PIO ALBERGO TRIVULZIO E DINTORNI, DOV’È FINITA L’ECCELLENZA LOMBARDA? da JobsNews 10 aprile 2020
10 aprile 2020
Milano e i milanesi hanno vissuto per secoli nella convinzione di avere a disposizione un sistema sanitario di eccellenza. Sono sempre stati convinti che le proprie strutture sanitarie avrebbero retto a qualsiasi emergenza. D’altra parte Milano si trovò in emergenza sanitaria più volte. Quella più ricordata è quella del 1917, quando nel bel mezzo della prima guerra mondiale, dovette accogliere di ritorno dal fronte, un numero enorme di malati e feriti, e Milano resse bene. Usò le storiche strutture ospedaliere e ne impiantò altre di emergenza. Aumentò in poco tempo i posti letto, recuperò spazi ovunque, teatri, scuole, alberghi, collegi, stabilimenti, ospedali militari.
E a fianco delle strutture sanitarie, seppe fare moltissimo sul terreno dell’assistenza, dalla riabilitazione, al lavoro, al sostegno delle famiglie e dei minori. Nacquero in poco tempo nuove istituzioni per far fronte a nuovi bisogni. Merito di questo dispiegamento di energie e di umanità, il comune di Milano, il sindaco socialista Emilio Caldara e la grande capacità di intervento delle antiche istituzioni ospedaliere, di ispirazione laiche e cattoliche.
Oggi a due secoli di distanza, in condizione molto diverse da allora (la parola guerra è comunque impropria), il film è drammaticamente molto diverso e risulta essere assolutamente diversa la capacità concreta di far fronte all’emergenza.
Non mi associo certo a chi, preso dalla disperazione di essere politicamente fuori gioco, non gli rimane altro che fare dello sciacallaggio, oscillando tra il “si deve fare di più” oppure “si è sbagliato tutto”, ma la sensazione che la rabbia monti è un dato oggettivo. E non si fermerà.
Perché in una situazione di assoluta impotenza, in cui l’unica cosa che devono fare i cittadini è “stare a casa”, con la paura di un futuro sempre più incerto, sotto agli occhi passano tante cose che non vanno e si vedono troppe ingiustizie.
A fronte di un numero ormai incalcolabile di decreti, provvedimenti, ordinanze e linee guida, spesso in conflitto tra loro, emergono con sempre più evidenza carenze, insufficienze e grandi responsabilità. Fino a quelle che hanno probabilmente fatto sì che il numero di decessi sia molto più elevato di quello che avremmo potuto registrare. E scopriamo così che molte cose, che non stanno andando per il verso giusto, sono figlie di errori strategici dell’oggi e del passato insieme.
Cosicché l’Italia non è più il paese con il “migliore sistema sanitario del mondo” (anzi la sacrosanta riforma sanitaria del 1969 è stata tradita al sud come al nord), e dell’eccellenza della sanità lombarda (assolutamente eccellente per molti secoli) è rimasta solo la narrazione di Roberto Formigoni e compagnia.
Le ingiustizie sulla pelle delle persone, in un momento come questo, pesano e la rabbia è destinata ad aumentare. La rabbia per le cose più piccole come per quelle più grandi. Il tampone ad alcuni viene fatto e ad altri no. Grandi imprenditori chiamano gli amministratori locali e il governo e ottengono la disponibilità a tenete aperte le proprie aziende mettendo a rischio la vita dei propri dipendenti e dei loro familiari, ma al piccolo imprenditore non è concesso. Fino alla pantomima delle mascherine, obbligatorie, ma che non si trovano se non al mercato nero. Poi ci sono i casi di mala gestione della sanità, a partire dal caso di Alzano Lombardo e c’è, dentro il grande capitolo della totale disattenzione nei confronti degli anziani, il caso pietoso del Pio Albergo Trivulzio, storica istituzione pubblica milanese e di altre Rsa. Strutture i cui dirigenti hanno tenuto nascosto i casi di coronavirus, aumentando il contagio degli altri ospiti, del personale medico e dei parenti.
Nel cuore di Milano, la “strage nascosta” all’interno del PAT, assume anche una particolare dimensione politica. Perché il PAT è un ente storicamente pubblico e da qualche anno con responsabilità equamente distribuite tra la Regione, che nomina il Direttore generale e il Comune che nomina il Presidente oltre alla maggioranza del Consiglio di indirizzo. Adesso inizierà il lavoro di indagine ispettiva del Ministero, di indagine autonoma della magistratura e di una commissione di inchiesta regionale. Ad alcuni di loro il compito di indagare sui possibili reati, compreso l’omicidio colposo, a tutti la verifica sulla correttezza della gestione dell’ente. E le indagini si allargheranno a livello regionale. Sarà forse chiarito in quelle sedi in che misura i responsabili del PAT e delle altre Rsa hanno tenuto nascosto i dati veri sui contagi e sui decessi e quali sono state le loro inadempienze.
Ma sul piano politico due ordini di problemi. Le responsabilità dell’oggi e quelle pregresse.
A partire dalla considerazione che in Lombardia le grandi strutture sanitarie, i loro presidenti, consigli di amministrazione, commissari, direttori generali e dirigenti, dipendono, da tempo, in larga misura, da un unico centro di potere regionale, accentrato nei poteri del Presidente della Regione. Quel potere che in Lombardia dal 1997, con la riforma di Formigoni sostenuto dal centrodestra, ha introdotto l’aziendalizzazione del sistema sanitario pubblico, per lasciare grande spazio alla sanità privata. Con l’aggravante che questa operazione “criminale” è avvenuta alla luce del sole, nel disinteresse e nell’acquiescenza quasi generale delle amministrazioni locali. Anche di grandi città come Milano, che hanno sostanzialmente lasciato fare. Hanno accettato che il proprio patrimonio sanitario, le storiche eccellenze pubbliche, venissero indebolite e stravolte. Hanno accettato che in Lombardia negli ultimi dieci anni il numero dei medici passasse da 16 mila a 9 mila. Che venisse fatto immobiliarismo sanitario, costruendo megastrutture anche là dove non erano necessarie, abbandonandone altre che potevano continuare a svolgere benissimo la loro funzione. Hanno accettato la sanità del cemento anziché quella delle apparecchiature, dei medici e dei servizi. Si è accettato che la Regione massacrasse la medicina di base, riducendo vecchi presidi e posti letto.
Quindi mentre la Regione metteva le mani sulla sanità, i comuni hanno smesso di esercitare le loro prerogative. Hanno accettato l’impoverimento dei presidi territoriali e ambulatoriali, rinunciando persino a fare assistenza. Come la sapevano fare i nostri sindaci in passato, a partire da Caldara. Non finirà qui.
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