NASCE IL PARTITO SOCIALISTA - Le conclusioni di Enrico Boselli - 6 OTTOBRE 2007
16 novembre 2007
Le conclusioni di Enrico Boselli
Dai lavori della nostra Conferenza emerge una grande capacità di innovazione, che si esprime in un impegno per modernizzare la nostra economia, difendere la laicità e ampliare i diritti civili. Variamo oggi una forza riformista che si basa su principi antichi e su programmi moderni. Sono idee comuni alla famiglia del socialismo europeo che è la nostra bussola politica e programmatica. Ringrazio Poul Rasmussen, presidente del Partito socialista europeo, per essere venuto qui alla nostra Conferenza ed averci portato un importante contributo. Poul Rasmussen è uno dei leader più innovativi del Socialismo europeo.
Quando era premier ha introdotto la flex-security, che ha evitato in Danimarca la precarietà del lavoro giovanile, è servita ad aumentare l’occupazione e ha dato una spinta alla crescita. Voglio assicurare a Poul che il nuovo Partito socialista darà un contributo alla famiglia del Socialismo europeo, e cercherà di affermare in Italia il riformismo più innovativo. Ringrazio Luigi Angeletti, segretario della Uil che ha voluto essere presente qui tra noi.
Non esiste in Europa una forza socialista che non abbia uno stretto rapporto con il mondo del lavoro. Quando si esalta il rinnovamento, che è stato sviluppato dai laburisti inglesi, non bisogna mai dimenticare che è avvenuto in sintonia con il rinnovamento delle organizzazioni sindacali. Noi non siamo affatto tra coloro che considerano i sindacati una sorta di carrozzone burocratico, di cui sarebbe meglio sbarazzarsi. Voglio confermare a Luigi la nostra volontà di mantenere uno stretto rapporto tra il nuovo Partito socialista e le organizzazioni sindacali e in particolare con la Uil, alla quale ci legano principi comuni. Voglio ringraziare Roberto Barbieri che ha definito il quadro introduttivo di questa nostra Conferenza con indicazioni che sono state raccolte e sviluppate nel corso del dibattito. Le tavole rotonde, quella sul fisco, coordinata da Gianni De Michelis, quella sul welfare coordinata da Lanfranco Turci e infine – non meno importante – quella sulla laicità, moderata da Franco Grillini, hanno raccolto il contributo di esperti e intellettuali di grande livello, non tutti schierati con noi, ma sicuramente tutti interessati a ciò che stiamo facendo. Ringrazio tutti gli intervenuti, Roberto Villetti, Pia Locatelli, Valdo Spini, Bobo Craxi, Gavino Angius, Ugo Intini, Rino Formica, Cinzia Dato, Saverio Zavettieri, Mauro Del Bue e Alberto Nigra che ha rinunciato a parlare per il forte ritardo che ieri sera si era accumulato rispetto al programma previsto. Tutti hanno impresso una forte vivacità politica al dibattito che fa ben sperare sul futuro del nuovo Partito socialista.
Da oggi è in campo un nuovo Partito socialista che conta su una rappresentanza alla Camera dei Deputati, come al Senato della Repubblica. Noi siamo stati sempre ben lontani da una politica di minacce che non ha mai fatto parte del nostro stile e della nostra storia. Noi non faremo ricatti e neppure giocheremo al tira-e-molla, ma certamente faremo valere tutto il nostro peso per affermare le nostre idee. Il nuovo Partito socialista, come ho ricordato in apertura dei nostri lavori, non si basa su una pura e semplice ricomposizione della diaspora socialista, cosa pure di grande rilevanza dopo i travagli seguiti alla crisi del Psi e del Psdi. Al nuovo Partito socialista dà un contributo fondamentale una componente rigorosamente riformista che proviene dai Ds e che costituisce un fattore di grande importanza nella definizione della nostra identità.
Avremmo sperato che tutti i compagni che non hanno voluto aderire al Partito democratico, in nome di un riconfermato legame con il Partito socialista europeo, avessero scelto di impegnarsi con noi per costruire in Italia un nuovo Partito socialista. Ciò non è avvenuto. Coerente è stato l’atteggiamento di Gavino Angius che assieme a Valdo Spini, a Franco Grillini, Fabio Baratella e Accursio Montalbano, hanno reso conseguenti le proprie scelte politiche. Noi non siamo una forza inventata, un altro prodotto della frammentazione del sistema politico italiano.
