RELAZIONE DI RINO FORMICA, Conferenza Programmatica Costituente socialista – Roma, 6 ottobre 2007
20 ottobre 2007
Care compagne e compagni,
non c’è bisogno di tanti particolari, né di speciale acutezza politica per vedere la pericolosa rincorsa, in atto nel Paese, tra crisi delle istituzioni e crisi sociale e, di conseguenza, l’intreccio tra questione istituzionale e questione sociale.
Solo apparentemente la profondità della crisi che investe vasti settori della società, colpendola con inediti disagi che si aggiungono alle tradizionali contraddizioni e ingiustizie, solo apparentemente il morso della crisi sociale fa velo alla diffusa consapevolezza della crisi sistemica. Non è vero che quest’ultima è percepita solo dai livelli alti della Politica. Non è vero che solo l’autocoscienza della Politica e delle istituzioni sa riconoscere il vuoto in cui sono sprofondati la Politica, i Partiti e le Istituzioni. La gente sa, la gente vede. Semmai vede un prima e un poi, un prima che è dato dall’erosione del potere d’acquisto, dall’esorbitanza della pressione fiscale, dalla precarietà della propria collocazione sociale, dal sentirsi sradicato dal quadro sociale d’origine, ma non per effetto dei processi evolutivi ma per effetto dello sgretolarsi della capacità di governo, degli strumenti istituzionali di gestione delle crisi, per effetto dell’impoverimento ideale dei partiti, della perdita di senso della politica, che è il “poi”, il seguito del disagio sociale.
Ecco l’intreccio, il nodo che bisogna sciogliere non con la spada di Alessandro Magno ma con l’analisi, con l’intelligenza e la proposta. In questo spazio che si è fatto stretto per l’incedere veloce della crisi, che si è fatto pericoloso per la saldatura di processi assai diversi ma convergenti su un punto di rottura, dobbiamo collocare una proposta convincente, lungimirante e generosa dei socialisti.
Abbiamo detto intreccio di diversi fattori, ma possiamo anche parlare di miscela. Sulla quale si stanno esercitando avventurosi alchimisti, sperimentando formule dall’effetto detonante imprevedibile.
Pur con la doverosa cautela verso i sondaggi d’opinione, non si possono chiudere gli occhi davanti a certe realtà. Il Corriere della sera ha pubblicato ultimamente l’Indice sintetico della fiducia degli italiani per le istituzioni. Lo ha fatto rivolgendo una domanda, forse troppo semplicistica, troppo ambigua ma chiara: “L’Italia ha bisogno di un uomo forte che sappia decidere e risolvere i problemi”. Bene, il 52% degli intervistati si è dichiarato d’accordo con la soluzione “forte” e il 22% abbastanza d’accordo. Due italiani su tre.
Sia chiaro, l’Uomo forte non è dietro l’angolo, non ha le sembianze del tiranno. Da questo punto di vista, le istituzioni sono ancora credibili, il tessuto democratico è forte, la democrazia e il sistema delle libertà sono una risorsa irrinunciabile, come si dice “non negoziabile”. E allora, perché abbiamo voluto ricordare quanto è breve il passo dal malcontento generalizzato alla “semplificazione” democratica, alla richiesta leaderistica? Perché la consapevolezza del logoramento delle Istituzioni (che coinvolge anche una istituzione millenaria e per molti versi assai vivace, come la Chiesa cattolica), la consapevolezza dell’esaurimento delle energie delle Istituzioni è assai più diffuso di quanto si possa credere e, nei momenti di addensamento degli episodi di crisi, tale consapevolezza è ancora più acuta e più sentita delle stesse condizioni economiche in cui vive la gran parte della popolazione degli occupati, dei poco occupati e dei disoccupati.
Dunque siamo ritornati al punto di partenza: crisi sociale e crisi istituzionale. L’una tira la volata all’altra. L’una alimenta il fuoco dell’altra. Che fare?
