Milano-Roma-Parigi-Berlino- Bruxelles: in ordine non casuale e men che meno alfabetico. Di Felice Besostri
28 settembre 2016
Scrivere a spoglio ancora in corso ha il vantaggio di poter essere smentito, cioè correre il rischio di fare proposte nette, prescindendo da interessi di bottega. La sinistra è in braghe di tela, ma ciascuno porta le sue. Forse essere totalmente nudi imporrebbe una scelta chiara. I risultati di Milano e Roma sono praticamente identici, nel senso di essere ininfluenti per l’esito del ballottaggio, con un leggero vantaggio di Roma, dove Stefano Fassina ha un’alternativa di voto per M5S e non solo di chiamarsi fuori come Basilio Rizzo a Milano. Una forza di sinistra, che si propone di cambiare la società, l’ordine economico sociale prevalente o addirittura il mondo, se fosse rimasta internazionalista, se viaggia intorno al 5%, più sotto che sopra, è meglio che cambi radicalmente ovvero cambi obiettivi: ma se rinuncia al cambiamento dell’ordine sociale esistente non ha senso che esista. Un 5%, ma anche un quasi 10% (9,7%) raggiunto da Rifondazione al suo apogeo produrrebbe effetto se fosse un gruppo di rivoluzionari, avanguardia cosciente del proletariato, presente nelle istituzioni solo come testimonianza e strumento di propaganda per accelerare la prossima, meglio se imminente, palingenesi. Se, invece, sulla base delle tragiche esperienze del realexistierendes Sozialismus, si fa la scelta irrevocabile, che socialismo e libertà sono indissolubilmente legati e che il poter si conquista e si gestisce democraticamente, la proposta della sinistra ( torneremo sulla polisemia del termine, al limite dell’ambiguità, deve essere naturalmente maggioritaria, cioè rappresentare la maggioranza, se non dei cittadini, almeno degli elettori. Dovrebbe essere semplice se effettivamente valesse il principio una testa/un voto e il potere economico-finanziario e politico, di contro, è detenuto da un 1%: quello denunciato da Occupay Wall Street. Non è così, anzi, anche limitando lo sguardo all’Europa ed ai paesi politicamente europei( Australia, Canada e Nuova Zelanda per esempio. L’America Latina, che se cominciassimo a chiamare indio-afro-latina sarebbe più esatto va trattata a parte, come gli Stati Uniti) i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti sono in perdita di consenso elettorale, paradossalmente accentuata con lo scoppio della crisi nel 2007/2009. Su questo fatto c’è attenzione, ma di meno sull’altra faccia, cioè che la crisi dei partiti membri del PSE, non si tradotta in un rafforzamento significativo e durevole di forze alla loro sinistra, fatta eccezione della Grecia con Syriza. In ogni caso mai hanno potuto rappresentare la sostituzione di un’egemonia esercitata sia nei singolo paesi, che a livello europeo dai partiti membri del PSE, che dal 2009 neppure sono più soltanto socialisti, ma una più generica alleanza progressista di socialisti e democratici. Grazie alle politiche economiche e sociali perseguite in Francia Hollande è precipitato al 14% ebbene Mélenchon è passato al 12% dal 11,2% delle presidenziali 2012. Si votasse oggi un candidato unico della sinistra potrebbe non arrivare al ballottaggio. In Germania le perdite della SPD sono andate inizialmente per i 2/3 all’astensione e 1/3 distribuito tra Verdi e Linke, che non hanno mantenuto i guadagni. Il fatto preoccupante, che le maggioranze SPD-Linke nei Länder, già meno di quelle numericamente possibili( in Turingia per esempio) non hanno superato la prov a del voto, tranne in un caso, che purtroppo non è stato Berlino, quella politicamente più significativa. Le alleanze SPD Verdi sono a guida Verde e neppure sulla carta esiste più una maggioranza rosso-rosso verde, anche per i pessimi rapporti tra Verdi e Linke. In questo quadro dopo la sconfitta in Norvegia e Danimarca delle coalizioni rosso-verdi, le uniche novità di una nuova