RELAZIONE DI ENRICO BOSELLI ALLA DIREZIONE NAZIONALE DELLA ROSA NEL PUGNO - ROMA, HOTEL PALATINO – 22 SETTEMBRE 2006
29 settembre 2006
Questa nostra direzione è molto importante per tutti noi: deve avviare una discussione aperta sul rilancio della Rosa nel Pugno, come una vera e propria forza politica.
Per svolgere questo compito abbiamo tempi stretti. Entro la fine del prossimo ottobre dobbiamo essere in grado di convocare la Fiuggi 2, attorno alla quale si sono accumulate molte attese e molte speranze.
La Rosa nel Pugno ha raccolto, nello scorso aprile alle elezioni politiche, circa un milione di voti.
Non si è trattato di una pura somma dei voti socialisti e di quelli radicali. Probabilmente abbiamo conquistato nuovi elettori mentre ne abbiamo persi di antichi. Da questa circostanza che non tutti avevamo previsto è scaturito un risultato nettamente inferiore alle attese che non solo noi avevamo immaginato.
La sofferenza maggiore che abbiamo avuto è consistita nella mancata elezione di nostri rappresentanti al Senato.
Per i socialisti è, infatti, la prima volta nella storia della nostra Repubblica che non siamo presenti a Palazzo Madama. E’ quindi, comprensibile che tra le nostre fila vi sia stata una profonda amarezza da parte di numerosi nostri compagni e nostre compagne, prima delle elezioni davvero entusiasti del progetto della Rosa nel Pugno.
Sappiamo, però, che per quanto riguarda il Senato ciò è avvenuto solo perché si è violata la legge elettorale, applicandola attraverso il ricorso al criterio dell’analogia, inammissibile quando si tratta di diritti fondamentali.
Noi continuiamo a pensare che questa grave situazione di illegalità - e non a caso pronuncio questa parola forte – debba essere sanata al più presto. Spetta alla Giunta per le elezioni del Senato istruire il procedimento che dovrà portare ad una decisione dell’Aula di Palazzo Madama. Sarebbe davvero grave, e mi rivolgo ai componenti di questo organismo, che la Giunta per le elezioni si pronunciasse negativamente chiudendo così definitivamente la porta ad un voto in Aula.
Mi rivolgo innanzitutto ma non solo ai gruppi parlamentari dell’Unione, che della legalità giustamente fanno una bandiera, perché facciano sentire assieme a noi la loro voce e facciano contare il proprio peso politico.
Resta, comunque, il fatto che il risultato elettorale, vissuto come deludente, non abbia prodotto quel forte impulso al nostro progetto che da parte di molti ci si aspettava. Da qui nasce la difficoltà a risolvere i problemi che si sono aperti. Sappiamo, infatti, quanto contino nelle scelte della politica gli orientamenti dell’elettorato.
Non è stata, quindi, di poco significato la conferma della decisione di andare comunque avanti nella posizione del nostro progetto, come tutti ci eravamo ripromessi prima del voto, a cominciare da Marco Pannella e da me stesso.
Rispetto alle polemiche che ci sono state, si è parlato di una crisi di crescita. Mi rendo conto che di fronte a questa generosa definizione si possano avanzare riserve e persino fare ironie. Epurare nell’affermare che si tratta di una crisi di crescita vogliamo esprimere soprattutto un messaggio positivo.
Io, almeno per quanto mi riguarda, non ho alcuna intenzione all’inizio di questo nostro dibattito di nascondere le difficoltà che dobbiamo affrontare e lo stallo nel quale si trova il nostro progetto.
La Rosa nel Pugno ha esercitato con i suoi principali temi una positiva influenza nei confronti del Governo. Su quelli della laicità e dei diritti a cominciare dall’istruzione pubblica, su quelli dell’economia di mercato, del contrasto alle chiusure corporative e oligopolistiche e del valore della concorrenza, come pure su quello della nostra politica estera, spesso si è visto riecheggiare obiettivi che avevamo portato avanti, senza le omissioni e le incertezze di altre forze politiche, nella campagna elettorale. Dobbiamo quindi chiederci perché, a fronte di fascino e attrattiva politica di questi risultati, la Rosa nel Pugno abbia perso smalto nell’opinione pubblica e all’interno del Governo non abbia esercitato neppure il peso corrispondente al nostro risultato elettorale.
