PERCHE' NON POSSIAMO DIRCI RIFORMISTI di Gaetano Arfè da Il Ponte, ottobre 2005 - Ripubblichiamo questo articolo 20 novembre 2008
11 dicembre 2008
Quando il termine riformismo entrò nel gergo politico socialista Filippo Turati tentò, senza fortuna, di respingerlo: per lui esistevano due socialismi soltanto, quello di chi sapeva e quello di chi ignorava che cosa il socialismo fosse. In realtà, nella storia, socialismo e riformismo hanno proceduto spesso insieme ma non hanno coinciso. È vero che nell’Europa liberale, e in essa l’Italia, la prassi dei movimenti operai socialisti fu riformistica - lotta per le riforme sociali e non preparazione alla rivoluzione - e Bernstein ne teorizzò brillantemente la pratica. La maggioranza della socialdemocrazia tedesca, guidata da Kautsky, respinse, però, il revisionismo bernsteiniano, non per scolastico dottrinarismo ma perché convinta che il riformismo dissociato dal patrimonio di dottrine, di principi, di valori propri del socialismo avrebbe perso con la propria autonomia culturale anche quella politica. Il modesto emulo italiano di Bernstein, Ivanoe Bonomi, - «il socialista che si contenta», lo definí Salvemini - fu espunto dalla stessa corrente che lo aveva avuto tra i suoi capi e fondò con Leonida Bissolati un partitino riformista di oscura e ingloriosa storia. È da dire che il graduale e pur contrastato aprirsi delle società liberali europee a timide istanze democratiche dopo le offensive antisocialiste dell’ultimo Ottocento sembrava autorizzare l’ipotesi di un lento ma “placido tramonto” dei vecchi regimi. Con qualche motivata riserva l’aveva accolta anche il vecchio Engels. Bernstein ne trasse la conclusione che le lotte del movimento operaio e dei suoi partiti avevano messo in moto meccanismi di compensazione che relegavano tra i miti il fine della trasformazione radicale della società. I marxisti non gli contrapposero l’alternativa rivoluzionaria ma confermarono la previsione che l’ordine capitalistico era minato da contraddizioni tendenti a esplodere in un conflitto catastrofico. I loro studi, che ispirarono i documenti dell’Internazionale negli anni che precedettero la Prima guerra mondiale, denotano una capacità di analisi senza riscontri nella cultura delle classi dirigenti, ispirate da quei maestri di cinico e miope realismo i quali provocarono quella guerra che mandò in frantumi la civiltà liberale, fu matrice del bolscevismo, del fascismo e del nazismo ed ebbe come inevitabile sbocco la Seconda guerra mondiale e quello che ne è seguito. In Italia il socialismo passato alla storia come riformista, quello che ebbe in Turati il suo maestro e il suo capo, non si irrigidí nel dogmatismo, ma neanche rinunciò mai alla propria autonomia ideale e la tradusse in atti. Esso credette nella funzione della classe operaia, ne promosse l’organizzazione e la guidò nella costruzione delle sue autonome istituzioni di classe a fini dichiaratamente socialisti; fece proprie le regole della democrazia parlamentare e concorse in maniera determinante, rompendo il cerchio dell’isolamento, a sconfiggere la reazione di fine Ottocento; ebbe una propria rigorosa etica con solido fondamento dottrinale, ma sempre aderente alla realtà politica e ne trasse i motivi dell’opposizione alla prima guerra d’Africa, all’impresa libica e alla guerra mondiale; si batté per una pace che non fosse di vendetta e di sopraffazione; solidarizzò con la rivoluzione antizarista e ipotizzò con argomentazioni ortodossamente marxiste l’involuzione “bonapartista”, vale a dire burocratica e poliziesca, del regime sovietico; denunciò come velleitaria e suicida la predicazione rivoluzionaria del primo dopoguerra; capí e documentò la novità e l’originalità del fenomeno fascista e propose una politica specificamente rivolta a combatterlo – Matteotti fu ucciso per questo -; ne intuí la natura tendenzialmente europea. Proveniva