PUO' UN SOCIALISTA ESSERE FELICE? GEORGE ORWELL SI CONFRONTA CON LE OPERE DI WELLS, MORRIS E SWIFT. Traduzione di Maria Sepa, pubblicato dal Corriere delle Sera 16 dicembre 2008
16 gennaio 2009
Il Natale ci fa pensare quasi automaticamente a Charles Dickens, e per due buone ragioni. La prima è che Dickens è uno dei pochi scrittori inglesi ad aver scritto sul Natale, che è la festa più amata dagli inglesi, ma ha ispirato poche opere letterarie. Ci sono i canti, i Christmas Carols, quasi tutti di origini medievali; c'è una manciata di poesie di Robert Bridges, T.S. Eliot e qualche altro, c'è Dickens; e poco di più. La seconda ragione è che tra gli scrittori moderni Dickens è uno dei pochi, quasi l'unico, a offrire un'immagine convincente della felicità. Dickens ha parlato del Natale due volte, in un capitolo del Circolo Pickwick e nel Canto di Natale. Quest'ultimo racconto venne letto a Lenin morente che, secondo la moglie, ne trovò del tutto intollerabile «il sentimentalismo borghese». In un certo senso aveva ragione, ma se fosse stato in condizioni di salute migliori si sarebbe forse accorto che quel racconto ha dei risvolti sociologici interessanti. Anzitutto, per quanto Dickens calchi la mano e il «sentimentalismo» di Tiny Tim possa sembrare sgradevole, la famiglia Cratchit pare proprio divertirsi. Ha l'aria felice, a differenza, per esempio, dei cittadini di Notizie da nessun luogo di William Morris. Inoltre, la loro felicità deriva soprattutto dal contrasto, e il fatto che Dickens se ne renda conto è uno dei segreti della sua forza. Sono contenti perché una volta tanto hanno cibo in abbondanza. Il lupo è alla porta, ma sta scodinzolando. Il vapore del pudding natalizio aleggia su uno scenario fatto di banchi di pegni e di duro lavoro e accanto alla tavola imbandita il fantasma di Scrooge è sempre presente. Bob Cratchit vuole perfino brindare alla salute di Scrooge, cosa che la signora Cratchit, giustamente, rifiuta di fare. I Cratchit riescono a godersi il Natale proprio perché viene solo una volta all'anno. La loro felicità è convincente proprio per questo. La loro felicità è convincente perché è descritta come provvisoria. Tutti i tentativi di descrivere una condizione di felicità permanente, d'altro canto, si sono risolti in un fallimento. Le Utopie (a proposito, la parola Utopia non significa «bel luogo», ma «luogo inesistente ») sono comparse spesso nella letteratura degli ultimi tre o quattrocento anni, ma quelle «positive» sono immancabilmente poco attraenti, e di solito anche prive di vitalità. Le Utopie moderne di gran lunga più note sono quelle di H.G. Wells. La visione del futuro prefigurata da Wells è enunciata appieno in due libri scritti all'inizio degli anni Venti, The Dream e Men Like Gods. Vi si trova un'immagine del mondo che a Wells sarebbe piaciuto, o che pensava gli sarebbe piaciuto. È un mondo in cui le note dominanti sono l'edonismo illuminato e la curiosità scientifica. Tutti i mali e le miserie di cui soffriamo sono scomparsi. L'ignoranza, la guerra, la povertà, la sporcizia, la malattia, la frustrazione, la fame, la paura, la fatica opprimente, la superstizione non ci sono più. Così descritto, non potremmo negare che sia il genere di mondo a cui tutti aspiriamo. Tutti noi vogliamo abolire quel che Wells vuole abolire. Ma c'è qualcuno che voglia veramente vivere in un'Utopia wellsiana? È semmai il contrario: non dover vivere in un mondo come quello è ormai diventata una questione politica ben presente. Un libro come Il mondo nuovo è espressione della paura che l'uomo moderno nutre nei confronti della società edonistica razionalizzata che ha il potere di creare. Uno scrittore cattolico ha affermato recentemente che le Utopie sono oggi tecnicamente possibili, e che ora il vero problema è come evitarle. Non possiamo limitarci a ritenere ridicola quest'osservazione e a ignorarla, perché una delle molle del movimento fascista è proprio il desiderio di evitare un mondo troppo razionale e comodo. Tutte le Utopie «positive» sembrano simili nell'ipotizzare la perfezione ed essere incapaci di dare un'idea della felicità. Notizie da nessun luogo è una specie di versione edulcorata dell'Utopia wellsiana. Tutti sono gentili e ragionevoli, la tappezzeria viene tutta da Liberty, il miglior negozio, ma si avverte una vaga malinconia. Colpisce, però, che neanche Jonathan Swift, uno degli scrittori più ricchi d'immaginazione, riesca meglio degli altri a costruire un'Utopia «positiva». La prima parte dei Viaggi di Gulliver è probabilmente la critica più