PCI E PSI NEGLI ANNI DI CRAXI E BERLINGUER di Simona Colarizzi da : Le nuove ragioni del socialismo - giugno 2004
31 agosto 2004
Dal recente e ampio lavoro - quattro volumi di saggi (1) - sulla storia dell’Italia repubblicana negli anni Settanta, emerge la convinzione condivisa di una crisi del sistema politico alla quale i partiti non riescono a dare soluzioni persuasive per arrestarne un declino che si fa via via più precipitoso negli Ottanta fino a portare al crollo della prima Repubblica nella XI Legislatura 1992-1994. Sulle cause di questa crisi le interpretazioni sono diverse, anche se tutte concordano nel sottolineare il logoramento che in trent’anni ha subito l’intero edificio istituzionale, fondato all’indomani della seconda guerra mondiale per rispondere alle esigenze di un paese radicalmente diverso da quello sul quale si misurano le forze politiche nel decennio dei Settanta. La necessità di rinnovare strumenti, modi e qualità della rappresentanza e del governo non è del resto percepita solo in Italia, ma in tutta l’Europa continentale dove, in tempi e modi solo in parte non coincidenti, il ceto politico attiva meccanismi di semplificazione dei sistemi che fanno perno sull’alternanza maggioranza-opposizione, a garanzia di un esercizio più compiuto e sano della democrazia. All’inizio degli anni Sessanta, contemporaneamente a quanto avviene in Germania, anche in Italia si procede ad un allargamento degli esecutivi con la cooptazione dei socialisti per realizzare un equilibrio politico capace di meglio rappresentare istanze e bisogni della nuova società del boom. Nel caso tedesco, però, la grande coalizione cattolici-socialisti prelude a un ricambio tra schieramenti contrapposti che, da quel momento in poi, si alternano alla guida degli esecutivi. Nel caso italiano, invece, il processo si blocca alla fase iniziale - il centrosinistra - e, nel tentativo di rimetterlo in moto - perché diventa sempre più indilazionabile rimodellare il sistema dopo la tempesta del 1968 - Dc e Pci si accordano, a metà dei Settanta, sulla formula di una solidarietà nazionale che dell’alternanza è la negazione (2). Tanto più che queste coalizioni allargate a tutti i partiti dell’’arco costituzionale’ hanno vita breve e, una volta esaurite, il quadro sistemico appare più debole e immobile di prima. L’incomprensione dei processi di mutamento in atto nella società italiana, implicita in questo rifiuto dell’alternativa tra schieramenti contrapposti, va fatta risalire alla diffidenza, per non dire all’avversione, verso la modernità largamente presente ai vertici del Pci e particolarmente evidente in Berlinguer, per carattere, per valori e modelli di comportamento lontanissimo dal libertarismo festoso, trasgressivo e dissacrante della generazione del boom, ormai omologata ai consumi e ai costumi dell’Occidente avanzato. Probabilmente, proprio le modalità in cui si manifestano l’insofferenza e la protesta della piazza giovanile, ma anche i fermenti sindacali - in atto per altro fin dal 1962 - costituiscono un alibi anche inconscio per evitare di riflettere adeguatamente sulla effettiva portata di fenomeni profondi che interessano l’intero corpo sociale del paese investito da cambiamenti sempre più accelerati. Si stenta a capire, al di là delle manifestazioni più esteriori, quale sia il vero volto degli italiani e, tanto più, non si è in grado di leggere i segnali del successivo passaggio alla società “postindustriale” che già emergono negli anni Settanta, solo in apparente continuità con i Sessanta. Alla generalizzata domanda di nuovo Berlinguer risponde cercando di rafforzare il vecchio edificio, attraverso un’operazione di mutuo soccorso tra le forze portanti del sistema, tutte in evidente affanno di fronte alla crisi di consenso che investe il mondo politico. Paradossalmente, il Pci, il meno colpito dalla contestazione antipartitocratica, in quanto da sempre tenuto fuori dall’area del governo, è quello che più si adopera per il grande accordo tra i partiti. Perché non si può certo sostenere che siano motivazioni contingenti - emergenza, ordine pubblico ed economia - a portare a questa scelta, anche se terrorismo e crisi economica la rafforzano e offrono poi l’occasione per piegare le tante resistenze interne ed esterne alla Dc dopo le votazioni del 1976. Il disegno di una collaborazione generale senza discriminazioni tra le “grandi forze popolari” che si