"REGIME CHANGE", IL CASO VENEZUELA E L'EUROPA di Alberto Benzoni

14 febbraio 2019


In linea generale, l'obbiettivo del cambiamento di un regime, per mutarne la condotta o per cambiarne il gruppo dirigente, risale alla "divina sorpresa" del 1989 e dei primi anni novanta. Se erano state possibili non solo la dissoluzione del campo socialista ma l'adesione delle sue classi dirigenti alle virtù del capitalismo e del libero mercato, l'occidente aveva, perciò stesso, verificato definitivamente la sua superiorità sistemica e la sua capacità di attirare al suo interno i recalcitranti, con il ricorso alla persuasione e, in via subordinata, alla forza.
Nello specifico diventerà, durante ma soprattutto dopo la presidenza Obama -in alternativa sia al disimpegno che all'intervento militare diretto- lo strumento essenziale per assicurare la difesa dell'egemonia americana al minor costo possibile.
Suo strumento di prima istanza l'applicazione sistematica e generalizzata del meccanismo delle sanzioni, diretto a colpire sia i "colpevoli" (talora per il solo fatto di esistere) sia coloro che non vi si conformano: sanzioni che hanno il pregio di non provocare alcun danno a chi le mette in campo e il massimo danno possibile per i regimi colpiti e, soprattutto, per le loro popolazioni (qui la massima delle Br si ripropone in forma rovesciata: "colpire molti per educare pochi"), così da spingerle alla ribellione. Nella ragionevole previsione che, a differenza di quanto accadde nel 1956 e nel 1968, l'Occidente sarà pronto a sostenerla.
Il guaio, però, di ogni strategia che si affidi ad agenti esterni per la sua realizzazione è quello o di non avere successo o di di diventare incontrollabile dai suoi stessi ideatori.
Al primo caso appartengono le campagne antirusse, anti iraniane, anti assadiane e anti gheddafiane di questi anni. Suscettibili sì di arrecare non pochi danni ai loro destinatari ma non a sbalzarli di sella, con l'eccezione della Libia, anche per la mancanza dei collegamenti interni necessari allo scopo. Si attendeva l'arrivo delle borghesie sensibili e colorate a guida del popolo affamato e oppresso. Ma queste non sono mai emerse ne a Mosca ne a Teheran; per essere spazzate via in Libia e in Siria non appena il gioco si è fatto duro.
Al secondo, invece, l'Ucraina e soprattutto l'America latina. Nel primo caso perché il testimone delle rivoluzioni colorate è stato raccolto, com'era logico che fosse, da una masnada di nazionalisti fascistoidi foraggiati e sostenuti dai servizi americani, con l'obbiettivo già raggiunto, di trasformare l'adesione alla Nato in un obbligo costituzionale e, in prospettiva (almeno questo è il programma della Timoshenko, autorevole candidata alla presidenza), di riconquistare con le armi il Dobass e la Crimea.
Nel secondo perché la tragedia venezuelana non è un caso a sè ma l'ultimo atto di una strategia controrivoluzionaria partita dalla Colombia e dall'Equador, sviluppata in Argentina e in Brasile per arrivare a Caracas.
"Controrivoluzionario" o, se preferite, "reazionario" non è un epiteto infamante, E' la definizione asettica di un processo di rivincita di classe in atto in tutta l'America latina, contro le sinistre distribuzioniste e stataliste del primo decennio del secolo. Un processo che sarà stato anche assistito da ordoliberisti e servizi deviati made in Usa; ma che ha trovato e trova un sostegno di massa nelle "borghesie sensibili", nelle vecchie classi possidenti e anche tra la povera gente, abbandonata a sé stessa dalla crisi economica. Non siamo, attenzione, di fronte ad un normale processo di avvicendamento; siamo di fronte alla tentazione di eliminare l'antagonista una volta per sempre.
Tutto ciò ci riconduce, fatalmente, al Venezuela e al suo progetto di "regime change". Un progetto costruito "in vitro"a Washington; a partire dal suo protagonista. E all'allineamento subalterno e politicamente privo di senso, dell'Europa e dei suoi partiti a tale progetto.
E' grazie all'Europa che Guaidò ha potuto raggiungere uno status senza precedenti a memoria d'uomo; quello di essere riconosciuto prima ancora di essere conosciuto e a scatola chiusa. E di vedersi affidata, chiavi in mano e senza riserve e/o condizioni la gestione della crisi. Escludendo, senza alcuna motivazione, la possibilità di un dialogo tra le parti, promosso e garantito dalla collettività internazionale (e che avrebbe portato, quasi certamente, al ritiro parallelo di Maduro e del suo antagonista); e limitandosi a fare eco, senza commenti, ai suoi slogan. (Passi, il richiamo, non poco sfacciato, agli aiuti umanitari di zio Sam; ma sostenere, senza se e senza ma, la richiesta di "elezioni" del Nostro rileva dell'idiozia o della malafede. Come sa benissimo Guaidò, nella strategia del "regime change" le elezioni vengono dopo, a sanzionare la sconfitta/scomparsa dell'antagonista, non prima; prima si chiedono ma non per indirle motu proprio ma per farsi respingere la proposta dal governo in carica).
Evidentemente, si scommette sul successo della sua strategia: dividere l'esercito e scommettere sulla sua neutralità al momento della grande rivolta, sostenuta dal 90% della popolazione.
E' proprio vero che alla stupidità non c'è mai limite...

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