NELLE URNE IL FALLIMENTO DELLA POLITICA di Stefano Folli da Il sole 24 ore
30 giugno 2011
Secco e brutale nel suo dualismo sì-no, l'istituto del referendum rappresenta la via più semplice per affrontare questioni complesse. Può apparire inadeguato e quindi non piacere, ma di sicuro permette di dar voce al popolo in modo clamoroso e trasparente. In questo caso è servito a dar fuoco alle polveri. Una politica stagnante dentro la cornice di un'economia altrettanto stagnante, un Governo ingessato e di fatto immobile. Il bilancio fallimentare di una maggioranza che aveva trionfato nelle urne appena tre anni fa. Un presidente del Consiglio troppo indebolito dai suoi errori pubblici e privati per esercitare una leadership efficiente e soprattutto non più in sintonia con il Paese dopo diciassette, lunghi anni in cui buona parte degli italiani aveva subìto la sua suggestione carismatica.Ecco la montagna poco incantata che la mina referendaria ha fatto saltare. Ora davvero nulla sarà più come prima. Chi non è convinto di questo, chi pensa che il Governo e la legislatura possano andare avanti con qualche piccolo aggiustamento, ha capito ben poco di quello che sta accadendo. Il problema è che nemmeno gli altri, coloro che intuiscono il cambiamento e magari lo cavalcano con la retorica delle grandi occasioni, nemmeno loro sanno dove dirigersi. Si sta aprendo un vuoto nella politica italiana e continua a non essere chiaro chi e come riuscirà a riempirlo. Quello che oggi sappiamo è che gli italiani hanno votato in parte nel merito dei quesiti, in parte per scrollare l'albero romano. Hanno dato voce alle angosce per le centrali nucleari e ai timori che l'acqua alimenti il profitto privato a scapito dell'interesse pubblico: è la prova che Di Pietro e gli altri promotori avevano scelto bene i quesiti, tutti in grado di toccare le corde emotive più profonde dell'opinione pubblica, specie dopo il disastro in Giappone. Ma forse queste emozioni non sarebbero state sufficienti per portare al voto il 57 per cento, se non avessero incontrato un malessere e un disagio diffusi, anche un senso di scoramento di fronte all'inerzia di una classe dirigente che assiste impotente o quasi alla crescita zero, alla disoccupazione giovanile dilagante, al progressivo distacco dall'Europa che conta. Tanto è vero che il quarto quesito, quello sul "legittimo impedimento", il più politico, in condizioni normali difficilmente avrebbe raggiunto il quorum; ma stavolta si è giovato della corrente ascensionale e ha contribuito anch'esso e non poco all'esplosione. Tutto s'intreccia e il referendum taglia il nodo gordiano. Lo fa lasciando molti dubbi di merito. Il "no" definitivo al nucleare significa aprire varie incognite sul futuro della politica energetica. Il responso sull'acqua può voler dire autorizzare chissà per quanto tempo gli sprechi pubblici che sono enormi. Ogni medaglia ha il suo rovescio. E se il risultato referendario sconfessa le rigidità e le insufficienze di una classe di governo, al tempo stesso rischia d'introdurre qualche elemento ideologico di troppo nella gestione di materie molto delicate, che hanno a che vedere con il modello di sviluppo economico. C'è da augurarsi che i governanti di oggi e soprattutto quelli di domani ne siano consapevoli.Per il resto, prevale l'idea che l'esito del referendum sarà pagato in primo luogo da Berlusconi. È abbastanza logico, se sono vere le ragioni che abbiamo elencato. Basta osservare la reazione della Lega per rendersene conto. L'immagine della doppia sberla (prima le amministrative, ora i quattro "sì") evocata da Calderoli è efficace. Il Carroccio sta perdendo il collegamento con il suo elettorato. Basta vedere come si è votato nelle regioni settentrionali. Il vecchio blocco sociale che ha saldato per anni l'asse Berlusconi-Bossi si sta sfaldando. Il fatto che non si sia ancora ricomposto dietro un altro equilibrio politico non risolve la questione. La Lega non ne può più, come testimoniano anche le parole di Maroni. E domenica prossima a Pontida il leader dovrà dire qualcosa di nuovo, se ne sarà capace. Non basta invocare in ritardo la riforma fiscale, o ironizzare su Tremonti che cerca di essere serio. Ci vorrebbe un'idea del paese, quell'idea per cui gli italiani hanno votato nel 2008 e che si è persa per strada. D'altronde, se una stagione si sta chiudendo, essa si esaurisce soprattutto per le due figure-simbolo di Berlusconi e Bossi. Non è detto peraltro che la cosiddetta opinione moderata, maggioritaria nel paese e oggi piuttosto strattonata di qui e di là, sia disposta a correre qualsiasi avventura. Magari a Milano ha votato Pisapia, riconosciuto come autorevole esponente della borghesia cittadina, ma chissà se domani si affiderà alla strana coalizione arcobaleno che si va costituendo a sinistra. Dopo le amministrative, i referendum lanciano sul proscenio Di Pietro e Vendola, ma pongono a Bersani e ai vertici del Pd la responsabilità di affermare una cultura di governo che potrebbe invece disperdersi nel tripudio dei "sì". Ci vorrebbe molta maturità, anche per sfuggire alla tentazione dei facili slogan, e non se ne vede ancora granché. A proposito: a che punto è il famoso progetto riformista per l'Italia promesso dai vertici del Pd? Non vorremmo che tutte le energie della segreteria fossero impiegate per impedire a Vendola o a qualche altro "outsider" di candidarsi come premier, al punto che invece di un'idea nuova per il paese avremo il solito programmino di maniera stampato all'ultimo momento per la campagna elettorale. L'opposizione dovrebbe rendersi conto che il risultato dei referendum è figlio delle inquietudini della gente e anche del disincanto verso Berlusconi. Ma non è in alcun modo un plebiscito per questo centrosinistra. È un voto di stanchezza che esprime voglia di cambiare. Ma non è un voto a favore di qualcuno. È soprattutto il presidente del Consiglio ad aver perso, come la Lega non mancherà di fargli sapere. Per gli altri, gli aspiranti vincitori, la strada è ancora lunga.
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