E’ chiaro che la questione sociale in Italia abbisogna di alcune risposte urgenti. E’ altrettanto chiaro che queste risposte vanno scritte con l’inchiostro del realismo e non del massimalismo. Verremmo meno alla nostra storia. A una storia fatta anche di No alla demagogia in nome del bene comune, da preservare e tramandare alle nuove generazioni. Queste risposte dovremo darle con la prossima Finanziaria e sono convinto che i nostri parlamentari non mancheranno all’appuntamento.
A noi socialisti oggi spetta un linguaggio di verità, un supplemento di verità. Nella scala delle priorità e delle cose cui metter mano, in cima a queste c’è la questione istituzionale, c’è la riforma delle Istituzioni, a partire dalla Carta costituzionale.
Attorno al tema della Costituzione si è agitato in questi giorni uno strano campionario di personaggi, che ha lanciato un appello a calmare gli impulsi di rinnovamento. Ha addirittura chiesto ai futuri dirigenti del Partito democratico, per la verità in questi giorni impegnati in molte cose tranne che in una Costituente delle Idee, ha chiesto una “presa di posizione netta, chiara e impegnativa” per “mettere in sicurezza la Costituzione”. Cosa temono costoro, di dover riscrivere i loro Manuali di diritto costituzionale? Temono che alle porte della nostra democrazia c’è un esercito di barbari che vuole mettere a ferro e a fuoco gli ordinamenti democratici?
Su questo punto dobbiamo esser chiari. La mancata risposta alle domande che si posero agli inizi degli anni Novanta, a cui si dette una soluzione nel segno dell’anti-politica e della distruzione dei partiti; la mancata risposta alla ristrutturazione della Destra o, se vogliamo, del Centro moderato sotto il segno del berlusconismo ed il rifiuto alla creazione di un grande partito socialdemocratico, ha portato alla situazioni di oggi, cui si è aggiunta la crisi economica e una larga riorganizzazione dei rapporti sociali che non investe solo l’Italia ma è fenomeno mondiale.
Come non ammettere che a fronte di una tale gravità e pericolosità non serve dire: mettiamo in sicurezza le libertà e programmiamo la manutenzione dei meccanismi che presiedono al funzionamento della governabilità, preoccupiamoci esclusivamente dell’efficienza degli strumenti di governo, diamo maggiori certezze agli esecutivi perché tutto il resto brilla ancora della luce originaria.
E’ proprio nella prima parte della Carta costituzionale, a parte il secondo comma dell’art. 3 nel quale magistralmente si legano le libertà politiche del cittadino alle libertà e alla dignità economica e sociale del lavoratore, che si è insediata quella cultura politica, quel pensiero dominante, quella forma di egemonismo politico-ideologico-culturale che ha bloccato tutti i tentativi di adeguamento dei principi costituzionali alle condizioni della modernità.
E’ proprio nella prima parte della Costituzione che c’è l’idea della democrazia organica, pazientemente tessuta dall’integralismo cattolico di Dossetti e di La Pira e dall’integralismo dei comunisti, l’idea cioè che tutto il sistema della vita istituzionale, sociale ed economica dovesse ruotare attorno ai Partiti, dovesse avere come centro immobile il Partito, che con il passare del tempo, un tempo impenetrabile dalle riforme, avrebbe fagocitato le istituzioni e, al tempo della crisi dei Partiti (e parliamo di oggi) assistiamo alla totale confusione e sovrapposizione tra partiti e istituzioni.
A onor del vero, in quegli anni tumultuosi di lavoro costituente, furono De Gasperi e Saragat a intuire la contraddizione tra il carattere ideologico della prima parte della Carta e il carattere “neutro” della seconda, prevedendo una ricaduta negativa sull’attività politica e di governo e reclamando subito (siamo nell’agosto del ’52) una revisione. Rimasero inascoltati. Ma avremo modo di ritornare su quegli anni.