ispirano alle idee comuniste, alle ideologie socialiste e alle idee e ai valori cattolici, risale infatti alla primavera del 1972 e viene lanciato nell’imminenza delle elezioni politiche, in una situazione di forti tensioni, non ancora pero così acute quali si manifesteranno successivamente con la comparsa sulla scena delle Brigate Rosse e con la recessione innescata dal caro petrolio (3). Si tratta dunque di una strategia di lungo respiro la cui origine va ricercata nella ventata movimentista della V Legislatura e, forse, ancora più indietro quando si comincia a palesare il fallimento del disegno di Nenni, illuso di fare del centrosinistra il trampolino per rilanciare il ruolo del Psi entro un sistema tripolare in cui socialisti e laici sostituissero la Dc come perno centrale delle future aggregazioni. Lo dimostra il coinvolgimento sotterraneo dei comunisti nella maggioranza, diventato sempre più esplicito, se si considera che il Pci vota in Parlamento il 70% delle leggi concordate dai governi quadripartiti Dc, Psi, Psdi e Pri. Del resto dopo il 1972, la seconda tappa di questo percorso strategico sta in una messa a punto della cornice ideale in cui Berlinguer iscrive la proposta del grande accordo tra cattolici e comunisti. La teorizzazione del compromesso storico nel 1973 e 1974, proprio per l’influenza indiretta che su di essa hanno gli eventi cileni, segnala quanto sia carente l’analisi comunista sui mutamenti in corso nella società italiana, in larga misura omologata dal segretario del Pci a quella di un paese sudamericano. Del resto è proprio sul terreno della “democrazia debole” che si viene saldando l’intesa MoroBerlinguer, entrambi convinti della necessità di mantenere sotto la stretta tutela dei partiti una cittadinanza immatura a un esercizio pieno della vita democratica e così conflittuale da mettere in pericolo gli assetti istituzionali. L’ossessiva ripetizione del tema “senza i partiti non c’è democrazia” che per tutti gli anni Settanta diventa la trincea sulla quale si attestano le forze politiche consapevoli della perdita di consenso, non è solo un mero moto di difesa di se stessi e del proprio ruolo. Naturalmente questo elemento pesa, ma incide relativamente poco sul Pci che proprio in questi anni riscuote una valanga di nuovi voti. E’ altro l’intento di Berlinguer che punta a rinnovare il patto sui fondamenti siglato nel 1945-1947 per risolvere la crisi di crescita dell’oggi, perché i fermenti in atto sono appunto letti come lo sfogo incontrollato di un corpo sociale, investito da una tempesta adolescenziale, che deve essere sorvegliato e guidato dalle due grandi forze politiche, cattoliche e comuniste, verso una piena maturità. La sofferta partecipazione del Pci alla battaglia sul divorzio nel 1974 conferma sia la scarsa capacità di leggere l’evoluzione civile degli italiani, sia il timore di aprire una falla incolmabile nella strategia del compromesso storico. Vale anche per la polemica tra Berlinguer e Riccardo Lombardi sul 51%, la soglia che, a giudizio del leader socialista, consente di realizzare l’alternanza tra schieramenti contrapposti, dopo la vittoria referendaria e il successo delle sinistre alle elezioni amministrative del 1975. A impedire che questi due evidenti successi per la sinistra costringano a una riflessione diversa sulla qualità della domanda di rinnovamento politico e istituzionale che sale da un paese, sicuramente più avanzato di quanto non ritenga il segretario del Pci, contribuisce il deterioramento progressivo della situazione interna. Ma appunto si tratta di un alibi, senza dubbio forte, considerata la drammaticità del momento; un alibi però che serve a confermare l’analisi di un paese in preda alla sovversione, malato di infantilismo rivoluzionario e inquinato dal massimalismo di sempre. Soprattutto è un alibi che consente al Pci di non fare i conti con se stesso, riproponendo negli anni Settanta la visione togliattiana di una partecipazione dei comunisti come momento salvifico per la democrazia. La “diversità” dei comunisti, rivendicata con forza proprio in questo periodo e riproposta poi puntigliosamente negli anni Ottanta, è considerata più che sufficiente per marcare la novità di questo passaggio risolutivo per le sorti della nazione. Il logoramento delle coalizioni governative, l’ondata di discredito che pesa sul partito di maggioranza relativa e, in parte, sui suoi alleati, consolidano