali nel centro sinistra. Nessuna riserva, invece, ha mai suscitato la presenza dei comunisti che invocano l’abolizione della proprietà privata, difendono lotte di massa magari non tanto violente ma sicuramente illegali, come sta accadendo a Bologna contro il sindaco Cofferati, esprimono solidarietà al regime di Fidel Castro, mentre giudicano il presidente Bush alla stregua di un criminale politico.
Non abbiamo affatto compreso perché si sia sviluppata una sorta di diffidenza nei confronti del nuovo soggetto politico che stiamo per mettere in campo.
Si è detto che i radicali sono tra coloro che esasperano i temi della laicità. Noi socialisti, non di meno dei radicali, sentiamo questo questione come essenziale.
E’ del resto il centro sinistra deve definirsi come una coalizione laica, al riparo da qualsiasi integralismo. Io penso che, se sarà approvata una legge elettorale come quella proposta da Berlusconi e che noi avversiamo perché è rivolta solo a ridurre i danni di un’eventuale e probabile sconfitta del centro destra e a introdurre nella prossima legislatura forti elementi d’instabilità, il centro sinistra si dovrà organizzare diversamente in modo da rafforzare i legami della coalizione.
Ciò significa che la presentazione delle liste elettorali non dovrà essere intesa solo come un fatto contingente.
Dovranno essere, infatti, soprattutto le liste elettorali a dover rappresentare i principali interlocutori nei confronti di Prodi a cui è evidentemente affidata la sintesi politica e programmatica, sulla base di un mandato che gli è stato conferito dalle primarie e al quale anche noi abbiamo dato il nostro contributo.
Nel centro sinistra dovrebbe prevalere lo spirito di cooperazione su quello di competizione. Non sempre ciò accade. La ricerca dei candidati alla guida delle amministrazioni locali non sta avvenendo in un clima di serenità e di apertura al dialogo. A Milano si è persa la grande occasione di candidare una personalità come Umberto Veronesi con il quale la vittoria era assai probabile e si è messa in campo da parte dei DS e della Margherita una personalità, come quella del prefetto di Milano, sulla quale lo SDI di Milano ha espresso notevoli riserve e perplessità, se non un aperto dissenso soprattutto per il modo in cui ci si è arrivati.
Resta aperta la ricerca di una candidatura alla presidenza della Regione siciliana: lo SDI siciliano ha espresso, assieme alle altre forze minori alle quali siamo associati per ragioni del tutto contingenti, connesse allo sbarramento elettorale, la candidatura di Rita Borsellino. Si tratta di una figura di rilievo che, per le sue caratteristiche, ha ottenuto anche il sostegno dei DS. Io penso che si tratta di una buona candidatura che si potrà misurare con altre nelle primarie e che potrebbe risultare vincente.
Sul terreno delle prossime elezioni amministrative dobbiamo mettere al più presto in campo la Rosa nel pugno, poiché è impensabile che socialisti e radicali, mentre si presentano uniti alle elezioni politiche, possano andare in ordine sparso nelle altre prove elettorali.
Mettere in campo un nuovo soggetto politico significa fare una comune battaglia politica di idee e di proposte.
Si è discusso negli ultimi tempi sul rapporto che dovrebbe esserci tra l’unità socialista e la creazione di un nuovo soggetto politico con i radicali. Vi è stato chi ha detto che l’unità socialista deve venire prima non solo in termini temporali ma anche sotto il profilo politico rispetto alla costituzione della Rosa nel pugno.
Non ci appassiona questo dibattito sul prima e sul poi.
Noi abbiamo sempre sentito l’unità socialista come un dovere morale prima che politico. Abbiamo compreso che, in una fase drammatica, si potessero determinare collocazioni politiche innaturali in rapporto alla nostra storia e alla nostra tradizione. Non abbiamo mai posto condizioni né pregiudiziali per l’unità socialista. Abbiamo solo detto che essere socialisti significa essere a sinistra e contro le destre. Una volta risolto questo problema, abbiamo detto che l’unità socialista è bella e fatta. Abbiamo apprezzato la scelta chiara di Bobo Craxi per il centro sinistra. Siamo rimasti davvero sorpresi per l’atteggiamento di Gianni De Michelis che non ha scelto e che probabilmente resterà dov’è. Ci dispiace per Chiara Moroni che avremmo accolto tra di noi con affetto e stima.
Purtroppo dal Congresso del Nuovo PSI non è una venuta una scelta unanime, ma si sono create ulteriori divisioni che seguiteranno a pesare. Vi è stata certo una discussione vera ed appassionata, ma non è giunta al risultato che speravamo. Purtroppo l’unità non è stata realizzata, soprattutto per le mancate scelte da parte di De Michelis.
Non smetteremo di ricercare la via dell’unità dei socialisti.
Una cosa è certa: continueremo a portare avanti i nostro progetto senza farci condizionare dalle ombre del passato. Noi da questo Consiglio Nazionale inizieremo un cammino che speriamo denso di frutti positivi. Noi chiediamo ad elettrici ed elettori che facciano diventare il nuovo nostro soggetto politico una forza importante nel centro sinistra.
Noi ci presenteremo alle prossime elezioni politiche ed a quelle amministrative se il nostro Consiglio nazionale lo deciderà, con la Rosa nel pugno.
È il simbolo dell’Internazionale socialista e di molti altri importanti partiti europei. Non abbiamo potuto mai utilizzare come socialisti questo simbolo.
Oggi ci viene offerta la possibilità di utilizzarlo con un riferimento, dato al nostro progetto, ai nomi di Blair, Zapatero e Fortuna.
Con Marco Pannella, Emma Bonino, Daniele Capezzone e Marco Cappato e gli altri compagni radicali e dell’Associazione Luca Concioni, così come con i nostri cari compagni della Federazione Giovanile Socialista, abbiamo fatto un buon lavoro che si è fondato sulla lealtà, sulla franchezza e sulla reciproca solidarietà.
Ci sono tutte le condizioni perché la Rosa nel pugno abbia un successo politico ed elettorale. Per questo scopo. tutti noi dobbiamo rivolgerci innanzitutto ai cittadini, uscire da un linguaggio ermetico della politica, parlare soprattutto dei problemi concreti e delle soluzioni concrete che bisogna dare ai problemi concreti.
Dobbiamo, quindi, occuparci più delle politiche che della politica.
E comunque dobbiamo legare le nostre iniziative politiche alle politiche necessarie per il Paese.
Con l’approvazione del nostro Consiglio Nazionale, oggi, saranno giunti a termine tutti gli adempimenti formali: la Rosa nel pugno potrà nascere come una novità che parla il linguaggio della modernità, della laicità e dell’innovazione, rinnovando i nostri antichi principi della giustizia sociale e della libertà, della sicurezza e della pace.