dalle file del socialismo turatiano Giuseppe Saragat, che teorizzò il superamento storico dell’ideologia riformista prebellica e che a Marx dedicò un originale saggio, Humanisme marxiste, accolto con interesse negli ambienti del socialismo europeo. Lo stesso Saragat, quando promosse la scissione di palazzo Barberini, respinse per il nuovo partito la qualifica di riformista che qualcuno aveva proposto e dichiarò che esso voleva essere il partito di tutti i socialisti che non accettavano i principi del partito-guida e dello Stato-guida. Fu un trockista, rimasto tale fino alla morte, Livio Maitan, il segretario della sua Federazione giovanile. Il progressivo incrudelirsi della guerra fredda portò i due partiti risultati dalla scissione di Roma su fronti contrapposti e ridusse fortemente i margini delle loro rispettive autonomie, ma ancora nel ’66, quando era presidente della Repubblica e si realizzò la precaria unificazione tra socialisti e socialdemocratici, Saragat copertamente intervenne per suggerire che nella “carta” del nuovo partito, senza assumere il marxismo a dottrina ufficiale, a esso si facesse riferimento come all’esperienza teorica centrale del movimento socialista. Non fu riformista Nenni che passò dalle file del repubblicanesimo estremista - la “settimana rossa” - a quelle dell’interventismo rivoluzionario per trovare il suo punto d’approdo nel socialismo massimalista legando infine il proprio nome alla politica di unità d’azione col partito comunista. E la “svolta” del congresso di Venezia non fu nel segno del riformismo, ma dell’autonomia socialista. Il termine riformista venne in auge con Craxi, l’uomo politico che, dopo Togliatti ma a un livello culturale assai inferiore, meglio abbia capito l’incidenza nella lotta politica della “battaglia delle idee”. Per temperamento, prima ancora che per formazione, egli non fu un riformista, fu un volontarista, fu, in modi piú e meno felici, un “interventista” che non si adeguava al “corso delle cose”, non posò mai a liberal, ebbe l’occhio attento verso la sinistra extraparlamentare, oggi si direbbe “i movimenti”. Egli brandí il riformismo come arma di lotta ideologica contro la cultura comunista, che aveva perso da tempo la propria capacità egemonica - fu questa la sua lucida intuizione - e si era sclerotizzata nell’accademia. La bandiera del socialismo riformista, provocatoriamente levata contro l’ideologia comunista che del riformismo, bollato come positivista in cultura e opportunista in politica, aveva fatto la bestia nera, gli consentiva di collegarsi con strumentale e magistrale spregiudicatezza al filone piú nobile e piú alto del socialismo italiano, dava i titoli della dignità storica alla sua audace guerra corsara contro un comunismo rimasto prigioniero di un mal difendibile passato. Non fu riformista – e ne ho fatto personale esperienza – neanche nel governo del partito. Il modello al quale dichiaratamente, e dilettantescamente, volle rifarsi fu a quella variante dello stalinismo che fu il titoismo: un ristretto gruppo dirigente fedele al capo, un partito di quadri coeso e disciplinato, una vasta organizzazione di massa quale era la Lega jugoslava. Ma le sue spalle non erano quelle di Tito e i suoi collaboratori si erano formati in una Milano dove già covavano i germi del berlusconismo, dai quali egli stesso non rimase immune. Il risultato fu il disastro. È comunque un fatto che per la prima volta nella storia dei due partiti furono i comunisti a dividersi sul problema del rapporto coi socialisti e ne nacque una corrente la cui originalità dottrinale è simboleggiata dal nome col quale essa salí agli onori delle cronache, quella di “migliorista”. Il tratto caratterizzante del riformismo socialista, in sostanza, non fu quello di voler dare un volto umano al capitalismo, ma di trasformare le strutture della società per costruire un ordinamento