Quattro tesi sul socialismo oggi 22 dicembre 2014 pubblicato da Rino Genovese

03 maggio 2015

Quattro tesi sul socialismo oggi 22 dicembre 2014 pubblicato da Rino Genovese

La tesi preliminare, all’interno di una ripresa della discussione intorno al socialismo, è che questo concetto – a parte la sua versione a lungo servita in salsa totalitaria sotto il nome di “socialismo reale” – non è affatto l’opposto di quello di individualismo. Al contrario: la centralità conferita all’individuo nella modernità (dal Rinascimento all’illuminismo e oltre) è un presupposto essenziale del pensiero socialista. La concezione di Pierre Leroux – colui che per primo, nella Francia della monarchia di luglio, introdusse il termine “socialismo” nell’accezione contemporanea – che indubbiamente stabilisce una tensione tra i due concetti, a veder bene non fa altro che esprimere ciò che Jean Jaurès affermerà con nettezza qualche decennio più tardi: «Il socialismo è l’individualismo logico e completo». A spingere in questa direzione, è il significato stesso della questione sociale ottocentesca. Il movimento socialista, nel passaggio da una dimensione puramente ideale all’impegno concreto per la trasformazione della società, proclamerà che l’esaltazione moderna dei diritti dell’individuo è monca, e si perverte, se non riconosce i diritti di una larga parte della società che si trova in condizioni di reale diseguaglianza. È la nascita dei diritti sociali: la loro rivendicazione si scontra con un’organizzazione economica incentrata sulla proprietà privata, la mette in questione, la limita, in prospettiva l’abolisce. Questa correzione della modernità dal suo interno, riformistica nel senso della riforma sociale – che nella storia francese del XIX secolo assumerà anche movenze insurrezionaliste (si pensi, per fare un nome, a un tenace militante come Auguste Blanqui) e, nella variante di un anarchismo più o meno “esemplare”, perfino terroristiche –, non è altra cosa dal fine ultimo inteso come superamento della forma capitalistica di produzione e di consumo: piuttosto ingloba questo fine dentro di sé come una linfa vivificante della quotidiana pratica rivendicativa e politica. Socialismo è allora riforma sociale in quanto piena realizzazione dell’individualismo moderno, prefigurazione di un modo di produrre e consumare non più capitalistico e di una vita sociale svincolata dal bisogno e dall’interesse economico, che comprimono o limitano la libera espressione degli individui. Insomma ciò che Marx riassunse nei termini di un salto dalla preistoria alla storia, dal regno della necessità a quello della libertà. Che tutto questo si sia manifestato dapprima in termini economici va posto in stretta relazione con la vicenda ottocentesca europea. Il prosieguo della storia, con l’invenzione novecentesca dello Stato sociale – un correttivo alle storture capitalistiche e, anche qui, nelle sue formulazioni radicali, qualcosa che tendenzialmente fuoriesce dal quadro del capitalismo –, ha spostato sul piano di una contaminazione dell’economia con la politica una domanda di emancipazione che proveniva anzitutto dagli opifici, dalle fabbriche, dai luoghi della produzione (si pensi alle lunghe lotte per la riduzione dell’orario di lavoro, che si sarebbero poi tradotte in leggi secondo il principio di un’universalizzazione democratica). Ma quando il socialismo apparve per la prima volta in Europa, sulla base di quella che era la mano d’opera “libera sul mercato” (e per questo non libera nella più ampia vita sociale), altrove, per esempio nelle Americhe, vigeva ancora il sistema schiavistico. La schiavitù salariata coesisteva con la schiavitù vera e propria – così come, in maniera non troppo dissimile, il lavoro manuale minorile e servile convive nel mondo attuale con la condizione precaria di una forza lavoro essenzialmente intellettuale. Non si dà quindi soluzione di continuità – sebbene ai socialisti ottocenteschi, e soprattutto a Marx, sembrò che vi fosse – tra il capitalismo e le altre forme oppressive di organizzazione economica. Questa considerazione conduce alla seconda tesi secondo cui il tratto distintivo del socialismo non sta tanto nella dimensione economica (o economicistica), quanto in una proposta di emancipazione che, pur inizialmente fondata sulla condizione lavorativa dell’operaio europeo, mostrando come si possa intervenire su una forma specifica di oppressione, si proietta a trecentosessanta gradi. In altre parole, è la generalizzabilità di un intervento e di un movimento a essere al centro del discorso politico socialista. Dire universalismo dei diritti sociali, a partire da situazioni particolari differenti, e dire socialismo è tutt’uno. Non si può sostenere, perciò, che l’esistenza di un proletariato e di un movimento operaio siano una condizione concettualmente necessaria affinché si formi un orizzonte