Non siamo neppure una forza personalistica, che si regge sulla momentanea popolarità di un personaggio politico. Il Partito socialista che oggi scende in campo è pieno di storia, denso di valori e di principi, ricco di tradizioni, forte nel suo riferimento al Partito socialista europeo. La nostra ambizione è quella di costruire una formazione influente nella politica italiana perché in grado di raccogliere aspirazioni e interessi della parte più innovativa del nostro Paese. Riformismo è una parola assai diffusa. Non credo però che sia diventata – come è stato detto – una parola malata. Tutti invocano a parole nel nostro Paese grandi riforme; poi però sono solo in pochi a promuoverne la concreta realizzazione. L’Italia attraversa un periodo di crisi, aggravato da una confusione politica, alimentata spesso ad arte da quelli che nell’Atene antica sarebbero stati chiamati demagoghi e che per la loro nefasta presenza sarebbero stati cacciati dalla polis attraverso l’ostracismo. In una democrazia liberale misure del genere non sono ammesse e contrasterebbero con la necessità di assicurare la libertà di tutti.
Tuttavia i demagoghi restano demagoghi e così vanno chiamati e definiti. Si chiamino Grillo, Di Pietro o Alemanno. Questa deriva populistica non è puramente e semplicemente generata da uno stato di disagio sociale. Non dobbiamo peccare di economicismo: le ideologie in un tempo nel quale se ne proclama la fine, sono ancora in grado di incidere sui rapporti di potere.
Il populismo, se fosse solo il riverbero di un peggioramento delle condizioni materiali dei cittadini, sarebbe fenomeno limitato e comunque simile a ciò che accade in altre democrazie liberali, dove circolano predicatori e fondamentalisti di ogni tipo e risma. Noi ci troviamo di fronte a un processo molto complesso e quello che stiamo vivendo non è un sussulto momentaneo, provocato solamente da un diffuso disagio sociale; siamo di fronte a un sommovimento che solo apparentemente parte dal basso; in realtà a dirigersi contro l’attuale sistema dei partiti sono pezzi importanti della classe dirigenti: imprenditori, magistrati, giornalisti e non da ultimi esponenti politici di rilievo; tra di essi vi sono molte differenze ma vi è anche la convinzione comune che gli attuali partiti e i sindacati sono i reali ostacoli alla modernizzazione dal Paese. La debolezza, del sistema politico è evidente e deriva innanzitutto dalle profonde divisioni delle classi dirigenti che, invece di impegnarsi assieme per risolvere i problemi del paese, occupano larga parte del proprio tempo in una lotta senza quartiere per spartirsi il potere.
Nella classe politica persiste una mentalità statalistica che considera ancora l’espansione della sfera pubblica e lo sviluppo della democrazia, come due cose meccanicamente collegate. In larga parte della nostra classe imprenditoriale vi è invece la convinzione che solo con la riduzione della sfera d’intervento della politica il nostro Paese si può rinnovare. La politica sarebbe solo un ostacolo al dispiegarsi benefico degli spiriti animali del nostro capitalismo. Fortunatamente questo atteggiamento non è generalizzato. È di grande conforto leggere un recente intervento di Sergio Marchionne, nel quale si assume una posizione del tutto distinta dal populismo che anima parte della borghesia italiana, e una giusta rivalutazione del modello europeo rispetto a quello americano. Esistono, quindi, nella classe dirigente, leader e personalità che possono contribuire a frenare una pericolosa deriva nella quale si sta cacciando il nostro Paese.
Non credo proprio che cavalcare l’ondata populistica sia utile per il Paese. Chi lo fa in buona fede, lo fa perché non ritiene che vi siano altri mezzi, dati i rapporti di forza attuali, per modernizzare la società italiana. Si tratta, però, di un’illusione e – aggiungo – di una pericolosa illusione. Il collasso del sistema politico, è avvenuto negli anni novanta, non ha portato ad ampliare la democrazia liberale e a rinnovare le istituzioni: persino il bipolarismo, unico frutto positivo di un trauma sociale e politico, è oggi apertamente contestato anche da una parte di coloro che ne avevano fatto una bandiera. Questo sommovimento non è privo di ragioni che sbaglieremmo a sottovalutare. Come abbiamo potuto ascoltare nella nostra Conferenza, tante sono le resistenze che si pongono a un rinnovamento dell’Italia. Manca una valorizzazione del merito individuale, come manca una vera solidarietà sociale; le categorie hanno un orizzonte temporale di brevissimo periodo; le corporazioni professionali sono arroccate nei propri ordini e sembrano fatte apposta per contrastare la concorrenza e chiudere la porta di fronte alle nuove generazioni ricorrente è la tentazione di mantenere in vita con il denaro pubblico imprese decotte, invece di stimolare nuove ed efficaci iniziative imprenditoriali; si è introdotta la flessibilità nel mercato del lavoro, necessaria per affrontare la sfida della globalizzazione e allargare l’occupazione, ma lo si è fatto all’italiana, senza accompagnare questa vera e propria rivoluzione con un sistema di sicurezza sociale, tradendo così le idee di Marco Biagi. La flessibilità è diventata precarietà, diffondendo uno stato di disagio assai profondo tra i giovani e, a dire il vero, anche tra i meno giovani.
