PER IL FMI E' ORA DI CAMBIARE ROTTA di Mario Lettieri e Paolo Raimondi da ItaliaOggi del 11 agosto 2009i

01 settembre 2009

PER IL FMI E' ORA DI CAMBIARE ROTTA di Mario Lettieri e Paolo Raimondi da ItaliaOggi del 11 agosto 2009i

Forbes: se gli Usa non ascoltano i consigli del Fondo, perché i paesi poveri dovrebbero farlo?
Basta con aggiustamenti strutturali che frenano la crescita.
Recentemente Forbes, la rivista statunitense di economia e di mercato, ha ospitato un articolo sul Fondo monetario internazionale che rompe con l'approccio tradizionale del mondo della finanza nei confronti dei paesi poveri ed emergenti. L'articolo, scritto da due esperti di politica dello sviluppo da sempre polemici nei confronti delle organizzazioni economiche internazionali, invitava il Congresso americano a cogliere l'occasione per cambiare il Fmi. La chance era il voto del senato per il finanziamento di 108 miliardi di dollari al Fmi, stranamente collocato come un allegato della Legge per le spese di guerra! Il Congresso ha deciso gli stanziamenti sulla carta, ma non ha colto la domanda di riforma del Fmi. Il G20 di Londra aveva auspicato un ruolo nuovo e di stabilità per il Fmi, soprattutto nei confronti dei paesi poveri, ma nessun cambiamento di fondo è avvenuto nel frattempo. Gli autori dell'articolo sottolineavano che, nonostante il fatto che persino il premier inglese Gordon Brown aveva ammesso che il «Washington Consensus» era fallito, il Fmi sta continuando a imporre condizioni duramente restrittive sui programmi e sui bilanci dei paesi poveri. Il «Washington Consensus» era l'accordo delle nazioni avanzate firmato nel 1989 in cui si decideva di sottoporre i paesi in via di sviluppo ai cosiddetti «programmi di aggiustamento strutturale», ispirati alla più devastante e ideologica liberalizzazione e globalizzazione economica e finanziaria. Infatti ancora oggi sono numerosi gli esempi di condizionamento e di austerità imposti dal Fmi. Alla Tanzania è imposto di pagare prima gli interessi sul debito estero, che sono il 10% del pil e poi di definire un programma sanitario nazionale che non raggiunge il 9,8% del bilancio, limitando così a un terzo il numero dei dottori che sarebbero necessari. Per accedere a nuovi crediti, il Fmi ha imposto al Pakistan alti tassi di interesse e un aumento delle tasse, mentre la Latvia deve tagliare il bilancio nazionale del 40% e mettere in pericolo la rete di sostegno sociale, per arrivare a contenere il suo deficit sotto il 5% del pil, come richiesto dal Fmi. Ma Forbes porta all'attenzione degli americani e dell'amministrazione di Washington un messaggio provocatorio: «Immaginate», riporta l'articolo, «se gli Usa dovessero sottostare al mandato del Fmi. Non sarebbe possibile alcuno stimolo economico per sostenere l'occupazione. Non ci sarebbe nessun salvataggio delle istituzioni finanziarie per prevenire il collasso dell'economia. Se le nazioni ricche si sottraggono alle politiche del Fmi, perché le nazioni povere dovrebbero seguirle»? Questo è forse l'argomento centrale per favorire nell'immediato futuro un cambiamento vero e profondo nella struttura, nell'orientamento e nella politica del Fondo nei confronti dei paesi poveri e di quelli emergenti. Infatti gli Stati Uniti, con un pil di 14.200 miliardi di dollari, avranno nel 2009 un deficit di bilancio di quasi due mila miliardi. Nel 2008 avevano un deficit commerciale di circa 2 miliardi di dollari al giorno. Contano un debito pubblico di 12.800 miliardi di dollari e un debito privato che, prima dell'esplosione della grande crisi, ammontava a 14.000 miliardi. Il recente «Documento di programmazione economico-finaziaria relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2010-2013» presentato recentemente dal nostro governo e pubblicato negli atti parlamentari del senato riporta un dato impressionante e cioè che gli aiuti complessivi dello stato americano al suo sistema finanziario in crisi sono stati pari all'81% del pil e in cifra assolute a 11.550 miliardi di dollari! Si tratta di somme enormi, per cui se fosse stato chiesto il parere del Fmi, anche gli Usa sarebbero stati sottoposti a delle condizioni restrittive e vessatorie, come ancor accade per i paesi in via di sviluppo. Le riflessioni riportate da Forbes meritano un seguito. Si dovrebbe capire che, se la strategia di uscita dalla crisi sta nel rilancio dell'economia reale, allora lo sviluppo produttivo dei paesi emergenti, a cominciare dall'Africa fino ai paesi del Bric, potrebbe essere oggi l'equivalente di quello che il New Deal fu per il superamento della Grande Depressione del '29. Per fare questo non si può continuare ad avere il vecchio Fmi e la vecchia politica di «aggiustamenti strutturali».

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