ORA LE DUE SFIDE SI CHIAMANO QUESTIONE SOCIALE E ORGANIZZAZIONE - di Alberto Grancini, da il Riformista del 10 marzo 2007
19 marzo 2007
Dopo Bertinoro va costruita la prospettiva di governo
A Peppino Caldarola, indubbiamente. A lui deve essere riconosciuto l’Oscar per la battuta migliore quando, sconfessando le illusioni del Partito democratico, ha scritto sul Riformista come nella più remota parte dell’anima di ogni comunista alberghi un Ferdinando Adornato. E in ogni socialista, verrebbe da aggiungere, sta un Giuliano Amato, con la sua inclinazione alla corsa in proprio e all’autosufficienza intellettuale. Diciamo anche tentazione dell’opportunismo e del potere e, soprattutto, velleità irrefrenabile per cui alla causa della (ri)definizione della casa per un socialismo attuale servano di più le matite degli architetti che le braccia dei muratori.
Sarebbe tuttavia ingeneroso dire che Bertinoro, oltre all’amarcord che non viene mai meno in occasioni simili (ma deve essere necessariamente un male a fronte di partiti che adoperano la rimozione di memorie come strumento di elaborazione politica?), sia stato solo questo. Bertinoro è stata una riunione, partecipata e interessante, viva e vivace. Il punto non è quanto corrisposte o disattese siano state le aspettative dei partecipanti, o i facili giudizi di chi non c’è stato, ma quanto concreti e in che modo siano sviluppabili gli spunti che da essa è possibile trarre. Spunti che stanno nella risposta ad una domanda chiara e semplice: qual è e come definire lo spazio del socialismo laico e liberale in Italia?
Due indizi parrebbero già confermati: tale spazio si trova a sinistra, sicuramente alternativo alla sinistra radicale ma non sovrapposto al Partito democratico. Di qui il cammino non può non proseguire che con la consapevolezza piena dei due rischi da scongiurare e delle due sfide da affrontare. Il primo rischio è dato dalla Beautiful socialista, l’interminabile telenovela dei professionisti della diaspora, dei custodi dell’ortodossia Psi, dei profeti della Questione delle questioni della politica italiana. È la vicenda di tanti compagni che hanno sbagliato sapendo di sbagliare rendendo l’eredità del vecchio partito qualcosa da pagine di costume e non di politica, di chi ha preferito fasciare legami vecchi per non doverne costruire di nuovi, di chi ha mischiato il loglio dei propri risentimenti con il grano dei sentimenti sinceri di tanti.
Intendiamoci, la transizione che ha affrontato la tradizione socialista in questi anni è qualcosa di serio e drammatico per la storia personale di molti. Anche tragica, che non ha tardato a tradursi in farsa. Qualcosa, tuttavia, cui si avrebbe dovuto fare fronte più con la pratica che non con la predica. Specialmente quando la predica è arrivata, e arriva, da figli illustri ben comodamente accasati.
Il secondo rischio inerisce il rapporto con il costituendo Partito democratico. Non è sbagliato dire che tanta gente è stata portata a Bertinoro da un malcelato senso di ostilità/diffidenza/disinteresse verso la costituzione del Pd (i riformisti milanesi stanno ancora aspettando una sconfessione da parte degli esponenti dell’Ulivo dell’illuminato e decisivo parere negativo dato da Nando Dalla Chiesa sulla candidatura a sindaco di Milano di Umberto Veronesi). Sarebbe sbagliato però ritenere che solo su questo presupposto si possa davvero definire una prospettiva e comporre un progetto politico-associativo. Il più elementare buon senso ci suggerisce che alle cause collettive i “delusi da” sono tanto dannosi quanto gli “illusi di”. Sarebbe stupido, infine, pensare a uno spazio liberalsocialista conquistato dietro guerriglia all’area del Partito democratico.
Lanfranco Turci l’ha detto bene: competizione e non contrapposizione con il Pd. Bisognerebbe forse aggiungere condivisione, di scelte e di responsabilità, in nome di una comune vocazione di governo.
Il segno della concorrenza al Partito democratico porta alla prima vera sfida che Bertinoro lancia ai liberalsocialisti, che non può non essere che nel campo della rappresentanza. La domanda è semplice quanto spontanea: di quale questione sociale dovrebbe mai farsi carico una moderna forza laica, liberale e socialista? La logica secondo cui la via della contrapposizione di classi non sia più appropriata per una società frenetica e frazionata come l’attuale è bene intesa e che occorra occuparsi dei non garantiti e degli outsiders altrettanto. Ma se non possiamo avere i nomi quantomeno cerchiamo di avere una descrizione il più possibile attendibile di queste categorie per arrivare a definire un modo credibile per intrecciare un’interlocuzione politica con questi soggetti. Facendo ben attenzione a un aspetto, per altro: agli outsiders la società d’oggi rende la prospettiva della propria trasformazione in insiders, ancorché faticosa, più immediata e conveniente che quella della condivisione di un percorso collettivo di emancipazione. Non è un caso che l’esperimento della Rosa nel pugno abbia dato lodevoli risultati nell’offerta di iniziative nella sfera dei diritti civili più che in quelli sociali perché proprio in quella sfera le proposte erano più tarate e gli interlocutori capaci di una maggiore coscienza di corpo.
Infine, la seconda ed ultima sfida che Bertinoro consegna, nell’ambito delle forme e della organizzazione della politica. È sicuramente convincente la suggestione di chi guarda ai nuovi luoghi della politica a misura di rete e non di castello. A patto che i gestori della rete siano realmente ed esclusivamente interessati più che alla compattezza del proprio singolo nodo alla capacità di trasmissione della stessa e che i flussi prodotti abbiano una direzione e una prospettiva chiara e precisa. «No all’ennesimo partitino» è stato ripetuto da molti e più volte, ma non è nel numero dei molti o delle ripetizioni che è possibile trovare una soluzione. Forse occorrerebbe dire «no a un partito tradizionale» laddove l’attributo tradizionale sta ad indicare quella vocazione ad assumere e riassumere nell’organizzazione di partito ogni aspetto e fase del confronto-elaborazione-proposizione politica. Magari occorrerebbe aggiungere «no a partiti chiusi e piramidali», a fronte di una tendenza molto da Seconda Repubblica in cui, ai vertici dei movimenti, a ogni livello, la figura degli eletti garantiti a vita è stata miniata in quella dei candidati trombati a vita. C’è un cuore di partito da gettare oltre l’ostacolo e l’augurio è che l’imminente congresso Sdi del prossimo aprile sia proprio su questi temi convincente.
Detto ciò, tuttavia, bisogna anche uscire, con molta onestà, da quella palude vasta di un sistema di associazionismo parapartitico nato legittimamente in contrapposizione ai difetti dei partiti tradizionali, cresciuto nel mito della propria terzietà e sul pero della propria autoreferenzialità ma ad oggi sostanzialmente ancora incapace di influire sull’evoluzione di nuove forme virtuose di organizzazione della politica. Tutti, insomma, in questa partita, devono sporcarsi le mani.
Assessore provinciale e presidente della assemblea provinciale Sdi Milano