Non si è voluto affrontare il problema di una riforma molto più incisiva delle pensioni, che rendesse disponibili risorse per creare un sistema di sicurezza sociale ancora inesistente per i giovani e per gli anziani non autosufficienti. Non si è investito a sufficienza nell’innovazione, nella ricerca e nell’istruzione, e si sono invece distribuite importanti risorse in una miriade di piccoli interventi, poco rilevanti per la crescita e lo sviluppo. In queste condizioni è stato un vero e proprio miracolo che il Governo Prodi sia riuscito a portare avanti un’azione di risanamento della finanza pubblica e di forte contrasto dell’evasione. Il Governo Prodi appare inceppato da veti e contro veti che provengono dall’estrema sinistra ma non solo. È veramente paradossale che dei comunisti – e Mussi si ritrova di nuovo con loro – che una volta avevano l’aspirazione di cambiare il mondo, oggi scendano in piazza perché non si tocchi nulla, per difendere un sistema pensionistico che andava bene quando l’attesa di vita non era così lunga, come fortunatamente è oggi. Abbiamo considerato il protocollo dell’accordo con i sindacati una soluzione mediocre, perché non sufficientemente coraggiosa.
Tuttavia riconosciamo che si tratta di un timido passo nella direzione giusta, e dobbiamo anche ammettere che i leader sindacali si trovano ad affrontare profonde resistenze conservatrici nel mondo che rappresentano. Da parte nostra non verrà nessun tentativo di stravolgere il protocollo firmato tra il governo e i sindacati. Noto, però, che il ministro Ferrero ha detto che Rifondazione comunista non lo voterà così com’è. Ora se si smonterà e si rimonterà il pacchetto welfare non ci saranno in campo solo le proposte dell’estrema sinistra ma anche quelle dei socialisti. Non si può chiedere ai riformisti di tenere le mani legate quando i massimalisti praticano la politica delle mani libere. Tuttavia, proprio perché mettiamo in campo un Partito socialista, non possiamo non prestare ascolto alle proteste e al disagio che serpeggia nel mondo del lavoro. Una volta tutta la sinistra inneggiava alla forza dei metalmeccanici e considerava Mirafiori una roccaforte del rinnovamento del Paese. Per quanto possiamo essere distanti da molte delle posizioni che sono state recentemente espresse nell’assemblea che si è svolta a Mirafiori, dobbiamo pur capire che quella proteste e quel disagio non sono affatto privi di fondamento. Io non riesco a capacitarmi del fatto che una categoria, che ha alle spalle lotte di grande importanza, non riesca a comprendere come sia molto più importante costruire con le risorse rese disponibili da una giusta riforma previdenziale un sistema di sicurezza sociale per il lavoro flessibile e per gli anziani non autosufficienti.
C’è, comunque, qualcosa di più profondo e di più valido nell’atteggiamento dei metalmeccanici: il potere d’acquisto di salari, stipendi e pensioni è fortemente diminuito e, come diceva il centro sinistra nella precedente legislatura quando era all’opposizione, per i lavoratori è difficile arrivare alla quarta settimana. Nel frattempo, si è ridotto il peso di salari e stipendi rispetto al PIL in favore di rendite e profitti. Ebbene, come era del resto prevedibile, perché i problemi non si possono certo risolvere con un colpo di bacchetta magica - e non la possiede neppure un governo di centrosinistra - lavoratori e pensionati continuano a fatica ad arrivare alla quarta settimana. E quindi si chiedono: che cosa è cambiato con il Governo Prodi, rispetto a quello Berlusconi? Questo confronto con il mondo del lavoro è assolutamente necessario.