Faccio questa osservazione, innanzitutto, riferendomi allo stato attuale del Governo e della maggioranza di centro sinistra. Noi siamo tutti consapevoli che il risultato elettorale ha visto la nostra coalizione vincere per un soffio. Ci siamo trovati di fronte a una spaccatura nel Paese di cui dobbiamo tenere in debito conto nell’azione del Governo. A causa di una legge elettorale, che tutti unanimemente orami consideriamo pessima, pur avendo tra di noi diverse opinioni su che cosa sostituirvi ci siamo trovati di fronte ad una maggioranza assai risicata al Senato, mentre alla Camera ha funzionato il pur ridotto premio di maggioranza. Alle difficoltà numeriche al Senato si aggiungono quelle di carattere politico. Infatti la coalizione di centro sinistra ha al suo interno una profondo eterogeneità che era nota in partenza.
Di contro, però, neppure lo schieramento avversario può contare su una sostanziale compattezza politica e programmatica, come si vede del resto dalle divisioni e dalle lacerazioni che emergono dopo la sconfitta elettorale subita dal centro destra. Il centro sinistra è percorso da correnti politiche di segno assai diverse, comprendendo persino ben due partiti apertamente comunisti, con il rischio che la mediazione necessaria ci costringa a spostare l’asse politico sempre più a sinistra o, e non è certo un esito migliore, alla paralisi.
Noi siamo stati sempre consapevoli che all’interno della maggioranza vi sono componenti estreme che, non riuscendo ad affermare i propri obiettivi sino in fondo, si barricano spesso nella difesa pura e semplice dello status quo. E da qui che nasce il carattere conservatore della sinistra estrema. Vi sono, infatti, temi chiave, come la riforma dello stato sociale, lo snellimento della pubblica amministrazione, il rapporto tra Stato e mercato o la flessibilità nel mondo del lavoro sui quali le componenti più estreme, in mancanza di una capacità di affermazione costruttiva, cercano di bloccare qualsiasi progetto innovativo.
E’ da queste condizioni che si evince con chiarezza il ruolo della Rosa nel Pugno che dovrebbe con tenacia sollecitare le forze riformiste, presenti nella Margherita e nei DS, ad assumere atteggiamenti più aperti e coraggiosi, per poter fare fronte comune contro le resistenze che si manifestano.
Per svolgere questo ruolo non basta una pura e semplice alleanza elettorale tra i socialisti e i radicali, ma occorre mettere in campo una forza politica, come deve essere la RnP, che sappia concentrare tutte le sue energie nel perseguire gli obiettivi riformisti.
Se al contrario diamo l’impressione di vivere all’interno della RnP come separati in casa, di avere un gruppo parlamentare che assomiglia a quello misto dove convivono diverse componenti politiche, di sentire sempre una doppia appartenenza con quella d’origine che conta più di quella nuova della RnP e di farci la concorrenza ovunque e dovunque arriveremo a contare persino di meno di quanto conterebbero due partiti completamente distinti.
E’ per questo motivo che è un urgente costruire un partito con regole di vita interna capaci di assicurare l’unità della nostra azione politica almeno in alcuni campi.
Se per raggiungere questo obiettivo dovremmo discutere e confrontarci giorno e notte sino a quando non avremo trovato un terreno d’intesa, ebbene io dico che ne vale la pena.
La RnP non è infatti un progetto da archiviare ma una grande occasione da non perdere. C’è pero una condizione: entrambi dobbiamo essere capaci di essere qualche cosa di diverso da quello che eravamo ed ancora siamo. Del resto, se guardiamo al panorama politico italiano, noi siamo come RnP ancora quella novità che serve per rinnovare il centro sinistra e la sinistra italiana.
Certo, abbiamo avuto un buon inizio dell’azione politica e programmatica del Governo. Il pacchetto Bersani, il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria e la stessa impostazione della nostra politica estera hanno dato un segno positivo al cambio di Governo. Non è stato di poco conto che autorevoli ministri abbiamo espresso posizioni sui temi della laicità che si avvicinano a quelle da noi sostenute.
E’ soprattutto dai DS che è venuta una sorta di risveglio laico, dopo la messa in sonno di questi argomenti avvenuta durante la campagna elettorale.