dove trovassero fondamento stabile i valori della pace, della libertà e della giustizia. Le strutture di quest’ordine nuovo andavano gradualmente costruite dentro l’involucro della vecchia società, alimentate come “il pulcino nell’uovo”. Una volta giunto a compimento il processo di maturazione, la rottura del guscio non avrebbe comportato alcun trauma. La guerra e i fascismi spazzarono via questa candida e radiosa speranza. In Italia essa riemerse, come ispirazione di fondo, in forme criticamente adeguate ai tempi, nel dibattito che precedette e accompagnò la nascita del primo centrosinistra. Riccardo Lombardi ne fu il piú convinto interprete, sottovalutando le resistenze di varia natura e tutte spregiudicate e variamente aggressive che si sarebbero incontrate. La riprese, dopo un lungo, lento e tormentato cammino, e in un contesto ancora diverso, Enrico Berlinguer quando parlò di «fuoriuscita dal capitalismo», arenandosi a sua volta nelle secche del compromesso storico. Oggi il solo a praticare con lucidità e con tenacia la strategia riformistica - la trasformazione per via legalitaria dell’ordinamento esistente - è Silvio Berlusconi, ma il fine dichiarato a cui tende è la fuoriuscita dalla democrazia. Ora, in un clima culturale in cui non soltanto la rivoluzione russa ma anche quella francese costituiscono l’incarnazione del Male, in cui il mite massimalismo italiano è stato espunto dalla storia e il socialismo delle riforme è coperto da pudichi e fitti veli, in cui finanche il sogno di un lavoro stabile e di un’assistenza sicura diventa perniciosa e sovversiva utopia, il riformismo ha perso ogni connotato, o meglio ha assunto, direbbe quel maestro di satira politica che fu Fortebraccio, quelli, poco attraenti, di un identikit incompiuto. Il primo rilievo, pregiudiziale, che però va esteso a tutto il socialismo europeo, è che ciascun partito socialista concepisce e attua la propria politica nel chiuso di una dimensione nazionale, incrinata, in Italia, essa stessa dalla tracotanza dei “governatori”. Non ci sono consultazioni, non ci sono scambi di esperienze, non c’è un centro di coordinamento, non c’è un programma comune, non c’è una politica socialista europea. Il fenomeno, per la verità, non è di oggi. Le sole nazionalizzazioni riuscite, lamentava in tempi lontani Ignazio Silone, sono quelle che i socialisti hanno fatto di se stessi. La battaglia condotta da Altiero Spinelli per fare del Parlamento europeo la forza motrice del processo di integrazione non li ebbe tra i protagonisti. L’«euro-socialismo» e l’«euro-comunismo» naufragarono senza lasciare superstiti. L’esistenza di un partito del socialismo europeo è ancora tutta da dimostrare. Eppure mai come oggi non c’è problema, neanche quello della raccolta dei rifiuti, che possa essere affrontato dentro i confini delle vecchie patrie. Il riformismo in un paese solo, anche se fosse, come non è, praticato con serietà e con rigore non è un’illusione, è un ignobile inganno. Per quanto riguarda l’Italia c’è da aggiungere che il riformismo, diventato la vuota e dogmatica ideologia dei partiti e partitini di varia estrazione socialista in serrata e livida competizione tra loro, si distingue per metodi di direzione politica, di selezione dei rappresentanti, di organizzazione dei militanti, tali da far rimpiangere con accorata e disperata nostalgia il centralismo democratico di togliattiana memoria, ma si distingue anche e, direi, soprattutto per il diffuso disprezzo di quelle norme di limpidezza, di rigore, di stile che furono proprie di tutto il quadro dirigente della sinistra italiana. In piú occasioni sono stati già disinvoltamente scavalcati i confini della decenza e ci sono segni per temere che il peggio non sia ancora venuto. Ci sono poi nel riformismo nostrano ambiguità da sciogliere che, lungi dal dissolversi, si infittiscono e si intorbidano via via che si