Se la sinistra non lo facesse, o se questo compito venisse delegato solo a quella massimalista, la protesta si potrebbe trasformare in astensione elettorale e si porrebbero così ulteriori premesse per una vittoria delle destre. Tutte le riforme e le innovazioni che vengono fatte devono rientrare in un disegno che sia comprensibile e nel quale si possa ritrovare larghissima parte del mondo del lavoro. In Italia sul fronte dell’innovazione si sono schierati intellettuali ed esperti che spesso martellano con i propri interventi i punti dolenti della situazione italiana. Molte delle soluzioni che vengono indicate, prese singolarmente, spesso sono eque e fondate. È sicuramente necessario in Italia introdurre una forte dose di concorrenza. Ciò che però non è accettabile in questa visione delle cose, è il contesto ideologico nel quale sono collocate le singole indicazioni. Non si può, infatti, pensare che il mercato per se stesso possa risolvere tutti i problemi di una società, e che meno politica c’è e più aumenta il benessere. Il mercato, come del resto riconoscono un po’ tutti, deve essere fondato su regole certe e autorità indipendenti.
Le corporazioni, i monopoli, gli oligopoli, non sono qualche cosa di estraneo al mercato, ma sono forme che questo può assumere ed anzi tende ad assumere in assenza di regole e controlli. Non si possono considerare gli effetti sociali negativi, che si possono determinare con una politica di innovazione e di riforma, come puri accidenti di fronte ai quali non c’è nulla da fare. La disoccupazione non è solo un fenomeno numerico, ma esprime drammi individuali e spesso familiari che una forza socialista non ha mai ignorato e non potrà mai ignorare. Noi siamo tra coloro che ritengono fondamentale dare impulso all’impresa, chiave di uno sviluppo che deve essere sostenibile e che deve tener conto dei vincoli ambientali. Siamo stati, come socialisti europei, tra i primi nella sinistra a considerare i cittadini come consumatori, contribuenti e clienti, ma non abbiamo mai dimenticato che sono spesso anche lavoratori e pensionati. Non si può considerare la competizione come l’unico comportamento sociale efficace, mentre la cooperazione sarebbe solo un atteggiamento di passività e di inerzia.
Non si può proporre una società nella quale l’unico valore rappresentato sia il denaro. Le riforme devono essere realizzate, come è stato fatto in altri paesi europei a cominciare dalla Gran Bretagna di Tony Blair, con scelte che favoriscono il mondo del lavoro e tengono conto delle condizioni degli strati più deboli e disagiati. In Italia troppo spesso si traducono messaggi che provengono dai governi socialdemocratici, come quello della sicurezza, in chiave ideologica e senza tener conto delle garanzie che contemporaneamente vengono poste a presidio della libertà dei cittadini. Ne abbiamo avuto un esempio nel caso dei lavavetri, che è assurto improvvisamente a grande questione nazionale. Questo problema è stato generalmente risolto in tutte le grandi democrazie europee con semplici misure di polizia, accompagnate però da interventi sociali. La sicurezza non è un fronte che appartiene alla destra. Ad essere colpiti dalla microcriminalità sono soprattutto i ceti più deboli, e tra essi soprattutto gli anziani. Non vi deve essere, quindi, alcuna esitazione ad adottare severe misure repressive. Non si può, tuttavia, passare da una posizione sbagliata che mostrava indulgenza nei confronti della piccola delinquenza perché la faceva derivare dalla povertà, ad una che ignora del tutto i risvolti sociali di alcuni fenomeni di piccola criminalità. Non possiamo lasciare solo alla Caritas, che fa un’opera meritoria, o alla benevolenza dei cittadini, il compito di soccorrere chi è emarginato e povero, qualunque sia la sua nazionalità. Il rischio che corre il centro sinistra è quello di scontentare il proprio mondo, senza acquisire nuovi consensi di chi è incerto o politicamente schierato nel campo avverso.
