PERCHÉ È IMPORTANTE FARE SUBITO IL PARTITO DEMOCRATICO - di Michele Salvati da il Riformista del 31 gennaio 2006
03 febbraio 2006
La sinistra europea che vince è già liberale. Non si può pretendere che il partito riformista sia un partito socialista fatto di ex comunisti, e D’Alema è stato rapido nel riconoscere l’errore.
La lista Prodi avrebbe ottenuto una buona fetta dei voti del centro-sinistra, in parte ottenuti da coloro che non vogliono votare i partiti, ma in parte strappati ai partiti stessi: la Margherita, in particolare, si sarebbe dissanguata, soprattutto al Nord. E forse non sono estranei a questo possibile esito sia la fretta con la quale Rutelli ha accettato di fare una cosa che aveva sino a quel momento escluso, la lista unitaria, sia lo zelo con il quale si è messo a predicare le magnifiche sorti e progressive del partito democratico. Facendo la lista unitaria forniva una casa a Prodi e giurando sul partito democratico poteva indurlo a recedere dalla tentazione di farsi una lista propria. Ma anche i Ds non sarebbero stati molto contenti, diciamo così, perché a nessun partito fa piacere perdere voti. Insomma, basta costruire bene il nostro esempio controfattuale per rendersi conto del suo scarso realismo: Prodi avrebbe potuto forzare per ottenere qualcosa di più di una lista unica alla Camera e di vaghe promesse sul futuro, ma forzando avrebbe creato un vespaio, non un consenso entusiasta sull'operazione. E se è vero che la nuova legge avvantaggia uno schieramento a più punte, è anche probabile che tale vantaggio sarebbe stato perduto se le punte del centro-sinistra si fossero messe a litigare. A litigare proprio subito dopo che il popolo di centro-sinistra aveva loro mandato un messaggio di unità e di concordia.
Perso il momento magico, la minaccia della «bomba atomica», della lista Prodi, diventa sempre meno credibile mano a mano che ci si avvicina alle elezioni. Se i partiti non l'accettano con entusiasmo e non ne spiegano il significato alla luce del futuro partito democratico, sono sempre più esili i suoi vantaggi ed evidenti gli svantaggi: a credere nella sua possibilità e utilità per il centro-sinistra oggi sembrano essere rimasti solo Giovanni Sartori e Paolo Flores. Il bluff di Prodi, con le sue dichiarazioni e la sua lettera aperta del 15 gennaio scorso, è durato lo spazio di un mattino: i partiti hanno scrollato le spalle con fastidio e la cosa è finita lì. Insomma, sui partiti e le loro logiche gli eventi di quest'anno non mi inducono a mutare di una virgola la lunga e scettica analisi che ho svolto su questo giornale più di un anno fa («Romano Prodi e il messaggio per l'Italia», sul Riformista dell'11 dicembre 2004): se non sono guidati da leader innovatori, i partiti seguono logiche di minore resistenza, di trascinamento, di path dependence, guidate da puri interessi organizzativi. E non facciamoci ingannare dall'abilità dei leader: oggi Rutelli sembra il trascinatore del progetto, e i Ds sembrano relegati al ruolo di chi punta i piedi. Ma i timori della Margherita di essere fagocitati dai Ds nel caso il partito democratico si faccia «troppo» presto, e qualche ambizioncella egemonica all'interno dei Ds e della loro leadership di ex-Fgci, sono presenti oggi come lo erano un anno fa. Gli elettori non conosceranno le sottigliezze della rational choice, ma questa non è necessaria a capire che i due grandi partiti del centro-sinistra di voglia di fare, sul serio e in fretta, un partito democratico ne hanno pochina. E questo espone il centro-sinistra - che già ha i suoi guai col lato sinistro del proprio schieramento - alla sgradevole ambiguità che denunciava Diamanti e che ne colpisce proprio il motore riformista. Ma veniamo ai Ds.