Questo buon inizio tuttavia è stato successivamente contraddetto da una certa improvvisazione che si è registrata nelle file del Governo.
Mi riferisco innanzitutto all’annuncio, fatto dal ministro Padoa Schioppa, di una riduzione dell’entità della Finanziaria da 35 miliardi a 30 miliardi, che ha aperto una vera e propria gara a ribasso sul futuro della manovra economica del Governo. Sarebbe stato, invece, opportuno che il ministro dell’Economia aspettasse la presentazione del necessario aggiornamento del DPEF in concomitanza della presentazione della Finanziaria al Consiglio dei ministri di fine settembre per aggiornare, se era proprio necessario, l’entità della manovra. Si è trattato di una leggerezza politica che è comprensibile in un tecnico di altissimo valore come è Padoa Schioppa.
Successivamente, però, ci siamo trovati di nuovo di fronte ad una brusca e poco meditata dichiarazione, come è stata quella fatta in uno dei primi incontri con i sindacati, per annunciare immediatamente che le pensioni potevano essere escluse dalla Finanziaria. Noi consideriamo questo atteggiamento in modo negativo. Non siamo certo tra coloro i quali vogliono fare la guerra ai sindacati. Ci mancherebbe altro! Non ci viene neanche in mente di pensare che le grandi organizzazioni del mondo del lavoro costituiscano in se stesse un ostacolo, invece di essere una risorsa, come sono, per il Paese.
Aggiungo che riteniamo che la concertazione tra Governo, sindacati e imprese non sia un ferro vecchio da gettare via.
Detto questo nel mondo più chiaro, il governo però non si può far dettare, passo dopo passo, le sue iniziative dai sindacati. Non cade il mondo se si registrano differenti vedute o se su determinati punti si hanno veri e propri dissensi.
Dobbiamo, infatti, proporci nell’azione del governo sempre il punto di vista dell’interesse generale. Esiste infatti una nuova esigenza che è di primaria grandezza: oggi come oggi non è sufficiente, come lo era in passato, una intesa tra Governo, sindacati e imprese, ma è necessario anche un patto tra generazioni. E in questo quadro, se non si affronta il problema delle pensioni di giovinezza, non riusciremo mai a trovare le risorse per creare un nuovo sistema di sicurezza sociale, come voleva Marco Biagi, che eviti di trasformare la flessibilità in precarietà.
Ed infatti la precarietà nel mondo del lavoro flessibile è costituita soprattutto dall’intermittenza del reddito, che crea ansie ed incertezze nelle nuove generazioni e che nel migliore dei casi pone i giovani alle dipendenze delle rispettive famiglie.
La nostra proposta non può essere fraintesa come se fosse di destra, mentre è ancora una volta innovativa e riformista. Ho ripetutamente detto che dalle misure necessarie ed urgenti di innalzamento di età pensionabile, riguardanti come è ovvio i pensionanti e non i pensionati, dovrebbero essere esclusi tutti i lavoratori manuali e che dalle risorse ricavate si dovrebbero trovare i mezzi per aumentare le pensioni ai livelli più bassi, intollerabili in un Paese civile.
Nella Finanziaria devono essere compiute scelte di fondo che servano a contrastare il declino della nostra economia e a rendere la nostra società più colta e più innovativa. Consideriamo un vero e proprio banco di prova per verificare la volontà del governo che la spesa pubblica per l’istruzione e la ricerca aumenti nel 2007 e negli anni successivi non solo in termini nominali, ma anche in termini reali in sintonia con la tanto osannata e poco o nulla praticata Agenda di Lisbona.
Riconfermiamo tutta intera la nostra contrarietà ai finanziamenti alla scuola privata, paritaria o no che sia. In caso che siano contenuti nella Finanziaria, come abbiamo ripetutamente detto al tavolo del programma dell’Unione e durante campagna elettorale, noi presenteremo e voteremo nostri emendamenti per eliminarli.