Oggi la “democrazia organica” non c’è più, il compromesso costituzionale funziona ancora solo come sub-cultura ideologica, è ricordato mestamente nei Manuali e in qualche appello. Ma una visione organicistica della politica, una concezione che concepisce il Partito come sintesi di società e di sistema, questa visione integralista sopravvive e si candida addirittura alla guida della Sinistra.
Oggi, la decomposizione istituzionale nel Mezzogiorno si avvicina ai periodi oscuri delle consorterie e del brigantaggio che solo la nascita di un grande movimento contadino socialista riuscì a condizionarle.
La crisi istituzionale nel Nord erode le convinzioni unitarie e crea le premesse di una seccessione di fatto.
Per vischiosità, ma reggerà ancora per poco, l’organicismo delle zone rosse e la trasversalità del partito romano garantiscono l’apparente serenità del centro dell’Italia.
Noi socialisti siamo portatori di una idea diversa. La filiera democratica da ripristinare è quella che vede il governo, il Parlamento, i Partiti, le formazioni intermedie della società (altro che la retorica della società civile!) giocare una dialettica forte, autonoma, rispettosa dei ruoli di specificità istituzionale, dentro regole certe, i cui risultati non sono precostituiti, l’unica pre-condizione è il quadro democratico.
Compagne e compagni,
abbiamo delineato un programma di lavoro, non abbiamo terminato il compito che la crisi, anzi le crisi, impongono alle forze democratiche.
Abbiamo soltanto cercato di delineare una cornice entro cui muovere il laboratorio di idee. Oggi, con questa assemblea, come si dice, apriamo un Cantiere di elaborazioni. Dobbiamo lavorare sodo, nel quotidiano, perché la protesta e il disagio sociale non aspettano la Fabbrica delle idee. Ma dobbiamo produrre idee nuove, la nuova frontiera riformista è quella delle regole, che è questione assai complessa perché stiamo parlando della cultura politica dell’Italia che è percorsa dalla mondialità. Questo è il compito per i prossimi mesi.
Questo incontro che apre la strada alla sfida socialista per impedire il saldarsi tra crisi istituzionale e conflitto sociale, è stato classificato primarie delle idee.
E’ la giusta apertura polemica di una stagione nuova.
Si è chiuso l’inconcludente ciclo di un novismo durato 15 anni; ma esso minaccia di riprodursi in versione peggiorata con una spettacolare campagna promozionale nell’avvento di un consorzio dei residui secchi di vecchi apparati e di vecchie culture di partiti. E’ l’antiberlusconismo che si fa partito nel disprezzo delle idee, delle regole democratiche e della necessità di un rinnovamento profondo delle classi dirigenti del Paese.
E’ la risposta sbagliata alla spinta dal basso che segna un distacco acuto tra popolo ed istituzioni.
I nostri padri costituenti scrissero in forma definitiva il secondo capoverso dell’art.3: “..E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”
In questi quindici anni è stato distrutto il prestigio della politica e così è stato travolto ogni strumento istituzionale per rimuovere le cause delle ineguaglianze materiali. La grave responsabilità di una sinistra sconfitta e rinunciataria è quella di avere sostituito di fatto le parole: “ La Repubblica rimuove gli ostacoli sociali e politici” con quelle insufficienti ed inadatte: “ Il mercato rimuove gli ostacoli politici e sociali”.
La sfida socialista non è legata alla soluzione compassionevole delle iniziative in atto ma alla rimozione delle sue cause.
Così si spiega il silenzio che ci circonda.
Questi quindici anni sono stati utilizzati per trasformare i partiti da “comunità di destino” in “comunità di interessi”. Gli errori anche dei socialisti hanno concorso a produrre questa mutazione.
Questa sofferta consapevolezza ci aiuta a sostenere questa sfida al sistema.
Ci sono due tempi in un solo tempo.
Si deve riportare subito un nuovo equilibrio nel sistema sociale, rafforzando la parte debole del mondo del lavoro, e bisogna affrontare senza timori il tema della revisione costituzionale.
Questa sarà la nuova frontiera del socialismo italiano: rinnovare noi stessi per rinnovare l’Italia.