la percezione di questa alterità morale del Pci - il “partito degli onesti” - pronto a spendersi per ridare linfa alla vita democratica. Quale sia la sostanza politica di questa alterità resta però indeterminata, anche se Macaluso coglie giustamente la ricaduta positiva in termini di” socialdemocratizzazione” del Pci, implicita nel coinvolgimento dei comunisti a livello governativo - 1976-1978 (4). Tuttavia non è privo di significato che questo processo sia ufficialmente contraddetto dal discorso fumoso sulla “terza via” che come unico punto fermo e riconoscibile ha proprio la negazione della “via socialdemocratica”. Per di più agli esecutivi guidati da Andreotti manca ogni profilo strategico. La presenza del Pci nella maggioranza è legata all’emergenza: per la Dc si giustifica solo con il contributo essenziale che dai comunisti ci si aspetta per votare le leggi eccezionali e ricondurre i sindacati alla ragione; per Berlinguer è la prova che il vecchio sistema per sopravvivere è disposto persino a legittimare i comunisti, così come sono. E tanto basta. Non stupisce che la solidarietà nazionale si esaurisca rapidamente. Un terremoto di questa portata negli equilibri politici del sistema avrebbe richiesto ben altro dibattito per delineare uno scenario di riforme; uno sforzo di elaborazione politica e strategica pari per lo meno a quella che aveva accompagnato l’ingresso del Psi nei governi di centrosinistra. Ma aprire un confronto serio sul riformismo significava anche mettere in discussione la propria identità – come era avvenuto per i socialisti negli anni Cinquanta e Sessanta; fare cioè una definitiva scelta di campo a favore del modello socialdemocratico, col rischio di lacerare il partito. Per di più, Berlinguer non vede alcuna necessità di andare al di là di quel percorso di revisione che lui stesso aveva contribuito non poco ad accelerare. Certamente non gli sfuggono le contraddizioni e i nodi irrisolti dell’essere comunista; sarebbe però una forzatura attribuirgli un sentire diverso da quello che si esprime nelle sue ripetute dichiarazioni di totale sfiducia nelle socialdemocrazie europee, incapaci di avviare ..la rivoluzione in Occidente... sulla base del marxismo e del leninismo, letti e interpretati criticamente (5). Al paesi socialdemocratici vengono contrapposti i paesi socialisti dove esiste un clima morale superiore, mentre le società capitaliste sono sempre più colpite da un decadimento di ideali e di valori etici e da processi sempre più ampi di corruzione e di disgregazione (6). La “fuoruscita della società dall’assetto capitalistico (7), obiettivo primario dell’attività e delle lotte del Pci, resta il faro di orientamento di Berlinguer che, come osserva Barbagallo, intendeva restare un rivoluzionario come era possibile nel mutamento dei tempi e delle diverse realtà del mondo (8). Alla luce di queste considerazioni, mi pare di poter condividere le riserve di Paolo Franchi alla tesi di Macaluso che individua una rottura tra la strategia berlingueriana degli anni Settanta, aperta a una possibile ulteriore evoluzione del Pci, e quella degli anni Ottanta quando l’arroccarsi di Berlinguer sulla parola d’ordine dell’alternativa democratica diventa un ostacolo insuperabile anche per il progetto della grande riforma proposto da Craxi (9). La continuità è evidente; semmai negli anni Ottanta si fanno solo più espliciti i ritardi nella comprensione del mutamento sociale e culturale del paese e il rifiuto di soluzioni socialdemocratiche che finiscono con esasperare il tema della “diversità comunista”, diventata una sorta di formula rituale a coprire un vuoto politico incolmabile. In questo senso è vero - come osserva Macaluso - che nel periodo della solidarietà nazionale Berlinguer evita l’isolamento del Pci; ma è significativo che, una volta chiusa quella stagione, l’unica carta politica giocata dai comunisti sia proprio la riproposizione minacciosa e sterile del compromesso storico in funzione antisocialista e in evidente contraddizione con la linea ufficiale alternativista. Perduta la sponda democristiana, svanito lo scenario togliattiano, per riempire di contenuti la formula dell’alternativa democratica il Pci non può più sfuggire al confronto con il Psi sul ruolo delle sinistre nelle società contemporanee; tanto più che in ogni paese europeo, Italia compresa, i socialisti stanno affrontando questo tema attraverso un