Non ci limitiamo però a difendere la scuola pubblica, di cui conosciamo i limiti e le carenze, come risulta anche da un ormai nota inchiesta dell’OCSE, ma ci muoveremo per riformarne le strutture, partendo dalla convinzione che i primi dieci anni d’istruzione devono avere contenuti di formazione generale, umanistica e scientifica, mentre solo negli anni successivi vanno introdotti insegnamenti di carattere professionale. Per noi la scuola non è solo una fabbrica di futuri lavoratori ma soprattutto una fucina di cittadini consapevoli, non indottrinati e colti. Ci rivolgiamo, quindi, nuovamente agli insegnanti, le cui condizioni economiche vanno migliorate, perché sostengano e partecipino alle iniziative della RnP.
Non ci è sembrato finora che il Governo, nonostante le messe in guardia dei ministri Mussi e Fioroni, abbia detto una parola chiara sul futuro della spesa dell’istruzione e della ricerca nella Finanziaria. Consideriamo istruzione e ricerca persino più rilevante per il futuro strategico del nostro Paese rispetto alla riduzione pur necessaria del cuneo fiscale e contributivo, rivolta a contribuire ad accrescere la competitività delle nostre imprese e a far recuperare almeno in parte la perdita del potere d’acquisto di stipendi e salari.
Istruzione e ricerca sono indispensabili per il Sud, assieme all’enorme problema della sicurezza rispetto alla macro criminalità mafiosa e a quella micro che ne rappresenta spesso il corollario. So che nel centro sinistra c’è chi spera ancora che la Commissione europea accetti la fiscalità di vantaggio. Tutti guardano all’Irlanda, ma il Sud d’Italia presenta problemi assai diversi e più complessi. Istruzione, ricerca, infrastrutture e sicurezza valgono assai di più di politiche d’incentivi che assai poco o nulla hanno funzionato, per non parlare dei patti territoriali e dei contratti d’area. Come si può predicare lo sviluppo del Sud se ancora la Salerno-Reggio Calabria, (altro che ponte sullo stretto!) non è stata ancora completata e sembra un cantiere che non finirà mai, per non parlare della rete ferroviaria, dello stato delle scuole, e mi riferisco agli edifici prima che all’efficienza dell’istruzione.
Sul Sud, e raccolgo l’osservazione del direttore di Radio Radicale Massimo Bordin fatta sulla rivista diretta da Emanuele Macaluso, dobbiamo cimentarci con idee davvero innovative piuttosto che con la retorica meridionalistica.
Sul Sud dovremmo riprendere la lezione dei grandi meridionalisti a cominciare da Gaetano Salvemini. Esiste da tempo una questione che riguarda le classi dirigenti che da tempo immemorabile sono innovative a Roma, ma spesso conservatrici in casa propria. Noi dobbiamo fare in modo che la Rosa nel Pugno abbia nelle prossime consultazioni elettorali al Sud idee e proposte capaci di mutare vecchi equilibri di potere ed introdurre un reale cambiamento. Dal centro può venire un’energica sollecitazione, ma occorre che nel territorio si animi un vero confronto democratico e la mobilitazione di energie nuove.
Il radicamento socialista al Sud non è una zavorra di cui disfarsi per far procedere più speditamente la RnP, ma una grande risorsa da utilizzare senza la quale non avremmo neppure superato la barriera elettorale del 2% ed avremmo dovuto gareggiare con l’udeur per il posto di migliore perdente.
C’è bisogno della Rosa nel Pugno perché il riformismo nel centro sinistra è ancora timido e incerto, sotto l’ipoteca com’è dell’estrema sinistra e in una geografia politica italiana nella quale tra monopolisti, colbertisti e destra sociale pochi amano la vera concorrenza e preferiscono un capitalismo famigliare e assistito dallo Stato. Eppure, dovrebbe pur dire qualche cosa che la Fiat, senza aiuti pubblici e grazie al nuovo management, si sta riprendendo da sola da una situazione di grave crisi.
Nel centro sinistra il tasso di riformismo varia secondo il variare dei giorni della settimana e della forza delle spinte e delle controspinte del mercato politico.
Neppure sui temi che coinvolgono i diritti civili e di libertà, quelli dell’informazione, come nel caso RAI, la giustizia, la tutela della privacy emergono linee chiare.
Basterebbe osservare l’ultimo scandalo sulle intercettazioni telefoniche per temere l’esistenza in Italia di un Grande Fratello che è sempre in ascolto delle tue conversazioni. E pensare che la nostra proposta per una commissione parlamentare d’inchiesta sulle intercettazioni è ancora lettera morta.
