'MILANO, COREA' HA 50 ANNI MA SEMBRA SCRITTO ADESSO, di Filippo Azimonti, da la Repubblica del 1 dicembre 2010
14 dicembre 2010
Sono passati cinquant' anni dalla pubblicazione di Milano, Corea, un viaggio nell'immigrazione, "rivoluzionario" per struttura e impostazione. Sono gli anni del Boom, anni di ottimismo nella scoperta del destino industriale di un Paese sino ad allora agricolo che portava ancora le profonde ferite della guerra. E nel 1959 Danilo Dolci, campione con Aldo Capitini della lotta politica non violenta, protagonista delle prime battaglie contro la mafia e il sottosviluppo del Sud, propone a Giangiacomo Feltrinelli, editore eretico e comunista, un saggio sull' emigrazione. Affida a un sociologo non professionista, Franco Alasia, operaio alla Breda di Sesto, suo studente in una scuola serale, il compito di raccogliere 32 storie lungo l' asse immaginario che in dieci anni aveva portato mezzo milione di persone nella disordinata periferia milanese. Quella punteggiata, allora come oggi, dalle "coree", poco più che baraccopoli popolate da manovali, ambulanti, abusivi, contadini-muratori, prostitute e pederasti. Una marginalità che nasceva dentro il tessuto stesso della modernità. Al suo fianco c' è un giovane sociologo, Danilo Montaldi che in quei racconti non fa fatica a riconoscere i temi della grande sfida dell' immigrazione di massa: le conseguenze della guerra, la trasformazione sociale, la crisi agraria, la struttura economica, la città...
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Scrive infatti Montaldi nella premessa del suo studio: «Per lavorare a Milano ci vuole la qualifica, la specializzazione. Nella massa che arriva al mattino la maggioranza non ne ha una, né l' avrà mai. Comunque lavora».
E Carlo, 22 anni, meridionale, racconta ad Alasia: «Ho cominciato a fare l' ortolano. Vendevo frutta di stagione. Ho durato anche un po' di tempo, ma poi sempre con i verbali. Poi un giorno mi hanno sequestrato cinque quintali di pesche. Sono passati due vigili e mi hanno fatto pagare 1.000 lire. Mi avevano detto "Paga e va via!" Io non ho ubbidito e dopo due orette i vigili sono passati di lì, mi hanno fatto pagare altre 1.000 lire e mi hanno sequestrato le pesche».
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Materiali assemblati perché, spiegava nella sua lettera di presentazione Danilo Dolci, «ci era venuto il desiderio di guardare più da vicino sotto il concitato fervore di Milano, sotto la lucida solidità dei suoi cementi armati».
Per concludere: «Sapere non è condizione sufficiente affinché le cose cambino - e bene - ma certamente indispensabile».
È il racconto di "un movimento verso la modernità", osserva Guido Crainz nella nuova introduzione del libro, ripubblicato da Donzelli. «Una modernità che sembrava però riproporre in altra forma gli scenari di fatica dell' industrializzazione ottocentesca». Ma non solo, perché «le ondate migratorie coesistono fino al 1961 con un permanere della legislazione fascista contro l' urbanesimo che le rende illegali. Che trasforma larga parte degli immigrati in clandestini del mercato del lavoro nella loro stessa patria. In questo quadro, gruppi di immigrati erano portati anche a trarre vantaggi dall'illegalità e, soprattutto cresceva a dismisura la generale diffidenza verso le strutture pubbliche, verso le istituzioni e il loro modo di essere».
Erano o sono? Rileggere Milano, Corea oggi richiama certo alla memoria le immagini di Rocco e i suoi fratelli che proprio nel 1960 incassava applausi e denunce, o i temi pasoliniani del passaggio dalla cultura orale e contadina a quella televisiva, ma soprattutto interpella i contemporanei sull'incapacità di cogliere nel suo manifestarsi la "modernità" dotandosi di strumenti nuovi, proprio come Dolci aveva suggerito.
In una lettura che non è storica ma tutta politica.