rinnovamento profondo delle proprie identità. Vale per Mitterand, per Gonzales, per Papandreou e per Craxi. Il conflitto esploso tra socialisti e comunisti, di una durezza senza precedenti nella storia della sinistra italiana, indica invece la non volontà di percorrere la strada del dialogo. Incalzato e pressato da Craxi che chiede al Pci una chiara opzione socialdemocratica, Berlinguer, nel 1981, risponde rivendicando orgogliosamente la natura “diversa” del comunismo italiano, a rischio persino di esporsi alle critiche di una parte del partito. Ci sono compagni - lamenta Tatò, uno degli esponenti comunisti più vicini al segretario - che accusano Berlinguer sostanzialmente di bordighismo, cioè di chiusura settaria e di superbia moralistica”; mentre i suoi passi seguono la via tracciata da Gramsci e da Togliatti contro l’opportunismo di destra e di sinistra (10). La sfida che il Psi di Craxi lancia al partito comunista per il rinnovamento complessivo della sinistra, premessa al rinnovamento del sistema politico e all’avvio di un’alternanza tra schieramenti contrapposti, è letta solo nei termini di un pericoloso processo teso ad affossare l’originalità positiva del “caso italiano”, ad assimilare l’Italia alle altre “realtà dell’Europa occidentale”, cassando, estirpando e scolorendo le tre “peculiarità” politiche, ideali e storiche del nostro paese: la peculiarità dei comunisti italiani, la peculiarità dei socialisti italiani, la peculiarità dei cattolici italiani (11). E’ sorprendente che negli anni Ottanta, di fronte al declino ormai inarrestabile del sistema, si voglia difendere proprio quanto ne ha determinato il blocco e il decadimento. Note: (1) - G. De Rosa e G. Monina (a cura di), “L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta”, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. (2) - O, come si esprime Craveri, sostanziale eutanasia dei principi basilari della democrazia rappresentativa. P. Craveri, Partiti e democrazia speciale, in Sistema politico e istituzioni, a cura di G. De Rosa e di G. Monina, vol.IV, L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Cit., pag. 49. (3) - E’ significativo che per il lancio di questa strategia venga scelta oltre alla tradizionale platea congressuale anche quella mediatica, capace di raggiungere milioni e milioni di italiani. Nella conferenza stampa trasmessa dalla Tv Berlinguer dice: “Per realizzare una politica di riforme sociali e di ordine democratico, per dare autorevolezza ai governi e allo Stato, è necessario allargare la base del consenso e della partecipazione popolari. E ciò è possibile in Italia solo attraverso l’incontro, la collaborazione delle grandi forze popolari, senza discriminazioni”. RAI, Videoteca centrale, Conferenza stampa del Pci, 21 aprile 1972. (4) - Scrive Macaluso: il processo di socialdemocratizzazione” del Pci, di cui allora si parlava, non sarebbe stato una sciagura da evitare, ma un percorso reale, legato ad una esperienza concreta di governo. E. Macaluso, 50 anni nel Pci, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p.240. (5) - E. Berlinguer, Le vie dell’Occidente, in “Rinascita”, 4 novembre 1977, cit. in F. Barbagallo, Il Pci dal sequestro Moro alla morte di Berlinguer, in “Sistema politico e istituzioni”, Cit. p.79. (6) - Relazione di Enrico Berlinguer al XIV Congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma 1975, cit. in “Introduzione” di F. Barbagallo a Caro Berlinguer Note e appunti riserr’ati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer 1969-1984, Einaudi, Torino 2003. (7) - che, per dirla con le parole del vecchio Engela, ormai veramente “merita di morire”~. Intervista a Enrico Berlinguer in “Critica Marxista”, marzo-aprile 1981, cit. in P. Craveri, L’ultimo Berlinguer e la “questione socialista”, in “Ventunesimo Secolo”, a. 1° marzo 2002. (89 - E conclude: ‘Berlinguer non voleva morire socialdemocratico. Introduzione di F.Barbagallo in Caro Berlinguer Cit., pag.XXV. (9) - La continuità tra i due momenti rivendicata da Franchi sta nel “rifiuto forte, radicatissimo, insopprimibile dell’idea stessa che l’unico esito positivo possibile della lunga vicenda del Pci potesse e dovesse essere, per dirla rapidamente, socialdemocratico~. Lettera di Paolo Franchi, in E. Macaluso, 50 anni nel Pci, Cit., pag.233. (10) – Caro Berlinguer, cit. pag. 195 (11) – ivi pag. 181
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