Il fronte dei diritti civili neppure si è aperto. Sui PACS mi sembra che si sia adottata la politica del rinvio alle calende greche e un po’ tutti alle nostre continue richieste di metterli all’ordine del giorno fanno orecchie da mercanti e in molti ci invitano garbatamente a non introdurre un argomento che sarebbe scomodo per tutti.
Sulla RAI, nonostante si sia scelto un ottimo professionista, com’è Gianni Riotta, alla direzione del Tg1 prevale l’opacità, il metodo delle trattative sotto banco, il Festival delle ipocrisie.
Nella maggioranza tutte le componenti sono chiamate a contribuire alle decisioni politico-parlamentari, mentre spetta ad una cabina di regia formata da DS e Margherita occuparsi del potere nelle sue svariate forme, talvolta attraverso trattative segrete con l’opposizione o solo con alcuni suoi settori. Noi, al contrario, siamo per la trasparenza e per il pluralismo e contro la lottizzazione e le pratiche spartitorie, a favore della competenza e della professionalità. In Rai abbiamo difeso Vespa perché non vogliamo altri casi come quello di Biagi o quello di Santoro.
Così deve accadere nella Pubblica Amministrazione, come nelle società ed Enti nei quali le designazioni spettano direttamente o indirettamente al Governo.
Abbiamo considerato assai positivo che si sia arrivati ad un provvedimento di indulto come estrema ratio per alleggerire la condizione disumana della vita nelle carceri e riteniamo un errore che non si voglia far seguire a questa misura un provvedimento di amnistia. Nessuno, però, può pensare che attraverso questi strumenti si possano risolvere i gravissimi problemi della nostra giustizia che è uno dei comparti malati del nostro sistema.
Da tempo sosteniamo la separazione delle carriere tra giudice terzo e pubblico ministero, come accade in quasi tutte le grandi democrazie. Siamo nettamente contrari ad andare in una direzione inversa a quella da noi indicata, come auspicano coloro che vorrebbe cancellare tutte le modifiche fatte dal centro destra, senza distinguere il grano dal loglio.
Abbiamo apprezzato il metodo del dialogo tra maggioranza e opposizione, portato avanti dal ministro Mastella ma vorremmo vederci più chiaro negli orientamenti di fondo.
Non si può, del resto, concepire il bipolarismo come l’occasione, ad ogni cambio di maggioranza parlamentare e di governo, per rivoluzionare interi comporti fondamentali del nostro ordinamento, cosa che con la democrazia dell’alternanza potrebbe avvenire ad ogni legislatura.
Sicurezza e giustizia sono facce della stessa medaglia. Non siamo tra coloro che puntano ad abbassare i diritti per accrescere la sicurezza né in Italia né in altre democrazie. Siamo stati sempre contro il modello Guantanamo. Ogni volta che è stato messo in discussione il diritto in nome della sicurezza abbiamo intravisto un colpo dato alla nostra civiltà liberale. Non meno preoccupati di altri siamo stati per quanto è accaduto in occasione del G8 a Genova. La contrarietà all’istituzione di una Commissione d’Inchiesta su questi avvenimenti è stata espressa da alcuni di noi perché abbiamo visto nel testo presentato l’affiorare di fatto di un quarto grado di giudizio che si sovrapporrebbe a quello della magistratura.
Su questo argomento nella RnP vi sono state posizioni differenti. Comunque, la nostra non è una posizione avversa nel merito ma discende dall’affermazione di un principio garantista.
Su tutti questi temi del programma ho, comunque, presentato all’attenzione della RnP una mia proposta di integrazione dei 31 punti di Fiuggi che in ogni caso continuo a considerare tutti, senza alcuna eccezione, validi ed attuali, assieme ad una bozza per un nuovo manifesto liberalsocialista. Mi rendo ben conto quale deve essere la portata della nostra iniziativa politica e programmatiche se vogliamo rilanciare la RnP.
La nostra capacità di contare sull’agenda del Governo non è affidata solo al nostro ministro Emma Bonino, ma deve essere portata avanti da tutta la RnP con convinzione e determinazione in una situazione nella quale si registra un certo sbandamento del centro sinistra, proprio alla vigilia dell’importante appuntamento della Finanziaria.
