PAKISTAN - Elezioni rimandate, chi guadagna terreno è la jihad - il Riformista, 3 gennaio 2008
17 gennaio 2008
Le milizie estendono il controllo sul territorio. Mentre si inasprisce lo scontro tra il presidente Musharraf e le forze di opposizione dei Bhutto e di Nawaz Sharif
È tornata una parvenza di normalità nelle città pakistane, scosse nei giorni scorsi dal lutto rabbioso e violento per la morte di Benazir Bhutto. Ma il futuro non promette nulla di buono. Si allunga il percorso che conduce alle elezioni politiche dopo la decisione, ufficializzata ieri dalla commissione elettorale, di rimandare al 18 febbraio l'appuntamento alle urne previsto per l'otto gennaio. Rinvio dovuto alle distruzioni di alcuni uffici elettorali e allo stato di instabilità nel quale ancora versa la provincia di Sindh, feudo dei Bhutto, secondo la versione ufficiale avvallata dallo stesso presidente Musharraf. Rinvio imposto dal presidente nel disperato tentativo di evitare il trionfo elettorale dell'opposizione, trascinata dall'ondata di indignazione per la morte della Bhutto, secondo il Partito del Popolo Pakistano e la Lega Musulmana di Nawaz Sharif che nei prossimi giorni potrebbero far scendere nuovamente in strada i militanti per protestare contro le manipolazioni operate da Musharraf, già accusato preventivamente di voler truccare il voto.
Fino a un paio di mesi fa le elezioni erano attese dai più ottimisti, americani in primis, come un evento salvifico, l'ultima carta da giocare per dare coesione e stabilità a un potere politico-militare alle corde, vacillante di fronte a una crisi di legittimità che lo rendeva incapace di rispondere ai colpi del terrorismo jihadista. La «transizione alla democrazia», grazie al ventilato accordo tra Musharraf e Benazir Bhutto, pronta a gettare sul piatto della bilancia il peso del più grande partito pakistano, appariva sulla carta la ricetta migliore per garantire l'unità nazionale contro il comune nemico jihadista. Speranza che è andata progressivamente sfiorendo dopo il ritorno in patria di Benazir Bhutto e che appare ormai sepolta nel mausoleo di famiglia. Non vi sarà salvezza nelle elezioni. E qualora la tensione salisse nuovamente oltre il livello di guardia la campagna elettorale si trasformerà in una via crucis per il "paese dei puri" sconquassato da conflitti che nessuno sembra in grado di sedare. O è intenzionato a farlo.
L'unità nazionale è invocata da tutti ma non è una priorità per nessuno. Tradita innanzitutto da Musharraf quando ha dichiarato lo stato d'emergenza per garantire la propria sopravvivenza politica, più che la stabilità del paese. E disposto a tutto pur di conservare al potere il Pml-Q, suo partito di riferimento, perno delle fragili coalizioni che governano il Pakistan dal 2002. La stessa definizione del terrore come nemico comune è esercizio perlomeno arduo. Le vaste zone d'ombra che da sempre in Pakistan evidenziano più che nascondere i rapporti tra classe politica, servizi segreti e jihadisti, danno credibilità e peso politico alle infamanti accuse che oggi inchiodano il presidente sul banco degli imputati. E che neanche l'apertura di ieri, con la richiesta a Scotland Yard di partecipare all'inchiesta sulla morte della Bhutto, pare in grado di scagionare.
Accuse che i partiti dell'opposizione usano come corpi contundenti per aprirsi la strada verso il successo elettorale. «Andate a votare e votate in massa contro il partito degli assassini» ha chiesto al popolo pakistano Ali Zardani, vedovo della Bhutto. E lo stesso Nawaz Sharif pare intenzionato a capitalizzare nelle urne l'omicidio della storica nemica. Accusata fino a poco fa di essere in combutta con Musharraf, pianta oggi come un prezioso partner nella comune lotta democratica contro il regime. Ed è nel nome del suo martirio, dopo essersi rimangiato la promessa di boicottare le elezioni, che Sharif invoca ora un governo d'unità nazionale con l'obiettivo di scalzare dal potere Musharraf, considerato responsabile di tutti i mali del paese. Una dinamica conflittuale che rischia di avere conseguenze devastanti. Perché in gioco non vi è solo il destino del regime musharrafiano ma la stessa sopravvivenza del paese.
Anche qualora si dovesse andare a votare in condizioni accettabili è probabile che l'ipotesi di un'alternativa democratica in grado di ridare stabilità al paese rimanga un miraggio. Perché chi governerà, a meno di interventi dell'esercito volti a destituire Musharraf, sarà costretto a coabitare con il presidente. Una soluzione che oltre a frammentare il neonato ed eterogeneo fronte dell'opposizione rischia di spaccare lo stesso Ppp. Il partito fin qui è riuscito a colmare il vuoto creato dalla scomparsa della Bhutto, affidandosi al volto pulito del figlio Bilawal. Una soluzione che garantisce continuità, alleviando lo smarrimento dei militanti, ma che conferma il principio dinastico-feudale che governa il principale partito del Pakistan. Un paese che, per sperare in un'alternativa laica, democratica e civile, è condannato ad affidarsi al potere clanico dei Bhutto. Contraddizione che suscita non pochi malumori nella parte più liberal del paese, dentro e fuori dal partito, tanto più che il clan oggi è rappresentato prima ancora che dal figlio, dal discusso vedovo di Benazir, ribattezzato "mister 10%" per le tante mazzette vere o presunte raccolte quando il clan guidava il paese. Ed è un partito che ha fin qui nascosto, prima grazie alla leadership carismatica della Bhutto, poi con il lutto per il suo martirio, le divisioni che suscitano l'ipotesi di una convivenza con il presidente. Che qualora ci fosse rischia di risolversi in una estenuante prova di forza destinata a fiaccare il potere pakistano, fino ad annullarne le capacità di reazione. Aprendo così nuovi spazi di manovra ai jihadisti che l'interminabile crisi pakistana ha reso più audaci.
Da mesi, i miliziani annidati nella periferia tribale del paese, storicamente autonoma, sono scesi dalle montagne, dove l'ambigua strategia di Musharraf aveva sperato di confinarli, estendendo il loro controllo su pezzi di territorio come la valle di Swat, luogo prediletto per le vacanze della borghesia pakistana, che solo faticosamente l'esercito nazionale è riuscito per il momento a riconquistare. E da mesi portano il terrore nelle grandi città pakistane puntando a colpire il cuore dell'establishment politico-militare. Contando sull'effetto destabilizzante che l'agonia della classe politica nazionale, a prescindere dalle effettive collusioni di spezzoni dello Stato, non può che amplificare.
Il Pakistan potrebbe andare incontro alla propria nemesi storica. Dopo aver coltivato e nutrito le milizie jihadiste per perseguire i propri obiettivi strategici, in Afghanistan come nel Kashmir, rischia ora di venir divorato dalla talebanizzazione strisciante del paese. Dopo i ripetuti fallimenti dei regimi civili, inclusi quelli targati Bhutto e Sharif, e malgrado il fallimento dell'esercito nel suo compito storico di formare una nazione e assicurarne la stabilità, più che al processo democratico è ancora agli uomini in divisa, legittimati o meno dalla cooptazione delle forze di opposizione, che il paese potrebbe essere costretto ad aggrapparsi. Per tentare di evitare lo stato di instabilità permanente che rischia di trasformare il Pakistan in un failed state , maturo per la definitiva disgregazione.