Le resistenze nei Ds e l'alternativa al partito democratico
Capisco le resistenze della sinistra interna, del «correntino». Da un lato esse sono alimentate da reali differenze di analisi economica, sociale e politica e da seri conflitti di orientamento ideologico e culturale. Dall'altro esse sono il frutto di una valutazione strategica realistica circa il ruolo che una sinistra classista si troverebbe a giocare in un partito in cui il predominio di una sinistra individualistica e liberale diverrebbe ancor più schiacciante: si ritroverebbe come i residui dell'Old Labour nel New Labour di Blair e Brown, o come Lafontaine e i suoi seguaci all'interno di una Spd dominata dalla Neue Mitte di Schroeder. E i suoi leader sarebbero esposti alla sgradevole scelta se star dentro e soffrire o rompere decisamente, come ha fatto Lafontaine. Quanto più comodo è annidarsi nel vecchio partito, dove si viene tutti dalla stessa storia, dove è dominante è il mito dell'unità, dove sanno benissimo che Fassino è disposto a svenarsi pur di evitare una scissione! Non capisco invece le resistenze dei riformisti. Non capisco Peppino Caldarola. Biagio de Giovanni, Emanuele Macaluso, Massimo Salvadori, per citare persone che stimo, le cui concezioni politiche e valoriali faccio fatica a distinguere dalle mie, e che recentemente si sono spesi contro l'ipotesi del partito democratico mediante scritti di un certo impegno. O meglio, capisco i loro ragionamenti, ma credo che siano sbagliati, che sottolineino controindicazioni effettive senza vedere il problema nel suo insieme, e quindi le ancor maggiori controindicazioni di una scelta diversa.
Nella sostanza, mi sembra, questi compagni riformisti hanno sempre in mente l'idea di riportare, finalmente e stabilmente, gli ex-comunisti Ds nella loro casa madre, il glorioso partito socialista, e come socialisti radicarsi a pieno titolo nel partito socialista europeo. Insomma, è la vecchia idea di D'Alema, quella di un paese «normale», in cui ci sono conservatori e socialisti e non Ulivi, Margherite ed altre specie del mondo vegetale. Da leader politico, D'Alema si poneva però, e giustamente, un problema di egemonia: il suo partito socialdemocratico fatto di ex-comunisti doveva diventare un partito potenzialmente maggioritario e i partiti vegetali dovevano sparire o ridursi fortemente. Sappiamo come sono andate le cose: i Ds non sono riusciti a raccogliere tanti ex-socialisti (o anche ex-repubblicani, liberali, democristiani di sinistra…) da attenuare l'imprinting comunista del partito; i partiti vegetali vivono e prosperano; la vocazione maggioritaria è ben lontana, perché, se va bene, i Ds sfiorano il 22%. Insomma, l'asse riformista del centro-sinistra continua a essere composto da due partiti principali e D'Alema è stato rapido nel riconoscere (nei fatti, perché un'autocritica esplicita non l'ha mai fatta) l'errore commesso: oggi, mi sembra, si proclama un leale sostenitore dell'Ulivo e …in prospettiva, del partito democratico.
Perché questo è il punto: se si vuole un partito riformista con vocazione maggioritaria, capace di sfondare il muro del 30% e andare parecchio oltre, non si può pretendere che questo partito sia un partito socialista fatto ...da ex-comunisti. Tutta la nostra storia «anormale», da Porta Pia e la conseguente costruzione di un mondo cattolico estraneo alla politica parlamentare e però fortemente organizzato, con importanti componenti riformistiche, alla prevalenza nel dopoguerra dei comunisti sui socialisti, alla necessità storica per quarant'anni di un partito né-di-destra, né-di-sinistra come la Democrazia cristiana al fine di arginare i comunisti, a Tangentopoli, tutta questa storia ci impedisce di essere un paese «normale», se normali sono quei paesi (non molti a dire il vero) in cui la sinistra è rappresentata da un grosso partito socialista riformista. Insomma, o si vuole continuare nel tentativo di trasformare l'ex-Pci in un partito socialdemocratico (comprensibile, perché si tratta del modello ideologico più vicino, della casa madre), ma allora si rinuncia alla vocazione maggioritaria e ci si rassegna a un centro-sinistra riformista fatto di due partiti, senza contare i piccoli. Oppure si vuole arrivare a un partito riformista a vocazione maggioritaria, capace di sfondare il muro del 30/35%, ma allora bisogna fondere questi partiti, accettare che l'identità socialista si mischi con le altre culture riformiste del nostro anormale paese, e soprattutto con quella di provenienza democristiana.
