QUEL FATALE LUGLIO 1992 di Alberto Benzoni del 29 dicembre 2020
29 dicembre 2020
Molti
anni fa, ai tempi della giunta di sinistra, assistemmo ad una manifestazione
dei proprietari di appartamenti.
Tanta gente. Spesso di modesta condizione. Discorsi poco elaborati ed espressi
con voce roca. Quella di chi ha perso la capacità di parlare perché
inascoltato; o almeno convinto di esserlo.
Per quanto ricordo fu l’unico incontro con la “destra reale”. Ma fuori da un
campo visivo che riconosceva solo quella ufficiale, fuori gioco perché
nostalgica e a vocazione golpista. Una destra che avrebbe però trovato, dieci
anni dopo, un punto di riferimento nella Lega di Bossi; deciso ad entrare in
politica, come disse ad un nostro compagno, quando Formica introdusse il
registratore di cassa.
La rivolta fiscale. Un classico delle rivoluzioni dei ceti medi. Un fenomeno
però che, lasciato a sé stesso, si sarebbe tradotto, come avvenne, prima e
dopo, altrove, in una svolta liberista, senza però rimettere in discussione il
sistema.
In Italia, come sappiamo, le cose andarono in tutt’altro modo. Trasformando la
protesta dei ceti medi e del grande padronato in una “falsa rivoluzione” di cui
stiamo pagando ancora le conseguenze. E assistendo, fenomeno mai registrato
prima, alla resa di una classe politica che si inchinò collettivamente di
fronte al vento che spirava, sperando di non esserne colpita personalmente.
A fronteggiare la marea, mettendoci la faccia, fu Bettino Craxi.
Tutti ricordiamo il suo discorso del luglio 1992. Ma, da allora in poi,
tendiamo ad interpretarlo come chiamata di correo nei confronti di quanti lo
accusavano, avendo fatto ricorso alle stesse pratiche illecite.
Una versione fatta propria, curiosamente, non solo dagli anticraxiani in s.p.e.
ma dai custodi/vendicatori della sua memoria; vedere quella vicenda nei soli
termini di uno scontro tra Craxi e un Pci che puntava alla nostra distruzione
serviva, dopo tutto, a giustificare in permanenza rancori, vittimismi e
desideri di vendetta.
In realtà quel discorso voleva essere un richiamo al senso di responsabilità. A
salvaguardia non dei socialisti ma della prima repubblica. Un appello che il
partito di Togliatti avrebbe capito e accolto; mentre quello dei berlingueriani
senza Berlinguer era del tutto incapace di percepirlo.
Sia l’offerta che la ripulsa venivano da lontano.
Nel caso di Craxi, grande figura nella sua capacità di percepire il falso e il
tragico insiti negli eventi e nei personaggi della politica, dalla presa d’atto
che il suo disegno – fosse la grande riforma, il sogno mitterrandiano o la
centralità dei socialisti nel sistema politico – aveva “esaurito la sua spinta
propulsiva”. (Un dato, su cui le nuove generazioni del socialismo dovranno
riflettere quando le acque torneranno limpide e i nostri morti riposeranno in
pace). E, nel contempo, dalla consapevolezza che attraverso di lui era sotto
attacco la prima repubblica; e da parte di un arco variegato di forze
capacissime di distruggere il vecchio ma del tutto incapaci di realizzare uno
solo dei loro conclamati intenti. E’ in questo orizzonte che si collocano le
quattro scelte del 1991: dall’appello ad andare al mare in occasione del
referendum sulla preferenza unica all’impegno a continuare la collaborazione di
governo con la Dc anche nella nuova legislatura; e, sull’altro fronte, dalla
rinuncia a ricorrere ad elezioni anticipate sino al via libera all’entrata
degli ex comunisti nell’Internazionale socialista. Una serie di “do”, razionali
e lungimiranti, cui però non corrisponderà né allora né dopo, alcun “des”.
Per
dirla in sintesi, il leader socialista, sconta, fino alla tragedia finale, il
franare delle due colonne – quella democristiana e quella comunista – su cui,
assieme alla nostra, era nata la prima repubblica, così come la sua positiva
evoluzione nell’arco di decenni.
Nei partiti di governo, e anche tra di noi, sarà il fuggi-fuggi nelle direzioni
più diverse; accompagnata dall’esplodere di una “viltà ambientale” che portava
a venire incontro alle richieste dei nuovisti dei giustizialisti magari anche
prima che queste fossero formulate.
Nel
caso del Pds ci sarà la svendita dell’anima, in cambio dell’accesso nel salotto
buono della seconda repubblica. Ma anche all’esibizione di una “hubris” che
nasconde una debolezza strategica che segnerà in negativo le sorti del partito
nei decenni a venire.
La sua manifestazione più clamorosa saranno Occhetto e la sua “gioiosa macchina
da guerra”. In uno schema che ricorda molto, polizia segreta e processi a
parte, quello seguito dai partiti comunisti dell’est nel secondo dopoguerra. Si
comincia con il separare, nello schieramento opposto, gli amici, quindi buoni,
da premiare anche oltremisura e gli avversari, quindi cattivi, da punire,
magari anche penalmente, per poi imbarcare una truppa ormai fedele in vista
dell’immancabile vittoria contro una destra ormai residuale.
Il fatto è però che, abbattuto il grande diaframma che l’emarginava, la “destra
reale” , assieme ad altre forze anti sistema, invaderà il campo, fino a
rappresentare, caso unico in Europa occidentale, la maggioranza
dell’elettorato.
Questo mentre il Pd, scomparso il Psi e assorbita la Dc, copre lo spazio
complessivo per meno del 20%; a fronte di oltre l’80% nel 1976 e del 60% nel
1992.
Perché? Le spiegazioni sono tante. Ma mi limito a proporne una; con la duplice
caratteristica di non essere stata ancora elaborata e di rappresentare una
carenza presente lungo tutta la storia dei comunisti.
Parlo dell’assoluta assenza nel loro orizzonte, della prospettiva e della
cultura dell’alternativa; e in particolare di quella di sinistra.