dinamica a sinistra sono venute dalla Gran Bretagna con l’elezione di Corbyn alla guida del Labour Party, che non ha riconquistato il bastione scozzese, senza il quale non può vincere in Gran Bretagna, ma è stato capace di conquistare la grande Londra, con un candidato di origini pachistane, proletarie e di religione mussulmana, non per queste ragioni, ma perché laburista. Il Labour Party non ha mai avuto competitori a sinistra, che ne potessero contestare l’egemonia. La sua sconfitta è stata determinata da un partito di sinistra identitaria autonomista, con pulsioni indipendentiste, lo Scottish National Party. In Portogallo si è superata una ostilità a sinistra, che data dal tempo della rivoluzione dei garofani Sinistra dal connubio con i militari di settori della sinistra, ideologicamente ostili ai socialisti, benché di sinistra come il PSP. La vera occasione perduta è stata la Spagna, perché la forte perdita di voti socialisti a favore di Podemos non metteva in discussione la leadership di un governo di sinistra, ancorché senza maggioranza assoluta precostituita. Una risposta portoghese sarebbe stata necessaria, per mandare comunque a casa il governo della destra e le sue politiche anti-popolari. L’effetto del mancato accordo sarà che alle elezioni prossime si instaurerà a sinistra una dinamica concorrenziale e ditruutiva. Da un lato il riflesso identitario del PSOE, in particolare dei suoi baroni andalusi, e dall’altro la tentazione egemonica di Podemos, che presuppone una dura sconfitta del PSOE. Soltanto IU aveva capito il pericolo, ma il sistema elettorale spagnolo l’ha punita e deve sopravvivere. A sinistra è mancata una visione federale della Spagna, vecchio cavallo di battaglia dei socialisti catalani: unico antidoto all’indipendentismo nazionalista ad egemonia ideologica borghese di Esquerra Republicana de Catalunya e del centrismo pujolista. Una riflessione si impone a sinistra, che tenti di passare oltre alla sola ricerca delle responsabilità di chi ha tradito. La crisi del PSE riguarda tutta la sinistra europea. Se Atene piange Sparta non ride, anche perché la perdita di iniziativa politica dei socialisti sta compromettendo l’esistenza di un progetto europeo. La crisi dell’Europa non è solo economica e politica, ma anche morale e di civiltà. Se l’ungherese Orban, che appartiene al PPE, traccia una strada, che può essere assunta dallo slovacco Fico del PSE e da un governo come quello austriaco popolare e socialdemocratico, ci si dovrebbe rendere conto della gravità del momento. Una reazione conservatrice degli assetti di potere del Manuale Cencelli, che regge la UE, cioè un accordo eterno PPE-PSE, tra l’atro a egemonia conservatrice, non lascia speranza. Non lo si contrasta con una sinistra senza più ambizioni di cambiare la società nella direzione di meno diseguaglianze economiche e sociali e più libertà civili e politiche: men che meno con una sinistra che riscopre la sovranità nazionale ridotta a sovranità monetaria. Dovremo cominciare dal linguaggio. La parola sinistra indica soltanto una statica posizione relativa nello spazio e non una direzione di marcia con una meta. Dobbiamo riscoprire il valore di parole che appartengono ai nostri filoni ideali storici, quelli socialista, comunista e libertario, da tradurre in programmi all’altezza delle sfide planetarie del cambiamento climatico, delle migrazioni di massa, dello sviluppo compatibile e dell’accesso ai beni primari, come l’acqua potabile, l’istruzione e la salute. Sono compiti immani, ma se non siamo capaci di avere un progetto per i luoghi dove viviamo e si sviluppano localmente le contraddizioni globali, cioè le nostre città non avremo futuro, che si parta dal 1%, piuttosto che dal 3%o dal 5%,ma nemmeno da un 25/30% che diventi maggioranza assoluta grazie ad artifizi di una legge elettorale.
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