Prodi, D’Alema e Parisi, con il contributo del nostro vice ministro degli Esteri Ugo Intini, si sono mossi bene. Anche nel campo della politica estera, dove pure vi sono state differenze tra di noi, siamo riusciti a non avere posizioni contrapposte. Noi abbiamo sempre sostenuto che in quella martoriata regione del mondo vi siano due popoli che hanno ragione e che vi debbano essere due Stati e due democrazie. Non ci è sfuggito, nel riconfermare la nostra posizione, che la continuità territoriale creatasi tra Iran, Iraq, Siria, Libano e Palestina offre al fondamentalismo islamico la possibilità di sviluppare una catena di comando che attraverso azioni terroristiche e interventi militari in campo aperto può realmente rimettere in discussione l’esistenza dello Stato di Israele.
Non è, però, per noi una novità coltivare questo tipo di sensibilità, dimostrata anche con la nostra presenza alla veglia organizzata dalla Comunità ebraica a Roma.
Il Governo, dopo aver recuperato in credibilità nel campo della nostra politica estera rispetto ai fallimenti di Berlusconi - e la missione in Libano che è una prova delle nostre capacità d’iniziativa in Europa, verso gli Stati Uniti e nei confronti degli stessi più importanti interlocutori in Medio Oriente, a cominciare da Israele - l’azione del governo si è appannata ed siamo entrati in una fase di affanno nella quale siamo costretti a giocare in difesa.
L’esplosione della questione della Telecom è stata, a questo proposito, sintomatica. Mi è persino apparso comprensibile l’atteggiamento di irritazione, e non saprei interpretarlo in altro modo, che il Presidente del Consiglio ha manifestato nei confronti delle martellanti e ripetute accuse da parte dell’opposizione, mentre era impegnato in una missione assai importante come quella in Cina. Non mi è mai venuto in mente che il presidente Prodi potesse sottovalutare il ruolo del Parlamento.
Viviamo nel centro sinistra uno stato di nervosismo e di incertezza che si riflette nelle reazioni a caldo del presidente del Consiglio e che nasce dalle stesse divisioni esistenti nella maggioranza e dai sospetti che si possa ripetere il ribaltone del 1998.
Noi vogliamo dire con chiarezza che non vediamo alternative alla coalizione diretta da Prodi se non un nuovo ricorso alle urne.
Comunque, sgombrato il campo da equivoci, leggerezze e da qualche vero e proprio errore, si rivela in tutta la sua portata la strumentalità dell’attacco di settore dell’opposizione che vogliono mettere sotto accusa Prodi e tentare di dare una spallata al Governo.
Il tema da discutere non era Prodi e non è Prodi, ma il futuro delle telecomunicazioni in Italia e in particolare in Telecom. Il confronto nella maggioranza è soprattutto sulla questione del ruolo dello Stato nella complessa questione delle reti e sull’interesse nazionale a conservare almeno una grande azienda di telefonia mobile in mani italiane.
Certo non si può non vedere che un Paese, come l’Italia, con una diffusione record della telefonia mobile non ci sia neppure un grande produttore nazionale in questo campo e, anzi, si rischi di avere in generale solo aziende straniere. Tuttavia, senza volere con questo dare un giudizio negativo su tutta la storia delle partecipazioni statali in Italia nel quale non mi ritroverei, di fronte alla sfida della globalizzazione e nel quadro europeo il linguaggio del Governo deve essere concentrato sulle regole e sui controlli che assicurino una reale concorrenza.
Questo è l’aspetto fondamentale che ci fa fare un riesame molto critico nel modo in cui sono state fatte in Italia le privatizzazioni, senza che fossero accompagnate dalle necessarie liberalizzazioni, spinti su questa strada dall’incombere dell’enorme debito pubblico accumulato.
Questo è sicuramente un campo sul quale la Rosa nel Pugno può giocare meglio le sue carte politiche come forza innovativa e riformista che si contrappone a tutti gli statalismi di ritorno, a tutti gli aiuti più o meno mascherati alle imprese e che concepisce il mercato non come il far west, ma come una istituzione fondata su trasparenza, regole e controlli scrupolosi fatti da autorità realmente indipendenti, avendo come interesse primario da tutelare quello dei consumatori.