procede sugli erti sentieri che portano al futuro. Vi primeggia il problema del rapporto col mondo cattolico. Ci è stato detto e ripetuto in questi ultimi tempi, da qualcuno con compunzione, dai piú con opportunistica ipocrisia - e si è tentato di inserire l’affermazione nella costituzione europea - che la radice dell’Europa è cristiana. Il dato storicamente vero è che il cristianesimo è la radice piú antica e piú articolata della civiltà europea, ma è altrettanto vero che la civiltà europea quale noi la conosciamo e della quale ci gloriamo è il prodotto dello scontro tra la sua piú potente e coesa rappresentanza, quella cattolica, e le altre piú giovani componenti, quella liberale e quella socialista. Senza risalire alle crociate e alla Santa Inquisizione, nella tradizione della chiesa di Roma stanno la Santa Alleanza, il Sillabo e l’anatema sull’Italia unita, la lotta frontale al socialismo nascente, stanno le aperte complicità coi fascismi, la scomunica caduta sui comunisti e su quanti li votavano o avevano con loro rapporti di collaborazione - ho ancora il ricordo della sofferenza di mia madre - ma non sul regime assassino di Pinochet. Io sono stato e resto convinto che in Italia la collaborazione col cattolicesimo democratico, che esiste ed è una forza reale, risponda a una necessità storica e ho dato in altri tempi il mio modesto apporto a che questo si realizzasse. In rappresentanza del partito socialista - mi richiamo a una esperienza personale - ho avuto ripetuti contatti sulla questione spinosa della revisione del Concordato con dirigenti democristiani in fama di clericali come Giulio Andreotti e Guido Gonella e ho potuto riscontrare, nell’uno e nell’altro, il senso di lealtà nei confronti delle istituzioni e il rispetto per il principio della laicità dello Stato. Con Gonella il rapporto di reciproca stima sfociò in schietta amicizia. Non pongo perciò in discussione la necessità politica, in una situazione dove sono in pericolo i fondamenti della nostra democrazia, che l’alleanza proceda e diventi organica, ma la condizione perché essa sia feconda è che si svolga in un gioco di reciproca autonomia. Il nostro è un paese dove la maggioranza è di battezzati ma non di cattolici ed è il momento di ricordarlo a chi crede che annacquando il laicismo si conquistino le masse dei credenti: i referendum sul divorzio e sull’aborto ne hanno dato la prova. Ma quelle conquiste civili furono possibili perché lo stato del rapporto, di netta distinzione, tra laici e cattolici non impose deteriori compromessi, consentí che la Democrazia cristiana potesse liberamente opporsi e condurre la sua battaglia, in obbedienza alle direttive delle gerarchie ecclesiastiche, ma nel rispetto delle regole della democrazia. Non è un’astratta “questione di principi”: ci sono oggi sul tappeto problemi di capitale importanza - l’esplosione demografica, la libertà della ricerca scientifica, la laicità della scuola, la sfera della sessualità - sui quali le posizioni del Vaticano, dogmatiche per definizione, tendono a diventare sempre piú rigide e sulle quali possono prodursi differenziazioni non componibili nel compromesso senza diventare fomiti di deteriori opportunismi, dannosi per tutti. La condotta del raggruppamento che fa capo a Rutelli ne fornisce fin d’ora la plateale dimostrazione. Il riformismo laico e quello cattolico possono e debbono convergere, ma non possono e non debbono confondersi fino a quando, ammesso che ci si arrivi, l’autonomia dei cattolici non sia un dato definitivamente acquisito. Ma un problema di autonomia, in termini diversi, si pone anche per il riformismo dei vari tronconi della sinistra che si collocano nel solco della tradizione dei partiti legati al movimento operaio. Qui convivono, mal fusi, residuati sterili delle culture piú diverse, fatti di smaccate apostasie e di pudibonde nostalgie, di conversioni