Noi pensiamo che vi sia la necessità di chiarire che cosa è di sinistra e che cosa è di destra: mettere sul mercato l’Alitalia vuol dire smettere di sperperare risorse pubbliche che possono essere meglio destinate; risanare i conti ed abbattere il debito pubblico serve ad evitare che una parte rilevante delle risorse vada a finire nel pagamento di interessi; combattere l’inefficienza nella Pubblica Amministrazione è il modo migliore per servire i cittadini e garantire i più deboli; abolire gli ordini professionali significa dare nuove opportunità ai giovani; liberalizzare la nostra economia può favorire la crescita e, quindi, mettere a disposizione maggiori risorse per risolvere tante questioni sociali aperte. Su questi terreni la Cosa rossa è una forza conservatrice che si oppone a qualsiasi trasformazione; il Partito democratico invece è innovativo, ma spesso solo a parole. Un esempio di questo atteggiamento dei Democratici, è l’impostazione che è stata data al sistema di istruzione dal ministro Fioroni. Non si perde occasione per favorire le scuole confessionali e creare svantaggi per le scuole statali. Le grandi riforme proposte nel campo della scuola non sono quelle portate avanti dalle socialdemocrazie europee, ma una sorta di contro riforme che vogliono riportare il nostro sistema di istruzione puramente e semplicemente agli anni ‘50. Si rivitalizzano le vecchie scuole professionali, come la ragioneria o i geometri, invece di pensare a licei tecnici di alto livello. Se questo è il nuovo che viene dal Partito democratico verrebbe proprio voglia di dire: ridateci il vecchio. La Dc almeno aveva un tasso di laicità superiore a quello generalmente prevalente nel nuovo Partito democratico.
Nel paese è aperta una grande questione di laicità. Quello che una volta si chiamava “fronte laico” non esiste più. Non vi è dubbio che la confluenza della maggioranza dei Ds nel Partito democratico abbia indebolito la battaglia per i diritti civili. Non ci sono state da parte di Veltroni parole chiare sul tema della laicità: c’è stata finora una imbarazzata reticenza da parte di chi non ha rifiutato neppure il sostegno dell’ultra integralista senatrice Binetti. Spesso siamo del tutto isolati nelle nostre battaglie politiche e parlamentari contro i privilegi delle gerarchie ecclesiastiche, dall’otto per mille, all’insegnamento della religione, all’esenzione Ici per le attività commerciali, camuffate da servizi sociali o luoghi di culto. Per quanto ci riguarda osserviamo solo che tutte le battaglie che stiamo conducendo sul terreno della laicità e dei diritti civili, a cominciare della difesa della legge sull’aborto, dal riconoscimento delle coppie di fatto o dalla libertà della ricerca e dalla modifica della legge sulla procreazione assistita, avvengono su questioni già risolte nelle grandi democrazie europee. Nel portare avanti questi nostri obiettivi politici, incontriamo continue resistenze e ci siamo ritrovati spesso da soli assieme ai radicali. Noi non siamo certo tra coloro che svalutano l’opera del Governo Prodi. Non abbiamo mai gettato la croce addosso al Presidente del Consiglio. Tuttavia non possiamo esimerci da constatare come il governo sia continuamente in affanno. Le ragioni sono molteplici: innanzitutto la ristretta maggioranza conseguita al Senato e l’eterogeneità della coalizione. La situazione si è ulteriormente complicata ed è stata resta più difficile dai cambiamenti che si sono recentemente determinati. Si è persino inventato un sistema nel quale c’è un premier in carica, com’è Prodi, ed uno virtuale, come Veltroni. Siamo stati tra i primi a temere che esplodesse un contrasto politico tra Prodi e Veltroni. Tuttavia ora siamo arrivati al punto che il premier in carica si vede costretto a rivendicare le sue prerogative costituzionali di fronte alle pretese del premier virtuale. Ci troviamo di fronte ad un grave problema politico che dimostra come il Partito democratico è diventato un fattore di confusione che rischia di portare il centrosinistra dritto dritto alla sconfitta.