Spesso all’interno della Rosa nel Pugno ci siamo trovati d’accordo su questi temi senza che neppure ci sia stata una preventiva consultazione. Ciò dimostra che l’incontro tra liberali riformatori, come sono i radicali, e socialdemocratici, come noi siamo, nasce da affinità di fondo. Forse questo può rappresentare persino un esempio per il cantiere, spesso fermo, del nuovo partito democratico.
Noi come RnP siamo interessati ad un processo di ristrutturazione delle forze del centro sinistra che dia maggiore peso e maggiore autorevolezza ai riformisti e, quindi, vogliamo partecipare al confronto per la costruzione di un nuovo partito democratico. Tuttavia, ci sembra che in questa direzione si stia facendo dell’Ulivo una sorta di camera di compensazione degli interessi dei DS e di quelli della Margherita e nella sua costruzione vi sia una pesante sottovalutazione del tema della laicità.
Se non vi sarà un colpo d’ala, tutta il partito democratico si risolverà in un patto di potere tra nomenclature di partito, configurando quello che Ugo Intini ha definito un compromesso storico bonsai.
Bisogna chiedersi perché di fronte a tante convergenze politiche e programmatiche che sono avvenute, la Rosa nel Pugno non sia decollata. come avremmo voluto. Io non voglio aggirare questo problema che considero assai importante e che dovremo affrontare e risolvere positivamente.
Il nostro ruolo politico, come Rosa nel Pugno, non è stato quello che speravamo non solo perché abbiamo avuto polemiche da spogliatoio, ma anche perché, una volta in campo, non abbiamo rispettato i ruoli di ciascuno e abbiamo puntato a segnare i goal come se fossimo due squadre diverse che giocano contro un comune avversario.
Ciò che manca, come è evidente, è un partito.
Noi abbiamo avanzato la proposta di costruire un partito federale, come premessa per arrivare a un partito unico. Abbiamo affrontato questa questione con la necessaria gradualità, perché ci siamo resi ben conto che diversa è l’organizzazione dei socialisti da quella dei radicali. Noi siamo un partito, come SDI, radicato in tutti il territorio nazionale con circa 70 mila iscritti. I radicali generalmente hanno presenze attive e creative, ma non permanentemente organizzate, ed hanno un numero di aderenti poco superiore al migliaio. E’ del tutto evidente che in un partito di tipo tradizionale si verificherebbe una netta prevalenza numerica dei socialisti che vanificherebbe tutto il processo di costruzione della RnP.
Noi abbiamo avanzato, invece, una proposta fortemente innovativa che fa delle elettrici e degli elettori della Rosa nel Pugno, attraverso referendum e primarie, i veri arbitri del nuovo partito federale. Ci siamo preoccupati, come era giusto, di introdurre clausole tali da impedire ad ogni livello che una decisione potesse essere assunta solo da una o dall’altra componente. La nostra idea non è solo quella di mettere insieme socialisti e radicali, ma anche di suscitare il contributo di nuove energie, come nel caso di coloro che hanno animato le iniziative promosse da Lanfranco Turci.
Questa nostra proposta non solo non è intangibile, una sorta di “prendere o lasciare”, ma è aperta a profonde modifiche, Si presenta in ogni caso come un’ipotesi da vagliare e come un contributo alla discussione.
Ciò che ci pare impossibile è andare avanti senza regole, necessarie a qualsiasi comunità o associazione, concependo il nuovo partito federato come una struttura piramidale nella quale dal vertice vengano calate tutte le decisioni alla base. Noi sposiamo il principio della sussidiarietà secondo cui è sempre meglio, se è possibile, che le decisioni siano assunte da coloro che sono i più vicini, i più coinvolti e i più interessati ai problemi da risolvere.
Non è, quindi, possibile che noi dal vertice stabiliamo che cosa si deve fare da Roma fino nell’ultimo comune d’Italia.
Si scelga qualsiasi modello, ma a condizione che sia democratico. Si può arrivare ad uno statuto della nuova forza federale per vie e modi diversi e con un’ampia partecipazione, ma alla fine è necessario che siano tutti a decidere.
Noi dovremo affrontare nel prossimo anno la consultazione elettorale che coinvolgerà 12 milioni di cittadini. Non mi sembra possibile che si possa andare a questo importante appuntamento in ordine sparso, con una Rosa nel Pugno che si presenti in una parte dei Comuni chiamati a votare, mentre in un’altra ci sia una lista dello SDI o dei Radicali.
