QUATTRO IDEE PER BAD GODESBERG, di Giorgio Ruffolo, da Mondoperaio n°5/2009
14 settembre 2009
La sconfitta socialista alle elezioni europee non appartiene alla categoria delle normali oscillazioni politiche.
Essa segna la rottura di un ciclo storico e richiede un’analisi che investa gli eventi dell’ultimo trentennio. Non credo che il socialismo, grande movimento storico legato a imprescindibili esigenze di giustizia, sia stato seppellito da una sconfitta elettorale, per quanto clamorosa. La storia del socialismo è piena di annunci mortuari smentiti.
Neppure il fascismo ce l’ha fatta. Però le elezioni hanno decretato la fine di una socialdemocrazia appannata e sconclusionata.
Può apparire paradossale che le elezioni non abbiano penalizzato la destra, che per venti anni si è identificata con la sregolatezza responsabile dell’attuale marasma economico, e che oggi sembra diventata keynesiana e statalista; e abbiano invece devastato la sua antagonista storica. Ma non lo è per due ragioni. Innanzitutto la destra non è diventata affatto statalista, ma pretende solo che sia lo Stato a pagare i conti della crisi per poi ritirarsi rapidamente dalla scena. Inoltre la socialdemocrazia, in tutti questi anni, non è stata affatto antagonista del liberismo, ma ne ha solo praticato una versione debole, propriamente “post-socialista”, come il blairismo.
Per di più alla globalizzazione economica la socialdemocrazia non ha contrapposto quel rafforzamento del potere politico internazionale che avrebbe potuto nascere da una più forte integrazione europea. Al contrario, si è chiusa nel socialnazionalismo (l’espressione, volutamente provocatoria, è di Nino Andreatta), un terreno sul quale la destra è imbattibile.
I socialisti hanno perduto un’occasione unica di costruire un’Europa unita e riformista quando erano al governo in quasi tutti i paesi europei. Un’Europa diversa da quella creatura burocratica e diplomatica che non è fatta certo per accendere i cuori. Un’Europa che si riconosca in un modello economico integrato e in un modello sociale avanzato.
Opporre al nazionalismo politico e alla globalizzazione economica un’Europa del benessere, nuovo soggetto della scena mondiale, questa sarebbe stata la risposta efficace alla deriva liberista.
Quell’occasione è stata perduta. E ora in Europa trionfano i nazionalismi, riemerge il razzismo, e il conto della crisi è posto sulle spalle dei contribuenti. C’è da chiedersi allora: del socialismo, que reste et-il? Questo sarebbe il momento di una nuova Bad Godesberg: di un ripensamento fondamentale di quelle che sono state per una fase storica gloriosa le ragioni del “vero socialismo reale”. Non si tratta ovviamente di tornare indietro, in un mondo radicalmente cambiato. Si tratta di riconoscere le correnti pesanti che attraversano la nostra storia, per domandarsi in quale modo una politica ispirata ai valori tradizionali della sinistra possa piegarne il corso verso una società più libera e più giusta. Questa è l’essenza concreta del riformismo. Per non cavarmela con i soliti auspici retorici (appunto: più libera, più giusta) provo a indicare le linee fondamentali di una ricerca e rielaborazione teorica e politica. Che poi all’esito di questa rielaborazione si debba ancora dare il nome di socialismo è problema che può essere rinviato, come un indice, alla fine dell’opera.
Penso a quattro linee fondamentali di ricerca. La prima riguarda la governance mondiale. Non esiste e non è realisticamente proponibile un governo mondiale. Ma esiste un problema di governabilità (governance). L’attuale configurazione del “disordine mondiale” è l’esito di un lento processo di disgregazione che si è andato sviluppando a partire dagli accordi di Bretton Woods: e cioè dall’ultimo grande tentativo di costruire, sul terreno economico, un sistema di ordine mondiale. Quel sistema è stato travolto, ma non sostituito.
Resta implicito il presupposto di quel sistema: l’egemonia americana, priva però delle regole che avrebbero dovuto assicurarne la responsabilità.
Ma è proprio quell’egemonia che è messa in forse dall’emergere di nuove grandi potenze. Questo è un aspetto dell’attuale disordine. Un altro è il varco che si è aperto tra politica ed economia: tra l’interdipendenza dell’economia, sancita dalla globalizzazione, e cioè soprattutto dalla liberazione dei movimenti internazionali di capitale, e le capacità di controllo di una politica che resta confinata essenzialmente nell’ambito delle sovranità nazionali. L’attuale crisi, nella quale siamo tuttora immersi, è in grande parte conseguenza di questo vuoto, e della pretesa che esso potesse essere colmato da una autoregolazione dei mercati: degli scambi e dei cambi. Se una nuova grande potenza come la Cina richiama addirittura la necessità di affrontare il tema di una moneta mondiale “responsabile”, è segno che l’attuale condizione si sta avvicinando ai limiti dell’insostenibilità economica e politica. Da parte dei partiti socialisti non c’è stata finora una parola su questo problema formidabile, che non è neppure “tematizzato” nei loro programmi e nei loro congressi. Il loro quadro concettuale resta quello statale e nazionale. La loro risposta alla globalizzazione è la loro incapacità di darne una.