rassegnate alle ideologie dei gruppi dominanti e di avanguardismi cangianti e velleitari. Il riformismo, per definirsi, non ha bisogno di confermare la propria scelta legalitaria e democratica, - solo Berlusconi può pensare a un Fassino che alla testa di un’orda di scalmanati assalti il Quirinale ha bisogno di armarsi di una dottrina critica, duttile, ma organica che sia in grado di indirizzare i programmi in una visione di lungo periodo perché i problemi drammatici insorti in forme che non hanno riscontri nella storia umana impongono che si guardi lontano ma che li si affronti fin d’ora con realistica gradualità, senza mai perdere di vista la linea di fondo da seguire con coerenza e con tenacia. I vecchi socialisti, con un ottimismo brutalmente soffocato dalla guerra, avevano elaborato un programma minimo e un programma massimo connessi tra loro, dove il primo era di riforme compatibili con gli ordinamenti esistenti ma indirizzato a creare gradualmente le condizioni idonee per una sua trasformazione radicale. Nella società europea del primo Novecento il programma massimo rimaneva però un’enunciazione dottrinale che la guerra cancellò fino a farne dimenticare l’esistenza. I soli a perseguirlo e a sperimentare quali costi e quali rischi comportasse il tentativo di attuarlo e quali gli ostacoli, alla fine insuperati, contro i quali sarebbero stati costretti a scontrarsi furono i bolscevichi. Il socialismo gradualista, amputato delle sue avanguardie dalle scissioni comuniste e aggredito dagli sciovinismi scatenati, ripiegò nella difesa o subí sconfitte sanguinose. Oggi il criterio, per certi aspetti, torna attuale, ma in una situazione percorsa da contraddizioni della piú alta drammaticità che percuotono l’intero pianeta. Nel caotico groviglio di problemi dentro il quale ci dibattiamo ce ne è uno tutto nostro, immediato e urgente: siamo afflitti dal peggior governo che la Repubblica abbia conosciuto nel corso della sua storia. Non è, secondo il vecchio motto, il comitato d’affari della borghesia ma il comitato d’affari della piú grossa azienda del paese, sorretto da una maggioranza composita ma tutta prona agli ordini del padrone, integrata da una minoranza interna facinorosa e becera, emersa dai bassifondi della storia. Esso sta demolendo tutte le istituzioni, sta mandando in dissesto l’economia, sta screditando l’Italia in Europa e nel mondo. Abbatterlo è un imperativo morale e un dovere politico ed è deplorevole che rivalità di botteghe e miserevoli opportunismi rendano incerto il passo e corto il respiro dell’opposizione e ne indeboliscano la presa. I dubbi sulla sua capacità di governo, tenuto conto delle prove già date, sono legittimi, ma va preso atto che non c’è possibilità di scelta. Proprio per questo, però, con gli antiquati strumenti di cui esse dispongono, una pressione va esercitata dalle forze vive del paese ignorate dai vertici dei partiti, sui gruppi e sui personaggi piú aperti e piú maturi della coalizione - e ce ne sono - perché l’indirizzo da dare alla politica italiana non si limiti a sanare i guasti, non sia un berlusconismo riveduto e ripulito e non sia neanche una ripetizione di quel che fece il centrosinistra di Prodi e di D’Alema. Il governo di cui stiamo soffrendo ha le sembianze del suo presidente, ma è anche manifestazione grottescamente italiana di un fenomeno internazionale e i buoni sentimenti e i buoni propositi non bastano a estirparne le radici. Bisogna guardare lontano nel tempo e nello spazio, ma il riformismo, come oggi si presenta, non è faro e non è bussola. Il suo primo problema è quello di europeizzarsi. Il sedicente partito dei riformisti dove convivono anime diverse e tutte esangui è un’anomalia provinciale che non ha riferimento in Europa e non basterà a far da traino verso il socialismo europeo e da stimolo poi nella sua compagine il piú anziano membro nazionale dell’Internazionale