QUELLA GRANDE STRADA DI HAMMAMET - di Paolo Pillitteri, da L’Opinione del 22 gennaio 2007
02 febbraio 2007
La cosa migliore fatta in onore di Craxi si è svolta in Tunisia e precisamente ad Hammamet. In questa cittadina il governo tunisino ha voluto dedicargli un grande viale, una grande strada e precisamente Avenue Benedetto (Bettino) Craxi. In Italia, le cose migliori dette su Bettino Craxi, occupano un posto preminente le affermazioni di Gennaro Acquaviva in occasione della presentazione dei “Discorsi parlamentari” del leader socialista. E, nella fattispecie, quelle riguardanti i due momenti “topici” della storia craxiana - che è poi storia d’Italia “da studiare” come ha ricordato con dolorosa lucidità il figlio Bobo nel salotto televisivo di Diaco - il Caso Moro e il Governo più lungo della prima repubblica. Perché questi due? Perché nel caso Moro Craxi intuì che la mancata salvezza del leader Dc avrebbe denunciato la debolezza dell’intesa fra Dc e Pci e, al tempo stesso, avrebbe messo in drammatica evidenza la crisi del sistema e della sua incapacità a proteggere la vita del suo massimo esponente. Come ricordò - anche a chi scrive - Giuseppe Saragat che, non a caso, si schierò subito e quasi da solo con Craxi per salvare Aldo Moro, la morte dello statista pugliese avrebbe significato, anticipandola, la fine della Prima Repubblica.
Quanto all’esperienza del Governo Craxi, nella riflessione di Gennaro Acquaviva colpisce l’attualità di quel momento ab initio, di quella prima pagina governativa a guida socialista “non accompagnata da nessun libro dei sogni” come era invece accaduto nel primigenio centro sinistra Moro-Nenni e, venendo a noi, come era successo col libro del Programma dell’Unione (280 pagine!) col governo a guida prodiana. Bettino Craxi trovò nel 1983 a Palazzo Chigi ben altro del libro dei sogni: “un libro degli incubi” per dirla con Gigi Covatta, “con i fantasmi di tutte le decisioni rinviate, di tutte le scelte eluse, di tutti i programmi lasciati a marcire”. Ma la caratteristica craxiana, che suona di attualissima lezione, consistette nel non rivolgere alcuna colpa ai predecessori, ma, più produttivamente, nel fare, nel non rassegnarsi alle pratiche del rinvio, nell’offrire agli italiani la figura di un esecutivo non più camera di compensazione e quella di un leader che credeva nella politica come espressione del diritto dei cittadini ad avere un governo e che agiva coerentemente con queste decisioni.
Il fatto è che il socialismo di stampo craxiano non stava soltanto nella capacità di decidere, secondo la felice equazione di Oscar Giannino “riformismo è decidere”, ma anche e soprattutto nell’essere votato, perinde ac cadaver, all’autonomia ideale e morale del proprio essere politico libero che, a ben vedere, è l’esatto contrario della concezione gramsciana del Principe, del partito, della setta rivoluzionaria. Non solo, ma la difesa della propria identità socialrevisionista, nel solco di Turati, Rosselli, Saragat e di Nenni post Ungheria, era per Craxi la rivendicazione non tanto e non solo di un socialismo liberale depurato del marxismo, ma soprattutto di un’autonomia tout court, cominciando dalla politica estera, pur incardinata sulla grande amicizia per gli Usa. Ma mai rinunciataria e sempre orgogliosa, come a Sigonella.
Se pensiamo alla “piccola” vicenda da cortile, da quartiere, di Vicenza e la confrontiamo con la crisi della Achille Lauro, riusciamo a capire il senso davvero alto del fare politica di Craxi, della sua statura di leader, della sua assenza di complessi di inferiorità, del suo non ricorrere mai a piccole scuse, risibili, pavide, piccole piccole, di stampo per dir così urbanistico-ambientale, ma rivendicando coraggiosamente le ragioni della politica e la determinazione autonomistica di una grande nazione. Il che, tra l’altro, è una lezione duplice, per la sinistra ma anche per una destra che pure Craxi elevò a interlocutrice paritaria ottenendone insulti e monetine mescolate con quelle di Occhetto. Peraltro, per non pochi aspetti questa sinistra sembra rimasta ferma proprio ad Occhetto (e a Berlinguer), perennemente ricattata dai massimalisti pur di non fare i conti col revisionismo. Il contrario di ciò che fece il riformista Craxi. Perciò è da lui che bisognerà ricominciare.