D'Alema s'era illuso di tagliare l'intricato nodo gordiano della nostra storia colla spada della sua spregiudicatezza politica e delle sue capacità di leadership. Non c'è riuscito e, da buon politico, abbozza. Ma il problema di egemonia l'aveva ben visto: possibile che i Macaluso, i Caldarola, i Salvadori non lo vedono? Come rispondono all'alternativa che abbiamo appena presentato? Nei loro scritti, e in quelli di altri che la pensano come loro, non l'ho mai vista identificata con chiarezza. Dall'apprezzamento che essi esprimono per la socialdemocrazia, dalle critiche che muovono a una possibile mescolanza delle diverse culture politiche riformistiche, dalla ostilità che manifestano per una fusione «affrettata» di Ds, Margherita e Sdi, si può pensare che una scelta l'abbiano fatta: preferiscono la purezza all'efficacia, un'identità socialista minoritaria a un grande partito riformista che tutto socialista non potrebbe essere. Sperano forse che col tempo e con la paglia, come per le nespole, possa anche maturare una capacità egemonica sul segmento riformista del centro-sinistra di un partito ex-comunista trasformato in socialista? Il correntino, quanto meno, ha le idee chiare: smettano i Ds di rincorrere a destra la Margherita, riconoscano di essere una forza di «vera» sinistra, si alleino con Rifondazione, e poi il centro faccia il centro e la sinistra la sinistra. Se, in un contesto che è ritornato proporzionale (e di questo sono contentissimi), il centro vorrà allearsi con loro, esso dovrà accogliere nel programma di governo almeno alcune delle loro richieste di vera sinistra. Se non vorrà farlo e si allea con la destra, ormai sdoganata, faccia pure: gli verrà fatta opposizione in parlamento e sulle piazze. Quali sono le idee strategiche dei riformisti: continuare il litigioso condominio riformistico con la Margherita?
La possibilità del partito democratico e i suoi vantaggi
Caldarola & Co. non hanno torto quando sottolineano le difficoltà di mettere insieme tradizioni culturali e ceti politici così diversi come sono quelli dei Ds e Margherita. Sarebbe più facile intendersi con i socialisti che però, pochi e deboli come sono oggi, non hanno alcuna intenzione di farsi fagocitare dai Ds: quando l'estate scorsa la Margherita si sfilò dalla lista unica di cui lo Sdi era il più convinto dei sostenitori, pur di non restare solo con gli ex-comunisti questo partito si è alleato con i radicali. Ma, come spesso avviene quando non ci piace una cosa, si sopravvalutano le difficoltà e i danni che comporterebbe il partito democratico, si sottovalutano gli eventuali vantaggi e, soprattutto, non si considerano i costi che conseguirebbero al non farlo. I costi del non-partito-democratico sono la più importante ragione per farlo: ne abbiamo appena fatto cenno (il «litigioso condominio» con la Margherita) e ci torneremo. Qui ci limitiamo a una breve rassegna delle difficoltà sopravvalutate e dei vantaggi sottovalutati: ne ho trattato ampiamente nel libro e gli argomenti sono sempre gli stessi. Dunque, solo i «titoli» dei principali.