socialista, il partitino del mite Boselli, quand’anche nelle sue file affluissero, come si minaccia, un pugno di socialisti di ritorno dai discussi costumi e i seguaci dell’ineffabile Pannella. È a questo punto, ancora da toccare, che altri problemi si aprono, ardui, complessi, irti di contraddizioni reali, attuali e tutte drammatiche. I vecchi socialisti non ebbero difficoltà a formulare il loro programma massimo: era quello di una società di liberi e di eguali, fondata sul lavoro. Andrea Costa lo esemplificava nel sogno della sua Imola quale sarebbe stata a socialismo realizzato. I socialdemocratici tedeschi compilarono, come si disse, il «Baedeker del futuro», la guida turistica per aggirarsi nella società socialista. Il programma massimo di oggi non può rifugiarsi nell’utopia. Esso ha di fronte a sé due obiettivi, di terribile, paurosa grandiosità, imposti dalla realtà e strettamente connessi: superare la fase nella quale viviamo delle violenze scatenate e irrefrenate, delle rapacità feroci, del martirio quotidiano di sterminate masse umane; salvaguardare le condizioni necessarie alle sopravvivenza del genere umano. Il «Baedeker» per trovare le vie giuste a questa vita non è ancora stato scritto, ma l’esperienza ci fornisce già delle certezze di segno negativo e tutte inoppugnabili. La guerra infinita genera il terrorismo infinito, semina il mondo di morti e di rovine, imbarbarisce le società nelle quali viviamo e della cui civiltà meniamo vanto, distrugge risorse di incommensurabile enormità e irrecuperabili. La ripulsa di tutto questo ha consensi di massa, ma le piazze iridate hanno bisogno di un progetto politico di dimensione planetaria e la sola piattaforma possibile dalla quale partire è quella europea. Gli sconvolgimenti climatici, gl’inquinamenti dell’aria, l’inaridimento della terra, non si fermeranno col ricorso alle targhe alterne e neanche con l’applicazione dei protocolli di Kyoto, già inadeguati, avverte la scienza, e rigettati, peraltro, dai maggiori inquinatori del mondo. A difendere il patrio suolo dalle ruspe della speculazione non basterà il blocco dei condoni edilizi o il rifiuto di vendere il Colosseo e il soffocamento dell’intero paese nel traffico non si evita allargando le isole pedonali, costruendo mastodontici parcheggi mentre si progettano nuove autostrade e lanci di treni a fulminante velocità. Il flusso delle migrazioni clandestine non cesserà di essere un dramma anche se venisse incivilita la legge firmata da un razzista militante e da un pentito erede del razzismo fascista, e non saranno i concerti di beneficenza a favore degli affamati del mondo e neanche la cancellazione dei debiti dei loro governi ad alleviare il calvario di miliardi di esseri umani. La lotta alla criminalità in tutte le sue forme va condotta con tutti i mezzi legittimi, ma è certo che non la si vince con la «tolleranza zero», con la moltiplicazione e magari la privatizzazione delle galere e con gli squadroni della morte, mentre la corruzione, quella della società civile prima ancora che di quella politica, ha compiuto un grande salto, di qualità oltre che di quantità, rispetto a Tangentopoli e non la si combatte cancellando le leggi di Berlusconi, istituzionalizzando la “trasparenza”, votando a maggioranza un cavilloso codice etico. La generazione dei miei padri e la mia conobbero politici corrotti ma non ebbero bisogno di regole scritte per sapere che esistono dei comandamenti che comportano la squalifica morale e professionale per chi li viola e mai un dirigente di partito si macchiò di quello che per l’uomo politico è peccato senza remissione, la subordinazione delle ragioni della politica a quelle dell’interesse personale. La rete dei mezzi di comunicazione di massa, e in testa la televisione, è diventata nei paesi “civili” lo strumento di un processo di degradazione morale e culturale capillare e