QUEI PROFESSIONISTI DELL' ANTIMAFIA E LA PROFEZIA (AVVERATA) DI SCIASCIA di Felice Cavallaro del Corriere della Sera

09 gennaio 2017

QUEI PROFESSIONISTI DELL' ANTIMAFIA E LA PROFEZIA (AVVERATA) DI SCIASCIA di Felice Cavallaro del Corriere della Sera

Molti di noi sono stati dalla parte di Leonardo Sciascia fin dal giorno in cui fu pubblicato il suo articolo sui professionisti dell’antimafia sul Corriere della Sera di trenta anni fa.
Per questo abbiamo subito per anni l’ostracismo dei cosidetti giustizialisti e di tanta parte della sinistra, che oggi sembrerebbe pentita di aver accusatto ingiustamente Leonardo Sciascia. Quella sinistra sempre in ritardo.
Per questo pubblichiamo oggi l’articolo di Felice Cavallaro del Corriere della Sera.

"QUEI PROFESSIONISTI DELL' ANTIMAFIA E LA PROFEZIA (AVVERATA) DI SCIASCIA"

Adesso che dal palcoscenico di un’antimafia di facciata rotola uno stuolo di «professionisti» travestiti da politici, imprenditori, giornalisti, preti, magistrati «duri e puri», la profezia di Leonardo Sciascia viene spesso richiamata e condivisa anche da chi contestò lo scrittore eretico di Racalmuto. A trent’anni dalla pubblicazione del famoso e discusso articolo. Tanti ne sono trascorsi dal 10 gennaio 1987, quando nelle edicole e nella vita pubblica irruppe il provocatorio titolo del Corriere della Sera sui «professionisti dell’antimafia».

Con la sua lungimiranza, senza che nessuno potesse allora immaginare la deriva dei nostri giorni —in tempi recenti segnata perfino dall’assalto di famelici magistrati e avvocati sulla gestione dei beni confiscati — Sciascia, dal suo buen retiro di Contrada Noce, dalla casa di campagna a dieci minuti dai Templi di Agrigento, smascherava i rischi dell’impostura. Confermata dalla «caduta dei miti», come la definisce Francesco Forgione nel suo libro I tragediatori . È il caso di Silvana Saguto, magistrato indagata per i beni confiscati. Del presidente della Camera di commercio Roberto Helg, arrestato per una tangente. Del direttore di TeleJato Pino Maniaci, accusato di estorsione. Mentre echeggia la lite interna a Libera fra don Ciotti e il figlio di Pio La Torre, e si è ancora in attesa di una estenuante definizione dell’inchiesta sul presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante.

Nel 1987 quel titolo scatenò una reazione scomposta. Animata da un gruppo di giovani costituiti in «Comitato antimafia», decisi a rovesciare sullo scrittore il nomignolo di «quaquaraquà», da lui stesso coniato nel Giorno della civetta . Una delegittimazione che indignò tanti. Condivisa però da Pino Arlacchi, Eugenio Scalfari, Nando Dalla Chiesa, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, decisi a protestare contro un articolo interpretato come un attacco diretto a Leoluca Orlando e a Paolo Borsellino. Il riferimento al sindaco di Palermo c’era davvero. Stimolo, diceva Sciascia, per evitare di ridurre l’amministrazione della cosa pubblica al solo rafforzamento dell’«immagine» personale. Spunto per spiegare che pesano di più i fatti, che «vera antimafia è un acquedotto in più, anche a costo di un convegno in meno».

Il secondo bersaglio non era Borsellino. E il magistrato lo capì. Nel mirino c’era l’organo di autogoverno della magistratura, il Csm, che, pur avendo fissato delle regole per le carriere interne, non le applicava. Come accadde quando, per la carica di procuratore a Marsala, fu scelto Borsellino al posto di un suo collega, virtualmente con più titoli. Capì che non era un attacco a lui e lo disse a Racalmuto nel 1991, a un convegno con Falcone e con l’allora ministro Martelli: «Chiarimmo con Sciascia. L’uscita mirava ad altro. Ma fu sfruttata all’interno di una pesante corrente della magistratura che sicuramente non voleva quei giudici e quei pool». E, un anno dopo l’articolo, se ne ebbe conferma. Quella stessa elastica interpretazione fu utilizzata per impedire a Falcone di guidare l’Ufficio Istruzione.

Tanti pensano ancora che in quell’occasione sarebbe stato preferibile eliminare dall’articolo ogni margine di equivoco. Per evitare usi strumentali. E Sciascia ne parlò proprio con Borsellino, a Marsala, fra testimoni come Mauro Rostagno, il regista Roberto Andò, il suo amico Aldo Scimè. Si scatenò comunque un attacco astioso, perdendo di mira la questione vera. Come ammettono oggi molti protagonisti del Comitato. Un po’ pentiti. È il caso di Pietro Perconti e Costantino Visconti. Il primo oggi prorettore a Messina, il secondo docente di diritto penale, autore di un libro eloquente, La mafia è dappertutto. Falso! . Una mazzata agli impostori: «L’antimafia si è fatta potere».

Riflessioni fatte proprie da un altro leader del Comitato, Carmine Mancuso, poliziotto, figlio dell’agente di scorta caduto con il giudice Cesare Terranova, ex senatore: «Una lucidità profetica, quella di Sciascia». Stessa posizione di Angela Lo Canto, la pasionaria del Comitato: «Quel quaquaraquà’ ci scappò di mano...». Quell’attacco era stato vergato da un giovane racalmutese, Franco Pitruzzella, collaboratore dei magistrati nel processo contro Andreotti. Forse l’unico non pentito. A differenza di altri due studenti oggi dirigenti di polizia a Palermo, Giuseppe De Blasi, oggi in Questura, e Giovanni Pampillonia, capo della Digos. Entrambi ormai da tempo faccia a faccia con le nuove imposture che ogni volta fanno pensare alla profezia.

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