La seconda linea di ricerca riguarda il problema emerso e ingigantito nell’ultimo mezzo secolo: quello della sostenibilità ambientale ed ecologica. Esso è evocato, più per un omaggio alla moda che per intima convinzione, come esigenza di scoraggiamento delle tecnologie inquinanti e di incoraggiamento delle cosiddette tecnologie “pulite”. Si evita invece accuratamente il centro del problema: la insostenibilità storica di una crescita continua, ad interessi composti, considerata come condizione normale e irrinunciabile dell’economia. Il problema, non del benessere, ma della sopravvivenza dell’umanità è legato al passaggio da una economia della crescita quantitativa ad una economia stabilizzata quanto all’impiego di risorse non rinnovabili e concentrata sul loro sviluppo qualitativo. Ciò comporta la necessità di abbandonare la pretesa di misurare il progresso dell’umanità con l’aumento indefinito della sua statura, e di definire esplicitamente indici di progresso autentico, economico, sociale e culturale, da perseguire. Da parte socialista, sempre a livello delle enunciazioni politiche e programmatiche, non c’è stata una esplicita denuncia della “pirlandizzazione” dell’economia del benessere, e una indicazione di altri traguardi qualitativi all’economia.
La terza linea di ricerca riguarda quello che dovrebbe essere il cuore del messaggio socialista: l’eguaglianza (ricordo la lezione di Bobbio) o, meglio, la lotta contro le diseguaglianze. Sembra che i partiti socialisti si siano convinti del rozzo slogan convenzionale della destra - per distribuire occorre prima produrre - quando appare sempre più evidente dagli eventi che ci hanno precipitato in questa ultima crisi che essi sono stati generati da una sproporzione distributiva, irresponsabilmente compensata con un ricorso illimitato all’indebitamento, che produce soltanto nuovi debiti. Non si produce niente a partire dalla regola di Trilussa: due polli a me, nessuno a te, eguale un pollo statistico a testa. La distribuzione iniqua non genera la corsa virtuosamente competitiva di tutti, ma la progressiva secessione dei pochi.
La quarta linea della ricerca mi pare la più importante perché investe la domanda che sta al fondo delle altre tre: a quale scopo? A quale scopo la governance, la produzione, la distribuzione?
Il senso di questa domanda non è una predica, ma la concretissima constatazione della incoerenza fondamentale della strategia della mercatizzazione, che sta alla base del vangelo liberista: la sua autodistruzione. Richiamo una banalità: le regole del gioco non fanno parte del gioco. Le decisioni dell’arbitro sul campo di calcio non possono (non dovrebbero!) essere comprate e vendute, pena l’inconsistenza della partita.
Le sentenze dei giudici non possono (non dovrebbero!) essere comprate e vendute, pena l’irrilevanza dei processi.
I voti dei cittadini e dei loro rappresentanti non possono (non dovrebbero!) essere comprati e venduti, pena l’impraticabilità della democrazia. Lo stesso vale per il credito. Esso è legato a un confronto oggettivo e reale tra la sua domanda e la sua offerta (così almeno ci insegnavano i testi). Ciò costituisce la sua regola e il suo freno. Se invece diventa un prodotto che si può comprare e vendere sul mercato, perde la sua qualità di regola e diventa un bene da massimizzare. Non è proprio questo che è successo quando le ipoteche sui prestiti sono diventate titoli da scambiare sul mercato? E’ venuto a mancare ogni freno alla loro emissione. La regola è entrata nel gioco che doveva regolare.
Si spiega così come l’autoregolazione divenga sregolatezza. I comportamenti che obbediscono a regole oggettive sono di carattere compensativo: se aumenta la domanda di titolo ne sale il prezzo che ne frena la domanda. Ma se al tempo stesso c’è chi offre titoli rappresentativi di crediti che possono essere comprati, la domanda può aumentare e il mercato diventa cumulativo, esplosivo, senza freni.
E’ ciò che è in effetti avvenuto. La stessa cosa si può dire per il rischio. Se anche il rischio diventa un oggetto da comprare e vendere, la domanda di protezione dal rischio diventa facilmente domanda di moltiplicazione dei rischi.
In altri termini, si innescano spirali autoalimentate. Si scatena da parte delle banche una caccia ai clienti cui vengono offerti prestiti a condizioni irrisorie; e le carte di credito sono offerte in garanzia per la concessione di nuovi mutui: un credito ne garantisce un altro.
A un certo punto, la cuccagna finisce e il gioco si rovescia.
Mi domando anche qui se non ci sia stata, da parte degli esponenti più rappresentativi dei partiti socialisti, una resa a un pensiero falso e bugiardo, che identifica il valore del denaro come valore tout court. Del resto, se è vero che nel tempo in cui risiedeva al numero 10 di Downing Street la coppia Blair si è impegnata in mutui immobiliari per 4 milioni di sterline, sarebbe stato ingenuo pretendere che egli ponesse, come segretario dell’antico e glorioso partito laburista, un argine economico e morale alla tempesta che stava per travolgerci.