Siamo in una situazione davvero paradossale. Si invoca una riduzione dei ministri e dei sottosegretari eppure oggi di fatto abbiamo: due presidenti del Consiglio due programmi di governo e persino due tipi di alleanze: quella tradizionale che sostiene il governo e quella di un centro sinistra di nuovo conio invocata da Rutelli. Ormai sono in molti a dare per scontata la crisi di governo. Già questo atteggiamento rende ancora più debole un quadro politico che è segnato da molti fattori di fragilità: la ristretta maggioranza al Senato, l’eterogeneità della coalizione, le risse tra i ministri, la manifestazione del 20 ottobre organizzata dai partiti dell’estrema sinistra, contro un governo di cui fanno parte, la sempre più forte agitazione dei centristi come Dini e D’Amico, i liberaldemocratici di Bordon e Manzione, e per finire lo scontro sulla giustizia tra Mastella e Di Pietro. Quanto potrà resistere in questa situazione il governo accerchiato dalla sua stessa coalizione e penalizzato da un’impopolarità che non smette di crescere? Tutti s’ingegnano a trovare una soluzione a una crisi che viene considerata imminente ed inevitabile. Berlusconi poi ci mette del suo sfornando in continuazione sondaggi, l’uno più sfaorevole dell’altro per il governo Prodi. Ce ne aspettiamo un ultimo nel quale il gradimento di Prodi sia giunto allo zero e, naturalmente, quello per Berlusconi al 100%. Ma se questa crisi avverrà che cosa succederà? Il rischio insito in una crisi di così ampia portata è lo scioglimento delle Camere e il ritorno al governo di Berlusconi. Questo sarebbe il capolavoro compiuto dal Partito democratico: portare il centro sinistra ad una sconfitta per una evidente incapacità a governare e soprattutto a dare una risposta alla ventata di antipolitica che si sta abbattendo sulle istituzioni democratiche. Qui, infatti, individuo la principale debolezza del Partito democratico che non riesce a contrastare apertamente ed efficacemente il tentativo in atto di dare una spallata al sistema dei partiti: per un verso critica le esasperazioni di Grillo, per un altro si mostra accondiscendente nei confronti di magistrati, imprenditori e anchor men che cavalcano il movimento giustizialista. In questo modo il Partito democratico non ha nessuna ricetta da contrapporre all’antipolitica. Non viene in mente neppure a Veltroni che il referendum non rappresenta solo una sollecitazione a fare una nuova legge elettorale ma costituisce soprattutto un nuovo tentativo per dare una spallata all’intero sistema politico. Questo stato di cose ha una sola spiegazione: il Partito democratico non riesce a esprimere una posizione chiara perché è profondamente diviso tra chi guarda con favore ad una crisi del sistema e chi invece lo vuole difendere. Emerge a più riprese l’idea di un rimpasto che dovrebbe determinare uno snellimento della compagine dell’esecutivo.
Ma ad avere determinato questa situazione non sono certo i gruppi minori che hanno un solo ministro a testa, ma il partito democratico che si ritrova ad averne 18 su 25 più il presidente del consiglio. A noi non interessa il rimpasto. Se si tratta di snellire, se proprio si vuole fare una bella cura dimagrante si dimettano la metà degli attuali ministri democratici. Tuttavia non ignoriamo che occorrerebbe una seria manutenzione del governo. Piuttosto che imboccare la via del rimpasto, allora è meglio, a metà della legislatura, che lo stesso Prodi prenda l’iniziativa per formare un nuovo governo con un aggiornamento del programma e fare una verifica delle alleanze. L’indicazione data ieri da Gavino Angius risponde a criteri di chiarezza ed evita pasticci sempre possibili. I punti principali sui quali occorre un ripensamento sono noti. C'è bisogno di una nuova forza riformista per superare il paradosso italiano: l'esistenza di tantissimi riformisti e la realizzazione di pochissime riforme. Non pensiamo ad una forza politica chiusa in se stessa; anzi, riteniamo che si debba aprire al dialogo con tutti i riformisti che si ritrovano nel Partito democratico. Fermo restando il nostro riferimento al Pse, penso che dovremo mantenere un rapporto strategico con i radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino, a cominciare dalle comuni battaglie laiche, e con tutti i liberali progressisti e con gli ambientalisti riformisti. Noi mettiamo in campo un nuovo partito. Lo facciamo sapendo che esiste nel Paese una spinta alla semplificazione della geografia politica e parlamentare. I partiti ormai spuntano come i funghi dopo la pioggia. Noi non apparteniamo a questa schiera. La forza riformista, che da oggi scende in campo, esiste già in tutti i paesi europei; non è l’ennesima anomalia italiana ma al contrario, un recupero di normalità.
Noi, care compagne e cari compagni, non abbiamo alcuna difficoltà a trovare un nome a questa nuova forza politica riformista né a ricercare un simbolo; non dobbiamo riunire un comitato di esperti, promuovere un focus group per conoscere il gradimento di questa o quella sigla. Questo compito è per noi assai semplice e facile. La nuova forza riformista che da oggi si misurerà con i problemi dell’Italia, ha come simbolo la rosa del socialismo europeo. Noi siamo socialisti europei. Noi siamo socialisti in Italia. E il nostro è il partito socialista.