QUANDO CON BOBBY MORI' LA PASSIONE CIVILE di Mauro Calamandrei da Il Sole 24 ore - 4 novembre 2008
23 novembre 2008
L'incontro con Bobby Kennedy avvenne quasi per caso. Era il 1968, le primarie democratiche si stavano scaldando e chiesi un'intervista mentre seguivo un suo comizio in California. Fu lo stesso Bobby ad accettare. Aveva deciso che la sua campagna doveva essere aperta, informale. Un'atmosfera abbastanza diversa dalle campagne dei nostri giorni. Ci sedemmo così in modo improvvisato al tavolino di un albergo per chiacchierare e chiacchierammo a lungo. Fu un fotografo della Associated Press a scattare la foto del nostro incontro. E quando l'ho rivista in questi giorni, sono stato travolto da molte emozioni e ricordi di un anno epocale, centrale per la storia americana, non dissimile per intensità politica e certamente legato sul piano simbolico a questo 2008 di 40 anni dopo. Quando parlai con Bobby, Martin Luther King era stato appena ucciso a Memphis, un mese prima, il 4 aprile. Eravamo ai primi di maggio. Era preoccupato per le proteste dei neri, ma era ottimista. «Ce la faremo - mi disse - il Paese è più forte delle sue contraddizioni». Fu quello il mio ultimo incontro con Bobby. Un mese dopo, anche lui fu ucciso. E la violenza continuò, fino agli incidenti di Grant Park, a Chicago, dove si tenne la Convention democratica e dove il partito si disintegrò. Bobby era solo un senatore dello Stato di New York, ma era il guardiano del patrimonio intellettuale e politico di suo fratello, il "presidente martire". Era anche il promotore più esplicito dei diritti civili. Era predestinato alla vittoria della nomination dopo il ritiro di Johnson. E forse alla Casa Bianca. Ma nelle prime ore della notte del 5 giugno, dopo aver vinto le primarie in California, mentre salutava i suoi sostenitori all'Ambassador Hotel di Los Angeles, informale come l'avevo visto un mese prima, e con poca protezione per sua stessa scelta, Shiran Shiran, uno strampalato di origine palestinese, lo assassinò. E i sogni americani per l'affermazione di una società giusta ed equilibrata andarono in frantumi. Nel corso del nostro incontro Bobby non aveva fatto mistero delle sue ansietà per la scollatura sempre più marcata fra varie unità dell'alleanza che aveva reso possibile la "Nuova Frontiera". Attribuiva lo scetticismo di tanti elettori allo stile pedestre della campagna condotta dal presidente Lyndon Johnson nei primi mesi delle primarie e come contrasto esaltava, con passione e magnetismo, l'entusiasmo con cui era regolarmente accolto dai giovani anche nelle università di provincia, dell'Alabama o dell'Iowa. Il contrasto del suo messaggio di ottimismo con le dimostrazioni dei neri dopo l'uccisione del reverendo King e con la tensione del Paese era forte: interi quartieri di grandi centri metropolitani come Chicago, Los Angeles Newark, Washington e San Francisco e di località meno note come Nashville, Austin, Tallahassee o Jackson erano diventate immensi inferni. Era dall'epoca della guerra civile che tanti centri urbani non venivano sconvolti simultaneamente da disordini così imponenti. E anche nel centro di Washington le rovine di interi isolati distrutti dalle dimostrazioni sono scomparse solo recentemente. Una delle pagine più memorabili di quella orrenda primavera resta un colloquio, di cui scrissi allora, fra il presidente Johnson e il senatore Mike Mansfield, avvenuto all'alba del cinque di giugno nella camera del presidente, poche ore dopo l'attentato a Bobby, che morì in ospedale il 6 giugno. Lo sconforto, è evidente: «Mike, io non so più cosa stia avvenendo in questo Paese. Io non avevo mai creduto - diceva Johnson - a quelli che dicono che questa è una società malata, ma ora mi domando se non abbiano ragione loro. Dove stiamo andando? Dove finiremo? E perché, soprattutto dopo l'assassinio di Jack Kennedy, è diventato sempre più frequente che un individuo senza volto spunti dall'oscurità e spari a bersaglio sicuro? E perché aumentano sempre più i sospetti di complotti organizzati?». Johnson non poteva credere che, dopo tutto quello che aveva fatto per far approvare le leggi sui diritti civili, anche al costo di far perdere per generazioni ai democratici il controllo degli Stati meridionali, i neri stessero trasformando la nazione in una immensa guerra civile di americani contro americani. E a Grant Park, quello stesso parco dove Barack Obama 40 anni dopo potrebbe dichiarare domani la sua vittoria per la Casa Bianca del 2008, ai margini della Convention di Chicago, la polizia arrivò a sparare sui delegati pacifisti. Il trauma per il Paese sembrava solo peggiorare. Anche se John F. Kennedy, Bobby Kennedy, Martin Luther King, il governatore dell'Alabama George Wallace e altri erano rimasti vittime di complotti di bianchi, i leader politici, e soprattutto l'Fbi, erano allarmati per il dilagare della violenza fra i 22 milioni di neri. Temevano che i leader del Black Power continuassero a seminare incendi e disordini. E le tensioni aumentarono al punto da scardinare la vecchia alleanza democratica che reggeva dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Le paure del baratro politico e dell'instabilità aprirono le porte a Richard Nixon e a una nuova coalizione repubblicana che ha dominato il Paese fino a questi ultimi anni. Ma ora spunta Barack Obama. E, comunque vada oggi, con la sua nomination si è già scritta una nuova pagina di storia. E la certezza che avevo allora, in quell'estate triste del 1968, la ritrovo oggi: Bobby Kennedy, come me lo ricordo allora, giovane, forte, coi suoi occhi azzurri e i suoi magnifici bambini, non è morto invano.
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