feroce alla società umana che sia mai stata scritta. Ogni parola di quel libro è ancora attuale; a tratti vi si trovano prefigurazioni dettagliate degli orrori politici del nostro tempo. Swift fallisce, però, quando cerca di presentarci una razza di individui che suscitano la sua ammirazione. Nell'ultima parte, in antitesi agli sgradevoli Yahoo, vengono mostrati i nobili Houyhnhnms, cavalli intelligenti e privi delle debolezze umane. Questi cavalli, nonostante il loro spirito elevato e l'infallibile buon senso, sono creature piuttosto noiose. Come gli abitanti di tante altre Utopie, si preoccupano soprattutto di evitare i problemi. Conducono vite monotone, controllate, «ragionevoli», libere non solo dai litigi, dal disordine o da incertezze di ogni genere, ma anche dalla «passione», compreso l'amore fisico. Scelgono i compagni seguendo principi eugenetici, evitano gli eccessi dei sentimenti, e sembrano quasi contenti di morire quando giunge la loro ora. All'inizio del libro Swift mostra dove la follia e la ribalderia portano l'uomo: ma se si eliminano la follia e la ribalderia, ciò che rimane sembra essere un'esistenza tiepida, che non ha molto senso vivere. I tentativi di descrivere l'approdo a una felicità ultraterrena non hanno avuto maggiore successo. Come Utopia il Paradiso è un fiasco, mentre l'Inferno occupa una posizione ragguardevole in letteratura, ed è stato spesso descritto in modo dettagliato e convincente. Sappiamo bene che il Paradiso cristiano, come è di solito rappresentato, non attrarrebbe nessuno. (...) Molti pastori evangelici, molti Ritratto dell'artista da giovane di James Joyce) hanno spaventato a morte i fedeli con le loro rappresentazioni dell'Inferno. Ma quando si passa al Paradiso, si torna invariabilmente a valersi di parole come «estasi» e «beatitudine», senza fare molto per cercare di spiegare in che cosa consistano. Forse il passo più vitale su questo argomento è quello, famoso, di Tertulliano, in cui si dice che una delle maggiori gioie del Paradiso è guardare le torture dei dannati. Le versioni pagane del Paradiso sono forse un po' migliori. Si ha la sensazione che nei campi elisi ci sia sempre il tramonto. L'Olimpo, dove vivevano gli dei, con il nettare e l'ambrosia, le ninfe ed Ebe, «puttane immortali» come le ha chiamate D.H. Lawrence, potrà essere un po' più interessante del Paradiso cristiano, ma non fa venir voglia di passarci molto tempo. Il Paradiso musulmano, con le sue 77 urì (vergini) per ogni uomo, tutte presumibilmente desiderose di attenzioni allo stesso momento, è un vero e proprio incubo. Nemmeno gli spiritualisti, che ci assicurano di continuo che «tutto è luminoso e bello», riescono a descrivere una qualche attività dell'altro mondo che una persona avveduta possa trovare, se non attraente, almeno sopportabile. Nello stesso modo si risolvono i tentativi di descrivere la perfetta felicità che non siano né utopistici né ultraterreni, ma semplicemente sensuali. Danno sempre l'impressione di essere vuoti o volgari, o entrambe le cose. All'inizio di La pulzella d'Orléans, Voltaire descrive la vita di Carlo IX con la sua amante Agnes Sorel. Erano «sempre felici », dice. E in cosa consisteva la loro felicità? Un susseguirsi incessante di feste, libagioni, partite di caccia e amplessi. Chi, dopo qualche settimana, non si stancherebbe di un'esistenza simile? Rabelais parla delle anime fortunate che si divertono nell'aldilà, come consolazione per essersela passata male in questo mondo. Cantano una canzone che si potrebbe grossolanamente tradurre così: «Saltare, danzare, far scherzi, bere vino bianco e rosso, e non far niente tutto il giorno se non contare monete d'oro». Che noia, in fin dei conti! L'idea vana del divertimento senza fine è ben raffigurata nel quadro di Brueghel Il paese di cuccagna, dove tre grassoni giacciono addormentati uno accanto all'altro, tra uova sode e cosce di pollo pronte a farsi mangiare. Sembra che gli esseri umani non sappiano descrivere, né forse immaginare, la felicità se non in termini di contrasto con una opposta condizione. Per questo da un'epoca all'altra il concetto di Paradiso o quello di Utopia cambiano. Nella società preindustriale il Paradiso era descritto come un luogo di infinito riposo, e lastricato d'oro, perché l'essere umano medio conosceva solo la fatica del lavoro e la povertà. Le urì del Paradiso musulmano riflettevano una società poligama dove la maggior parte delle donne scomparivano negli harem dei ricchi. Ma queste immagini di «eterna beatitudine» sono sempre poco attraenti