In questo modo non renderemmo flessibile il nostro progetto, ma ne anticiperemo attraverso le urne prima la disgregazione e poi il fallimento.
Non dobbiamo vivere la questione delle assemblee elettive e dei governi locali come una sorta di peso, qualche cosa di cui non curarsi o peggio un ostacolo nello sviluppo del nostro progetto. Non si può guardare alle istituzione nel territorio come un qualche cosa che sarebbe completamente avvolto da ristretti interessi di nomenclature di partito, dal fiorire del clientelismo e del familismo amorale, se non peggio come concentrati di corruzione e di malgoverno. Senza il pieno dispiegarsi della vita democratica a livello locale noi ci troveremmo di fronte ad uno Stato fortemente centralizzato, lontano dalle esigenze dei cittadini e venato da un forte paternalismo autoritario. Sono le dittature a temere la diffusione del potere nel territorio, mentre le democrazie ne favoriscono la distribuzione.
L’Italia è del resto il paese dei mille campanili e il comune è l’istituzione sentita spesso come la più amica verso i cittadini, al contrario di quanto succede frequentemente con lo Stato avvertito invece come lontano ed estraneo. Del resto, non potremo spiegarci come siano soprattutto i sindaci a godere di maggiore popolarità rispetto ai governanti nazionali.
Dobbiamo trovare un punto di convergenza su questa questione cruciale, pur avendo la consapevolezza che non sarà facile.
Non è piaciuto neanche a me, e l’ho detto più volte, che nella nostra periferia non si sia valorizzato, almeno dove e quando era possibile, la presenza radicale.
E’ stato un errore ipotizzare che noi dal centro riuscissimo ad imporre soluzioni equilibrate. Non esiste ed è giusto che non esista una stanza dei bottoni nelle quale si possano decidere dal centro tutte le scelte locali, le nostre rappresentanze nelle assemblee elettive e nelle giunte e la ripartizione di qualsiasi incarico. Non credo che a questa situazione di squilibrio tra radicali e socialisti a livello locale possa essere trovato rimedio dall’alto. Solo se affidiamo le scelte a organismi locali della Rosa nel Pugno, nei quali non possano essere assunte decisioni dai socialisti senza i radicali, o dai radicali senza i socialisti, potremo avere una situazione di rappresentanza equilibrata. Non vedo altra via per risolvere un problema che è reale, che ho assolutamente chiaro e che dobbiamo risolvere assieme.
Come avete visto, ho cercato di parlare con assoluta chiarezza, senza evitare i punti di dissenso che ci sono e che sono notevoli, come si evince dall’ipotesi che hanno offerta al dibattito i socialisti e da quella che hanno presentato i radicali.
Su un punto voglio essere, però, ancora più chiaro. Qualunque sia il modello, qualunque sia lo statuto e quali che siano le regole è assolutamente evidente che non è possibile neppure concepire, come ha detto il capogruppo della RnP alla Camera Roberto Villetti, un nuovo partito che abbia un simbolo in affitto.
Lo può avere eccezionalmente un cartello elettorale ma non un partito. Il simbolo della Rosa nel Pugno deve essere di proprietà della Rosa nel Pugno.
Appare una tautologia, ma oggi per noi invece è un problema da affrontare e da risolvere.
Io non penso che nella direzione di oggi potremmo dare una risposta definitiva a tutti i nostri problemi. Tuttavia sia sul piano politico, sia su quello programmatico sia su quello della costruzione di una nuova forza politica ho espresso la mia opinione. Sono assolutamente disponibile a modificare le mie idee e a trovare una soluzione valida per tutti. La Rosa nel Pugno è un progetto nel quale credo e nel quale mi sono personalmente impegnato assieme al mio partito. Considererei un fatto profondamente negativo che disperdessimo in tanti rivoli la nostra unità che invece può al meglio valorizzare la tradizione socialista e quella radicale. E’ un compito difficile quello che ci attende, ma non è impossibile. Raccogliendo le tante attese e le tante speranze che abbiamo suscitato, riusciremo a svolgere un ruolo politico di grandissima rilevanza. Tutto è nelle nostre mani.