Il primo riguarda il socialismo: qual è, oggi, l'ideologia delle correnti dominanti nei maggiori partiti social-democratici europei, nel Labour, nella Spd, nello stesso Psoe, con buona pace di coloro che credono Zapatero un pericoloso sovversivo? Se non la si vuole identificare con la Terza via di Giddens, ci si va molto vicino: nella sostanza è una delle innumerevoli varianti (una delle varianti di sinistra) nell'universo dominante delle ideologie liberali. Lo è, al fondo, per la sua scelta decisa dell'individuo come standard di giudizio delle scelte sociali. Lo è per la scelta del mercato: un mercato regolato in modo da controllarne le conseguenze più ingiuste (sempre secondo standard liberali) sugli individui da cui la società è composta, ma sempre di mercato e di capitalismo si tratta. Ne segue che un terreno comune, un punto d'incontro, con diverse tradizioni riformistiche è facile da trovare: oltretutto anche gli ex-democristiani di sinistra non provengono dalla koiné liberale e qualche passo in questa direzione devono farlo pure loro. C'è naturalmente il problema che non si può chiedere ai Ds di rinunciare alla partecipazione al partito socialista europeo e non si può imporre ai Dl di parteciparvi. Questo dipende più dal tradizionalismo e dal nominalismo del Pse che dalle effettive policies dei suoi principali partiti, del tutto simili, colla parziale eccezione del Ps francese, a quelle dei Ds italiani: ma finché il nominalismo perdura il problema esiste ed è abbastanza serio. Non così serio, però, da rendere impossibile una qualche soluzione provvisoria e da sacrificare ad esso un processo unitario che è giustificato da motivi assai più seri. E c'è poi il problema che non tutti i Ds sono disposti a giurare su On Liberty di John Stuart Mill, che c'è il correntino, e anche questo è un problema serio per un partito ossessionato dall'unità, dall'idea di tirarsi dietro tutti. Ne abbiamo fatto cenno prima e ci torneremo subito appresso, accennando alle singole policies. Io penso che una minoranza non-liberale, combattiva, sia un ingrediente importante in un partito democratico, e che le minacce di scissione siano più comprensibili alla luce delle incertezze della maggioranza - i nostri Salvi, Mussi & Co. sanno bene che gli stessi riformisti sono esitanti - che non di una reale intenzione di uscire nel caso il partito democratico si faccia. E poi dove andrebbero? Dopo essere stati in un grande partito, andrebbero con i comunisti italiani o con Rifondazione? E questi li vorrebbero? I volonterosi federatori dell'estrema sinistra incontrano difficoltà ancor maggiori di noi riformisti, come abbiamo visto dai risultati di chi ci ha tentato seriamente. Insomma, come per il caso del Pse, una leadership decisa e convinta non si fa frenare da queste preoccupazioni.
Data la koiné liberale cui i due partiti sono approdati, non genera sorpresa che le politiche economiche e sociali proposte dai Ds e Margherita siano molto simili, e simili a quelle delle correnti riformistiche moderate dei grandi partiti socialisti europei: Bersani e Letta la pensano allo stesso modo sulla politica economica, sulle pensioni, sull'assistenza, sulla scuola, sulla sanità e, se ci sono occasionali differenze, queste sono spazzate via dalla discussione, perché non dipendono da divergenze analitiche o ideologiche profonde. Lo stesso, ed è più sorprendente, avviene per l'Europa e per i grandi temi della politica estera: per entrambe le aree di policy le vere differenze sono interne ai due partiti, notevoli nei Ds tra i riformisti e il correntino, ma non assenti neppure nella Margherita. Le differenze tra i due partiti sembrerebbero più serie per quanto riguarda una terza grande area di policy, quella relativa ai temi della bioetica, della famiglia e soprattutto dei rapporti colla Chiesa cattolica. Questi temi, insieme a quelli dell'immigrazione e del multiculturalismo, diventeranno sempre più importanti nella politica del futuro, ma non bisogna farsi impressionare troppo dalle polemiche del presente, dalla scelta impolitica (facile dirlo col senno di poi) del referendum sulla procreazione assistita, dalle scelte divergenti dei Ds e Margherita in proposito. Se la koiné liberale tiene, non c'è possibilità di divaricazione profonda tra i due partiti: le posizioni così eloquentemente motivate dai nostri Tonini e Ceccanti facilmente possono diventare posizioni condivise dall'intero partito democratico e la spiegazione delle forti divergenze che si sono manifestate in proposito si capiscono assai di più alla luce di un conflitto di organizzazioni che non di un vero e profondo contrasto di idee. Mi spiego meglio. Con una gerarchia ecclesiastica che, in mancanza di un partito stabile di riferimento, fa attivamente lobbying presso i diversi partiti, e implicitamente promette vantaggi per quelli che sostengono policies più vicine alle proprie posizioni, si è generata una concorrenza tra partiti a schierarsi colla Chiesa. Per tradizione, nell'ambito del centro-sinistra, è la Margherita che poteva meglio profittare della situazione e la concorrenza con i Ds spiega l'estremizzazione del contrasto. E dunque si è calcata la mano su differenze ideali (in parte esistenti, ma in buona misura esagerate) perché esisteva concorrenza tra organizzazioni, una convenienza ad esasperarle. Ma faccio fatica a vedere nella Margherita un partito meno laico, meno attento alla distinzione tra Cesare e Dio, di quanto non fosse la vecchia Democrazia cristiana.