QUELLA DOMANDA A CUI ANCORA NON ABBIAMO RISPOSTO- di Francesco Robiglio, 12 luglio 2005
25 luglio 2005
New York, Madrid, Mosca, Londra. E poi: Palestina, Israele, Iraq, Jugoslavia, Rwanda, Afghanistan, Cecenia. E poi, e poi, e poi…. Paesi ricchi contro Paesi poveri; Paesi poveri contro altri Paesi poveri (ma armati, finanziati e sostenuti da Paesi ricchi). La guerra è mondiale: nelle forme possibili e consentite dagli equilibri attuali di potere, dalle forme di partecipazione alla ricchezza e alla conoscenza tecnologica e dalla struttura delle istituzioni internazionali e sovra-governative.
In un mondo caratterizzato da divari così ampli e crescenti di ricchezza e accesso ai saperi tecnologici e militari, non possiamo limitarci ad immaginare una guerra secondo l’iconologia a cui siamo stati cresciuti (o educati?), quella di Stati contro Stati, di eserciti contro eserciti. Di fronte a queste tragedie, parlare semplicemente di terrorismo suona quasi irresponsabile, perché inadeguato alla realtà. Scrive Michele Polo su Il Manifesto di venerdì 8 luglio che la morte di uomini, donne e bambini inermi a Baghdad (come a Kabul o a Sebrenica) non è diversa dalla morte di uomini, donne e bambini altrettanto inermi a Londra, Madrid, Mosca o New York. Non lo è per chi è morto, per i sopravvissuti, per il significato politico (se mai ce ne fosse uno) di questi morti. Non lo è per gli Stati, i Governi e i popoli dei Paesi offesi.
A Baghdad come a Londra, si seminano tra le popolazioni dolore, lutti, terrore, rabbia. Il dolore, i lutti, il terrore e la rabbia che si trascina ogni guerra; che si è sempre trascinata ogni guerra. L’appello dell’Occidente all’unità contro il terrorismo - ormai così rituale - suona come un’altra, l’ennesima chiamata alle armi, in uno scontro di civiltà di cui viene spontaneo chiedersi se i Governi ne hanno la consapevolezza e il controllo.
Perché a differenza di altre guerre, in questa non è condiviso chi è l’attaccante e chi l’offeso: ognuno ritiene di essere in una posizione reattiva e giustificato quindi ad utilizzare gli strumenti bellicosi di cui dispone. Ognuna delle parti si sente offesa e attaccata nel profondo della propria identità, dei propri valori e della propria storia: Paesi ricchi e Paesi poveri, Paesi cristiani (o post-cristiani) e Paesi islamici, Paesi democratici e Paesi teocratici, Occidente e Medio-Oriente.
Quante altre morti, quanti altri bombardamenti, quanti altri attentati, quante altre tragedie, quant’altra miseria dovremo attenderci in questa spirale in cui nessun Governo e nessun esercito sembrano avere né il controllo della situazione, né un’ipotesi realistica di way-out, avvitati come appaiono in questa spirale di violenza, tra azione e reazione, senza più consapevolezza del presente? L’indomani dell’11 settembre una ragazzina newyorchese si chiede e chiede all’operatore TV che la intervista: perché ci odiano così tanto? Sono passati quasi quattro anni da quella domanda e gli USA, ma anche noi europei per la nostra parte, non solo non siamo stati ancora capaci di darci e dare al mondo una risposta; semplicemente quella domanda così semplice e così to-the-point è stata da noi rimossa.
Così non se ne esce. Occorre con drammatica urgenza uno scatto di coscienza, un recupero di senso della realtà, un atto di responsabilità e di coraggio contro la cecità del narcisismo ferito e della paranoia collettiva.
Non è più questione di chi debba fare il primo passo; perché fare un passo per rompere questo gioco mondiale al massacro è segno di saggezza e umanità, non certo di resa. E ciononostante, ancora dobbiamo ritenere che il primo passo spetti all’Occidente, e in particolare all’Europa, per rompere questa spirale: perché possiede i mezzi, ha i valori e, soprattutto, ha radicate le istituzioni democratiche, cioè il peso e il potere dei suoi cittadini ed elettori per forzare i suoi governanti ad un cambio di linea. Spetta a noi il primo passo perché questo ordine mondiale ci appartiene, é quello che siamo riusciti a costruire. La nostra ricchezza, le nostre istituzioni, la nostra democrazia, la nostra libertà, la nostra opinione pubblica dovranno essere messe al servizio del mondo per rompere questo gioco: piani di sostegno allo sviluppo dei Paesi più arretrati, abbattimento delle barriere che abbiamo imposto alla loro partecipazione agli scambi internazionali, diffusione della tecnologia, del sapere e della medicina rappresentano l’unica strada percorribile.
E poi, ritiro unilaterale dei nostri eserciti dalle zone/missioni di peace keeping che, ormai è chiaro, si risolvono in perverso strumento di war keeping, e loro sostituzione con interventi multi-laterali di ripristino di adeguate condizioni di vita economica e civile. La stagione delle guerre preventive, della democrazia esportata con le armi, degli appoggi ai regimi che meglio assecondano le esigenze e gli interessi economici dei Paesi occidentali, ha ormai mostrato la sua inefficacia e il suo contributo alla destabilizzazione dell’ordine mondiale.
Coloro i quali compiono attentati nei centri delle città “del capitalismo”, non sono isolati né politicamente, né militarmente all’interno dei Paesi di provenienza. Non lo potrebbero essere, né noi occidentali possiamo avere questa pretesa. Come non sono isolati nei nostri Paesi i nostri soldati che seminano morte e distruzione in Iraq. Per questo occorre passare a strategie multi-laterali che blocchino questa perversa spirale e rendano cittadini e governi di entrambe le parti i primi interessati, e quindi difensori, del peace-keeping.
Sono molteplici in questi giorni i commenti che parlano di sconfitta politica di chi ha commesso gli attentati a Londra. Ciò è probabile e possibile; li sconfiggono il Sindaco, il Governo e la Corona inglese quando all’unisono affermano che non cambieranno il loro stile di vita; lo dice Blair al G8 che chiede provvedimenti e politiche per lo sviluppo dell’Africa; lo dice Blair che inizia a pensare a come uscire dal pantano dell’Iraq. Non lo dice l’Italia, di nuovo e come sempre assorbita in discussioni interne di piccolo cabotaggio, come quella sulle richieste di presunte leggi speciali anti-terrorismo.
I nostri governi – e vorrei dire i nostri partiti e le nostre organizzazioni del consenso di massa – dovrebbero ascoltare, accogliere e farsi portatori dell’unico sentimento che accomuna i popoli, gli uomini e le donne trascinati in questa carneficina: ora basta. Non ci possiamo riconoscere in questo gioco al massacro: offende i nostri valori e umilia i nostri sforzi e le nostre aspirazioni a costruire un mondo migliore per tutti.