socialista: ne sono stati in Europa un presupposto storico, questo sì, ma il progetto di un affrancamento degli individui dall’oppressione quale che sia è già potenzialmente socialista con il semplice porre quest’obiettivo come perseguibile, qui e ora, mediante forme collettive di organizzazione e di lotta. Il momento utopico e quello pragmatico fanno parte entrambi di un socialismo che non può (non può più) essere presentato come una scienza. Nessuna critica dell’economia politica costituisce l’alfa e l’omega di un tale pensiero: esso va al di là di un mondo incentrato sull’economia, sfera differenziata della società attraverso il cui osservatorio privilegiato si ricaverebbero verità da stabilire in guisa di dottrina. Se anche il superamento del modo capitalistico di produzione e di consumo fosse impossibile da realizzare, il fatto che la sua prefigurazione possa tradursi, e anzi si sia tradotta, in un movimento di trasformazione della società rende plausibili proposte di emancipazione in altri ambiti della vita sociale. Si prenda, per fare un esempio e contrario, il caso di ciò che è avvenuto in Egitto dal 2011 a oggi. Un impetuoso movimento di democratizzazione della società è incappato prima nella trappola politico-religiosa (islamista) e ha subìto poi, come male minore, la restaurazione di un regime militare. Se in quel paese avesse potuto affermarsi una prospettiva democratico-socialista di eguaglianza, a partire dalla valorizzazione moderna delle differenze individuali, l’esito negativo avrebbe potuto essere ribaltato. Una dimensione puramente comunitaria, nella ripetizione degli usi e costumi di una cultura, può condurre un movimento di massa al fallimento. Il nesso democrazia-socialismo si nutre di un conflitto sociale a più facce, in grado di collocare all’interno della lotta comune una molteplicità di esigenze tutte particolari e tutte universalizzabili nella forma di un riconoscimento di diritti per le donne e gli uomini che vi prendono parte. Sulla piazza Tahrir è andato in scena lo psicodramma di una cultura ancestrale che non è riuscita a liberarsi dalle proprie pastoie. Se i confini di una qualsiasi identità culturale non sono trascesi, se non si passa da un “noi” presupposto a un “noi” elettivo, ossia al conflitto sociale plurale fatto di diverse rivendicazioni universalizzabili in senso democratico, non si esce dalla chiusura nel passato. Uno spirito progressista, di rottura delle abitudini consolidate, è ineliminabile dall’orizzonte democratico-socialista. Si può dire ciò che si vuole riguardo all’estenuazione della modernità, riguardo alla dissociazione tra lo sviluppo tecnico ed economico e il progresso morale e civile (per usare una classica formula illuministica), o anche (come ho fatto io stesso più volte) circa una storia non-contemporanea, che reca in sé quale basso continuo il ritmo del passato: ma se non si recupera – ed è la terza tesi di questo scritto – uno spirito progressista di messa in questione delle tradizioni dal loro interno non si potrà ricominciare a parlare di socialismo. La questione è che la rottura deve avvenire, appunto, all’interno delle diverse culture, non può essere imposta o suggerita dall’esterno in maniera occidental-colonialista, come pretenderebbe un universalismo illuministico e liberaldemocratico scarsamente capace di autocritica. Tipico della rottura socialista è di prodursi a partire da situazioni particolari di oppressione: non andò diversamente, nei suoi albori europei, con la condizione operaia. Il che significa che o ci si emancipa da sé o non ci si emancipa affatto. Infine, quarta tesi, al socialismo appartiene l’intera sua storia per quanto complicata possa essere, quella dei suoi errori e quella delle sue virtù; e tutte le chances che in essa si ritrovano vanno viste come elementi riattualizzabili di volta in volta a seconda delle circostanze. Non v’è dubbio che lo Stato sociale, secondo lo slogan «dalla culla alla tomba», abbia avuto in sé un germe burocratico-autoritario (che si è espresso al peggio nella variante comunista sovietica). Una correzione di marca socialista libertaria, non puramente socialdemocratica, è quella che – chance a suo tempo minoritaria – sarebbe da ipotizzare nel quadro della ristrutturazione dello Stato sociale su basi federalistiche europee. È un’acquisizione di potere dal basso, quella che si prospetta, nel senso di un intreccio tra democrazia rappresentativa e forme di democrazia non delegata. L’intervento statale sovranazionale di domani, non paternalistico, dovrebbe tenere conto dei dati e dei pareri provenienti dalle imprese e dalle cooperative autogestite secondo criteri di democrazia interna. Utopia? La parola non spaventa quando si abbia la consapevolezza che il pragmatismo e l’utopia sono l’uno il necessario complemento dell’altra.

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