perché quando la beatitudine diventa eterna (eternità intesa come tempo infinito), il termine di paragone scompare. Alcuni motivi convenzionali radicati nella nostra letteratura sono nati da condizioni fisiche che ora hanno cessato di esistere. Ne è un esempio il culto della primavera. Nel Medioevo la primavera non significava rondini e fiori di campo. Significava verdura, latte e carne fresca dopo parecchi mesi di maiale salato consumato in capanne fumose e prive di finestre. I canti della primavera erano allegri, «Se la carne poco costa, e le femmine son care, e i bulletti vanno apposta tutt'intorno a gironzare, non ci resta che mangiare, stare allegri e ringraziare il buon Dio che ci largì l'allegria di questo dì» (Shakespeare, Enrico IV), perché c'erano buone ragioni per rallegrarsi. L'inverno era finito, questo era il fatto principale. Lo stesso Natale, una festa pre-cristiana, è probabilmente nato perché, di tanto in tanto, mangiate e bevute fuori del comune aiutavano a interrompere l'insopportabile inverno nordico. L'incapacità del genere umano di immaginare la felicità in forme diverse dalla liberazione dalla fatica o dal dolore pone ai socialisti un grave problema. Dickens sa descrivere una famiglia stretta dalla povertà che si butta su un'anatra arrosto, e farla apparire felice; allo stesso tempo, gli abitanti di universi perfetti non mostrano nessuna allegria spontanea e sono di solito assai poco attraenti. Ma ovviamente noi non vogliamo il mondo descritto da Dickens, né, probabilmente, nessuno dei mondi che avrebbe potuto immaginare. L'obiettivo dei socialisti non è una società dove alla fine tutto si risolve perché vecchi signori gentili regalano tacchini. Il nostro obiettivo non è forse una società in cui la «carità» non sia necessaria? Vogliamo un mondo in cui Scrooge, con i suoi dividendi, e Tiny Tim, con la sua gamba storpia, siano entrambi impensabili. Significa che aspiriamo a un'Utopia senza dolore? A rischio di dire una cosa che i redattori del Tribune potrebbero non approvare, affermo che il vero scopo del socialismo non è la felicità. La felicità finora è stata una conseguenza occasionale e, per quel che ne sappiamo, potrebbe rimanere tale. Il vero scopo del socialismo è la fratellanza umana. Spesso lo si pensa, ma di solito non lo si dice, o non lo si dice a voce abbastanza alta. Gli uomini passano la vita in strazianti lotte politiche, si uccidono in guerre civili, o vengono torturati nelle prigioni della Gestapo, non per costruire un qualche Paradiso con riscaldamento centralizzato, aria condizionata e illuminazione al neon, ma perché vogliono un mondo in cui gli esseri umani si amino, anziché derubarsi e uccidersi a vicenda. Questo è per loro un primo passo. Quale direzione poi prenderanno non è dato sapere, e il tentativo di prevederlo accuratamente non fa che confondere le cose. Il pensiero socialista deve immaginare un futuro, ma solo in senso lato. Spesso bisogna tendere a obiettivi che si vedono solo in modo indistinto. In questo momento, ad esempio, il mondo è in guerra e vuole la pace. Il mondo, però, non ha esperienza di pace, non ne ha mai avuta, a meno che non sia esistito il Buon Selvaggio. Il mondo vuole qualcosa della cui esistenza è solo vagamente consapevole, che non riesce a definire con precisione. Questo Natale migliaia di uomini verseranno il loro sangue sulla neve russa, o annegheranno in acque gelate, o si faranno a pezzi nelle isole paludose del Pacifico; bambini senza casa andranno in cerca di cibo tra le rovine delle città tedesche. Far sì che questo non accada più è giusto. Ma dire con precisione come sarà un mondo in pace è tutt'altra cosa. Quasi tutti i creatori di Utopie facevano pensare a un uomo con il mal di denti, per il quale la felicità consiste quindi nel non avere mal di denti. Volevano costruire una società perfetta prolungando all'infinito una condizione apprezzabile solo perché temporanea. Sarebbe meglio dire che ci sono delle linee lungo le quali l'umanità deve muoversi, che il disegno strategico è tracciato, ma che fare previsioni dettagliate non è affar nostro. Chiunque cerchi di immaginare la perfezione ne mette in luce solo la vacuità. È successo anche a un grande scrittore come Swift, che sa mettere perfettamente alla berlina un vescovo o un uomo politico: quando cerca però di creare un superuomo, ci dà l'impressione, opposta alle sue intenzioni, che i maleodoranti Yahoo avessero più possibilità di evolversi degli illuminati Houyhnhnms.
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