NOI SOCIALISTI FUORI DAL PARLAMENTO SENZA PERDERE LA TESTA NEL RADICALISMO, di Roberto Biscardini da Critica Sociale, numero 8/9 2008
22 gennaio 2009
Con un consenso elettorale tutto da ricostruire, voler essere socialisti oggi significa guardare ai malesseri sociali, alle paure e ai più grandi problemi del nostro paese, come a quelli del mondo, con la cultura tradizionale del socialismo, che è riformismo e rottura. Significa affrontare la sfida di una fase politica che non è favorevole né ai partiti, né tanto meno a quelli storici, né soprattutto a quelli di ispirazione socialista. Con la forza di chi si lascia alle spalle le “damnatio memoriae”, quella che associa la parola socialista alla storia criminale (mai fatta conoscere a sufficienza) del “socialismo reale” nell’esperienza totalitaria del regime sovietico, quella nostrana del “frontismo” e quella più recente di “tangentopoli”. Ma sapere di avere solide tradizioni a cui fare riferimento e sapere di disporre di un complesso di valori di giustizia e di libertà che appartengono alla nostra storia, non basta e non consente di fermarsi sulla soglia della memoria. Occorre guardare avanti, sperimentando il nuovo, avendo consapevolezza di rispondere per il presente e quindi per il futuro. Senza relitti culturali e vecchie litanie. Facendo esattamente ciò che fecero i nostri maestri, quelli che misero sul binario del riformismo e della cultura di governo la storia migliore del socialismo italiano, attualizzando naturalmente le politiche. Si può farlo anche in pochi, anche se le nostre organizzazioni appaiono deboli, anche se la montagna da scalare contro l’ignoranza, il populismo e la demagogia sembrano soverchiare tutto, caratterizzando ormai quasi alla pari sia la cosiddetta destra che la cosiddetta sinistra. “Per chi crede al trapasso taumaturgico, l'azione è di un momento… Ma se l'azione si spiega nei decenni, se la rivoluzione non è il fatto di un istante, ma il frutto di una lenta e faticosa conquista, allora, compagno Serrati, chi si sottomettesse sistematicamente e rinunziasse per un tempo indefinito alla parola ed al pensiero, evidentemente rinnegherebbe se stesso.” Questa frase di Turati vale anche per noi. Ma ce la faranno i socialisti italiani di oggi a ripartire da qui? Ce la faranno ad avere una tenuta riformista con una visione rivoluzionaria di lungo termine? Ad evitare le sirene di qualche inutile quanto mortale alleanza? Ce la faranno a porsi con distacco, almeno con la coscienza, dall’attuale quadro politico, quello che esclude ed è nemico della cultura di governo? Si può fare, a condizione che il vecchio insegnamento sia assunto con consapevolezza e che la dimensione enorme della sfida sia affrontata tanto con realismo quanto con coraggio. Tessere la tela ogni giorno, affrontare la realtà con gradualismo, costruire alleanze anche fuori dal Parlamento, utilizzare tutti gli strumenti a disposizione, utilizzare le istituzioni nelle quali ancora si può contare per continuare a fare politica. Agire, anche se fuori dal Parlamento, non come forza contestataria, ma come una forza che, rivendicando ed adoperandosi per realizzare le riforme minime necessarie per cambiare la società dentro il sistema dato, lavora sempre come se si preparasse a governare, anzi come se stesse già governando. Se è vero che la cultura di governo si mette alla prova nelle condizioni migliori nell’azione di governo, è anche vero che questa cultura non viene meno quando si è all’opposizione o addirittura fuori dal Parlamento. “Riformismo è cultura di governo, è pragmatismo in luogo di ideologismo, è riconoscimento dei meriti accanto al rifiuto dell'ingiustizia, è soprattutto senso di responsabilità istituzionale quando si è alla guida del Paese come quando si è all’opposizione. Il grande problema dei riformisti è in realtà uno solo: credere nel riformismo.” E’ pragmatismo anche quando, senza moderazione, occorre manifestare con durezza, pur da una posizione minoritaria, la necessità di rompere equilibri, assetti e interessi consolidati. Per essere socialisti, riformisti e riformatori, bisogna quindi credere nella capacità di svolgere il proprio ruolo a livelli diversi. Ricercando nuovi spazi di libertà e giustizia dalla e nella lotta sociale, riformando le istituzioni e usandole come strumenti dell’azione politica, innovando nella legislazione laddove occorre, creando nuove istituzioni o cambiando quelle esistenti, se il sistema e il funzionamento delle Stato non rispondono più alle esigenze della società. Governare non è un fine, ma un mezzo, e le nostre leve dovrebbero essere insieme tradizione culturale, spinta collettiva e partecipazione. Un riformismo solo