penetrante, in certi casi di incitamento a delinquere. A riformarla non basta il fortunoso avvento alla presidenza della Rai di un illuminato e illuminante “intellettuale”, comunista per nascita e riformista per libera scelta. Mi fermo qui. In quali modi si possa intervenire è cosa che richiede l’impegno di piú di una generazione, graduale nei tempi ma coerente nella sua direzione. Determinante è però la scoperta dell’indirizzo giusto e questo esige che si promuova hic et nunc, qui e subito, una rivoluzione culturale, i cui fermenti sono presenti nella società ma hanno solo lambito l’attuale ceto politico della sinistra, e che sia volta a demolire l’ideologia oggi egemone, che fa del mercato il sostituto della divina provvidenza, del denaro l’oggetto di culto idolatra, della competitività la guerra di tutti contro tutti e dello sviluppo lo sperpero dissennato delle risorse del pianeta, che tende a dissolvere la democrazia nel plebiscitarismo, che mette al posto dei partiti degli assemblaggi senza anima di residuati storici o addirittura squallide compagnie di ventura dedite all’accattonaggio dei seggi e allo “scippo” dei posti di potere. E questo è avvenuto senza resistenze di rilievo, con l’acquiescenza vile o addirittura con la cauta complicità di un riformismo disgustosamente amorfo e mediocremente furbesco. Cambiare i principi, i criteri e i metodi della politica, vivificarne la cultura, restaurare un rapporto con la libera scienza risponde a un “bisogno dei tempi”, a una necessità imposta dal corso delle cose. Non sempre le necessità trovano modo di farsi realtà, ma il prezzo che se ne paga è sempre catastrofico. Nella storia del pensiero moderno esiste una cultura, quella socialista, che è nata col senso della dialettica drammaticità dei processi storici, che si è calata nella realtà e si è fatta storia, che ha creato dottrine ed elaborato metodi di interpretazione delle tendenziali linee di sviluppo della società e che si chiama socialismo. Le sue esperienze non si collocano tutte in un remoto passato. Appartengono anche alla mia generazione, per fare qualche esempio a caso, l’appassionato sforzo di Willy Brandt per un programma rivolto ad avviare la lotta agli squilibri che investono con furia omicida interi continenti e che si traducono in genocidi, stermini per fame, schiavitú del lavoro; il progetto, di marca socialista, della prima legislatura del Parlamento europeo per una politica televisiva che faceva dell’antenna uno strumento di civiltà; in Italia il dibattito che preluse alla nascita del primo centrosinistra e la formazione di un movimento, «la sinistra per l’Europa», che si proponeva di affrontare con un programma comune le elezioni europee, che incontrò vasti e appassionati consensi in tutti i settori della sinistra e nel movimento sindacale, che ebbe la benedizione di Altiero Spinelli, che fu presentato alla stampa estera, accolto con favore nelle sedi europee e soffocato in culla dalle gelosie bottegaie e dalle miopi ignavie delle gerarchie politiche. Un vecchio amico e compagno, di alta qualità intellettuale e morale, Gerardo Chiaromonte, ricordando le nostre giovanili polemiche quando seguii Saragat a palazzo Barberini, a commento delle mie riserve nei confronti dei modi sbrigativi coi quali si stava consumando la metamorfosi del ci-devant partito comunista, mi disse: riformista in gioventú, sei diventato in vecchiaia massimalista con tendenze avventuriste. Io credo di essere rimasto, pur gravato di amarezze e di delusioni, quello che ero allora, un socialista che continua a credere nell’autonomia del socialismo e che cerca di conservare il dono della speranza. Per questo oggi non posso dirmi riformista. E ho l’intima convinzione che Chiaromonte, se gli fosse stato concesso di vedere quello che io ho visto e vedo, non mi sarebbe lontano.
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