NOI SOCIALISTI di Alberto Benzoni

20 novembre 2018

NOI SOCIALISTI di Alberto Benzoni

Noi socialisti (parlo di quelli che hanno deciso nel 1993 di tenere in piedi il partito e di confluire nel centro-sinistra) abbiamo due problemi. Resi, tra l'altro, più acuti e direi esistenziali dopo il successivo fallimento della Rosa nel Pugno e della Costituente socialista. Accompagnati, anni dopo, dalla crisi che ha colpito il socialismo europeo.
Il primo riguarda il nostro rapporto con l'ambiente politico circostante o, detto più chiaramente, con gli eredi del Pci. Dove si tratta di conciliare il nostro bisogno assoluto di mantenere ferma la distanza polemica nei confronti dei nostri "carnefici" con la necessità, altrettanto assoluta, di contare sul loro appoggio per una presenza nelle istituzioni che, ormai da gran tempo, non siamo più in grado di raggiungere con le nostre forze.
Il secondo ha a che fare con i nostri rapporti con il socialismo. E cioè con una cultura, un progetto di società e un orizzonte di vita collettiva che ha segnato di sè, da 130 anni a questa parte, il nostro paese e il mondo. E dove, nel tempo presente, si tratta di affrontare e di risolvere la drammatica contraddizione tra una domanda potenziale di socialismo (in risposta agli effetti drammatici e al fallimento della cura liberista) e un'offerta del medesimo, inesistente a livello internazionale, caratterizzata da diversi livelli di credibilità all'interno dei vari stati nazionali e volutamente ritirata dal mercato politico in Italia.
Diciamo subito, a questo punto che si tratta di problemi che non è dato, non dico risolvere, ma nemmeno affrontare contemporaneamente. Insomma che interessarsi del primo comporta necessariamente mettere totalmente da parte il secondo; e viceversa.
Ne sono prova i due appuntamenti che sono alle nostre porte,
Il primo, che riguarda il nostro microcosmo, è il congresso di fine marzo del Psi. Il secondo, che riguarda il futuro del nostro continente e del socialismo, è quello delle europee della prossima primavera.
Il prossimo congresso vedrà l'ennesimo successo di Riccardo Nencini. Un fatto che alla luce degli eventi di questi ultimi anni e dei risultati elettorali può stupire e magari scandalizzare; ma che, invece, è non solo comprensibile ma logico.
Il Nostro era persuaso da tempo che il socialismo come cosa ma anche come parola fosse un relitto e una palla al piede per la formazione che era chiamato a dirigere; sino ad immedesimarsi senza se e senza ma con qualsiasi proposta di "revisione" esistente sul mercato. Quello che gli mancava, almeno sino al 2013/14 era una sponda nel Pd; ma con l'arrivo di Renzi e poi di Calenda il problema è stato risolto; sino a consentirgli di continuare a polemizzare con un immaginario, fruendo dei vantaggi della collaborazione con il Pd reale, rottamatore e, quasi sicuramente, vincente.
Punto di riferimento di questo nuova costellazione, Macron. Uno che, rinunciando alla sua aspirazione di costituire intorno a sé un raggruppamento europeista ecumenico, ha deciso di iscrivere il proprio movimento al gruppo liberale.
Il suggello finale, se mai fosse stato necessario, di un fatto che da tempo avrebbe dovuto essere evidente da tempo: del fatto che l'operazione Nencini e il suo successo con il socialismo non hanno proprio nulla a che fare.
Questo successo è però in buona parte dovuto alla debolezza dei suoi oppositori; in chiaro, alla nostra.
E non parlo delle nostre miserevoli vicende; del dentro/fuori/dentro intorno ad un partito che non si poteva conquistare ma che allora si sarebbe dovuto ignorare. O dell'aspirazione più individuale che collettiva a rapportarsi con questo o con quello, salvo ad esserne sostanzialmente ignorati. Sino a trarne la paradossale conseguenza che il rifiuto degli altri a prenderci in considerazione era la prova della nostra superiorità. Tristi vicende in cui, lo voglio dire una volta per tutte a scanso di equivoci, nessuno ha il diritto di scagliare la prima pietra.
Dico questo perché penso che al di là delle nostre responsabilità, individuali o di gruppo, i cultori del socialismo e della sua possibile rinascita abbiano avuto una responsabilità collettiva nel fatto che questa rinascita non si sia ancora verificata. Alcuni di noi perché hanno ispirato la loro azione ad un autoreferenzialità tutta rivolta al passato: quasi che la ripetizione ossessiva delle parole e dei riti propiziatori fosse di per sé in grado di far risorgere il defunto. Altri, come il sottoscritto perchè hanno ritenuto che il rinascere del socialismo riformatore, pacifista e internazionalista, legato al mondo del lavoro, cultore del pubblico e del ruolo centrale dello stato, potesse essere la necessaria conseguenza della ricostruzione di una sinistra alternativa al sistema esistente.
Ma non è stato così: nel primo caso perché le parole e i riti esercitati in un ambiente chiuso non hanno alcuna possibilità di essere recepiti all'esterno; nel secondo la sinistra alternativa nel nostro paese ha il grandissimo merito di esistere; ma vede, nel contempo, la sua capacità di parlare a tutti impedita dal peso della tradizione comunista e dalla vocazione minoritaria (fattori che, tra l'altro, le impediscono di riconoscersi formalmente socialista).
E, allora, al dunque emerge la convinzione che il futuro del socialismo (che è cosa assai più grande e importante del futuro dei socialisti, fino al punto di non avere nulla a che fare con questo) dipenda anche da qualcuno o qualcosa che lo rappresenti: nella cultura e nell'azione politica quotidiana.
Sto ponendo un problema. Non ho soluzioni da proporre. Anche perché queste soluzioni sono affidate all'impegno concreto di quanti ritengono che essere e agire da socialisti sia un dovere politico e morale.

 

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