parlamentare, senza il sostengo dell’iniziativa collettiva e senza un rapporto con un sindacato riformista, non può raggiungere grandi obiettivi. Quindi, anche dall’opposizione, o fuori dal Parlamento, si può lavorare per costruire riforme importanti, facendo coincidere gli interessi della propria parte con quelli generali, nazionali o internazionali. Se si opera, anche per quanto è possibile, nella logica di essere guida politica in senso lato e non solo per la propria organizzazione, arriverà il momento in cui i cittadini si identificheranno in te perché tu ti sei identificato in loro non opportunisticamente. Ti verrà riconosciuto un ruolo di guida, perchè hai lavorato per edificare riforme e cambiamento, senza l’uso della violenza, negli interessi di massa e riducendo distanze sociali. Questo modo di essere va perseguito anche oggi a tutti i livelli. A livello internazionale i rischi di esclusione, emarginazione, disuguaglianza e conflitti sociali, che si manifestano in modo sempre più forte, richiedono ai socialisti riformisti di allargare la sfera della loro azione e della loro cultura di governo. Nel nostro paese i rischi di una crisi sistemica sul versante istituzionale stanno togliendo credibilità a qualunque azione di governo e persino ai rimedi messi in campo per affrontare la crisi economica e finanziaria. Ciò richiede un intervento drastico per rompere questo ciclo della politica italiana. E’ essenziale promuovere una revisione della nostra Costituzione, senza aver paura dell’arroganza dei conservatori di destra e di sinistra che si ergono a paladini della carta costituzionale, non per difenderla ma per difendere se stessi. Riscrivere la Costituzione significa riprendere l’iniziativa socialista della “Grande riforma” degli anni ’80, quando già era evidente la crisi del sistema istituzionale e la necessità di una modernizzazione del paese. Quando i socialisti seppero cogliere la spinta civile e di libertà che già era maturata nei decenni precedenti. Bisogna avere la forza, anche se fuori dal Parlamento, di non perdere la testa, di non cadere nel radicalismo e di non scimmiottare la sinistra che invece di proporre va in piazza solo per dire no. Cultura di governo vuol dire non perdere mai il senso dello Stato, il senso di responsabilità, avendo persino attenzione a tutelare il valore e la serietà del proprio ruolo politico. Bisogna diffidare di coloro, oggi ormai praticamente tutti, che si dichiarano riformisti senza avere cultura di governo, producendo devianze, corrompendo il vero significato del riformismo, riducendolo al massimo a mero moderatismo. La cultura di governo dei socialisti riformisti impedisce di cadere nell’antipolitica e anzi spinge a combatterla. L’antipolitica che si sostanzia innanzitutto nel populismo storico della destra, oggi più raffinato di un tempo, soft. La destra, che non ha più complessi di inferiorità nei confronti della cultura dominante della sinistra storica, esibisce il suo populismo e la sua demagogia in modo compiaciuto, stando al governo come se stesse all’opposizione. L’uso spregiudicato del sondaggio, della propaganda, della semplificazione delle risposte politiche e il fare, o peggio il dire che si fa, “ciò che la gente vuole”, non sono cultura di governo. Il populismo di destra è antipolitico, localistico, nei casi peggiori xenofobo e razzista, qualche volta antieuropeo. Si presenta come una soluzione semplice per risolvere problemi complessi, individua facili capri espiatori per tutti i guai: “Roma ladrona”, le istituzioni, gli altri politici. Ma l’antipolitica ha contagiato anche la sinistra che si è trovata in Italia, e in parte anche in Europa, senza un progetto alternativo al populismo conservatore delle destre. Nel vuoto di un progetto politico, capace di dare a una società completamente cambiata risposte strutturali, della portata di quelle che seppe dare negli anni ’70 e ’80 con la realizzazione del welfare state, la sinistra si è barcamenata tra una politica radicale e una politica riformista solo a parole. In realtà autoreferenziale, autodistruttrice, conservatrice e in ritardo rispetto alle aspettative proprio dei suoi elettori tradizionali. Ridotta quando va bene alla logica della buona amministrazione, senza slancio e senza valori, ispirata a quelli falsi “della questione morale e dell’onestà”, antipartitica e un po’ plebiscitaria, a volte grezza, ma anche pauperistica perché vede la ricchezza come origine di ogni male. E non è un caso che Di Pietro, essenza del più grossolano populismo di destra, sia finito con naturalezza a rappresentare e persino a condizionare l’intera sinistra.
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