MERITOCRAZIA E SOCIALITA’ di Francesco Bochicchio
30 settembre 2019
Soprattutto in un
momento di crisi, la meritocrazia è considerato un elemento fondamentale per lo
sviluppo economico sociale.
In via intrinseca si
evidenzia che la meritocrazia è l’unico modo per valorizzare il libero sviluppo
della personalità.
Ciò porta
inequivocabilmente a ridimensionare (secondo una posizione in cui ora spicca
l’ineffabile Sabino Cassese) gli istituti sociali in particolare, quelli tesi
ad attuare la giustizia sociale, la quale comporta l’apposizione di forti
limiti alla meritocrazia.
La problematica ha
trovato il proprio culmine nell’eguaglianza, la quale, se non limitata
all’eguaglianza formale, quella innanzi alla legge (riconosciuta solennemente
dall’art. 3,1° comma, Cost.), finirebbe con mortificare l’individuo.
Di fronte alla sempre
maggiore richiesta di eguaglianza, sentita particolarmente in presenza di
condizioni di miseria, in forte crescita in Occidente e mai scomparse nei Paesi
arretrati, si è ritenuto di dover ammettere un’eguaglianza sostanziale quale
parità delle condizioni di partenza senza vincoli significativi a
diseguaglianze nelle condizioni di arrivo.
In tal modo, si
realizzerebbe la parte migliore del liberalismo, pienamente compatibile con un
forte concetto di eguaglianza e giustizia sociale.
Il socialismo non si
accontenta, pretendendo eguaglianza nelle condizioni di arrivo, il che suscita
le obiezioni sopra menzionate.
La problematica sembra
irresolubile, e tale da ricondurre a posizioni ultime, non suscettibili di
spiegazioni razionali.
Ma è solo un’apparenza:
la problematica è invece semplicissima, ma oggetto di vero travisamento.
L’uguaglianza delle
condizioni di partenza non solo non è realizzata in nessun ordinamento, nemmeno
liberale, ma nemmeno è perseguita.
Ed infatti, essa è
impossibile.
Per attuarla,
occorrerebbe abolire non solo le successioni, ma anche le donazioni: si dovrebbe,
cioè, abolire qualsivoglia ipotesi di circolazione diversa dallo scambio con
nesso di corrispettività. Ma non solo ancora: occorrerebbe altresì sottoporre a
controllo lo scambio per verificare che le condizioni delle due contrapposte
prestazioni siano tra di loro eguali. L’eguaglianza delle condizioni di
partenza, se effettiva, porterebbe a far diminuire a fortemente le
diseguaglianze nelle condizioni di arrivo, il che è inaccettabile per il
liberalismo.
Altrimenti, qualcuno
avrebbe condizioni di partenza superiori agli altri.
L’istruzione e le
occasioni di ricchezza offerte da una società aperta possono fornire possibilità
di successo ma che non saranno mai uguali a quelle di chi beneficia di mezzi
superiori non procurati da sé.
Il risultato è netto e
senza possibilità di sfumature. L’eguaglianza dei punti di partenza è fittizia:
peggio ancora, è mistificazione.
Piuttosto che
impantanarsi nell’eguaglianza dei punti di arrivo, e scendere così sul terreno
della contrapposizione scelto dal liberalismo, il quale non è nient’altro che
ideologia intesa, in termini marxiani, come falsa coscienza, la nostra
Costituzione, all’art.3, 2° comma, dopo aver statuito al 1° comma l’eguaglianza
formale, fissa il compito principale della Repubblica, che è quello di
“rimuovere gli ostacoli di natura economica e sociale che, limitando di fatto
la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese”.
La norma è chiara ed
univoca:
a) distingue tra
condizioni di partenza e condizioni di arrivo in termini logico-temporali ma non
differenzia tra di loro in termini di eguaglianza;
b) richiede per entrambe
un livello minimo adeguato di condizioni per uno sviluppo pieno della persona
sia come capacità sia come tenore di vita (sembra una acuta e felice riformulazione
di Marx, “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”);
c) l’obiettivo finale è
di consentire ai lavoratori, vale a dire a tutti i cittadini occupati
considerati in termini di assoluta eguaglianza, di influire ed incidere sul
potere politico, economico e sociale;
d) è così evidente che
si tende a ridurre la distanza economico-sociale, anche ponendo tetti alle
condizioni massime.
La norma è di chiara
impostazione marxista, e non è un caso essendo la sua formulazione dovuta alla
penna di Lelio Basso, massimo teorico e politico marxista non leninista ma
luxemburghiano. La società da essa divisata sembra riconducibile ad un
socialismo dal collettivismo fortemente temperato, sulla falsariga della Nep,
politica economica bolscevica ideata da Bucharin negli ultimi tempi di Lenin in
via di autocritica rispetto all’originario brutale collettivismo (con Stalin la
Nep fu subito accantonata).
Ma il punto di arrivo
viene fissato in linea solo tendenziale, non potendosi imbrigliare in rigidi
binari le dinamiche economico-sociali.
Il punto centrale è
rappresentato dal percorso da seguire, caratterizzato dalla riduzione al minimo
delle diseguaglianze e dall’incisione egualitaria sulla struttura e
sull’esercizio del potere politico, economico e sociale.
Sull’un punto, si
respinge l’obiezione liberale che l’obiettivo vero non può essere la riduzione
delle diseguaglianze, visto che la mancanza di incentivi, nel bloccare lo
sviluppo, trascinerebbe tutti al ribasso, ma deve coincidere con l’innalzamento
delle condizioni minime.
L’art. 3, 2° comma, ha
come visto respinto tale obiezione, sulla base dell’assunto, incontestabile,
che un eccessivo divario economico-sociale disgrega il tessuto sociale,
frantumando la Società e rendendo lo Stato quale mera organizzazione senza
consistenza sociale e popolare. La meritocrazia è meritevole di tutela solo se
si mantiene all’interno di un coerente e robusto equilibrio sociali, priva di
steccati.
Sull’altro punto, si
completa il primo, perseguendo la valorizzazione della Società ed il suo
condizionamento sul potere economico-politico.
Per apprezzare tale
punto, occorre tener presente l’enorme progresso registrato dalla nostra
Costituzione rispetto alla pur eccellente teorizzazione costituzionalista a
Weimar.
Qui ci si poneva il
problema di unificare la dialettica sociale con i relativi conflitti all’interno
dello Stato.
Nell’escludere il decisionismo
-oscillante tra la teocrazia ed il nichilismo- di Schmitt, è bene concentrarsi
sulle soluzioni di Rudolf Smend e di Hermann Heller.
Smend sostenne
l’integrazione della Società all’interno dello Stato: viene così perseguita
un’unificazione tale da imporsi ai singoli elementi, eliminando la loro autonomia.
E’, anche contro le migliori intenzioni, un’unificazione autoritaria, che si
realizza ipostatizzando lo Stato e la Nazione e piegando così la dialettica
sociale.
Heller, all’esatto
contrario, sostenne l’omogeneità sociale, proponendo un’unificazione basata su
una effettiva comunanza di interessi. Il suo limite è di aver mantenuto, con un
ferreo anti-pluralismo -tale da collocarsi sulla scia della volontà generale di
Rousseau pur rifiutando di questi l’utopia della democrazia diretta e restando
invece rigorosamente al di dentro del perimetro della rappresentanza-, la pienezza
della distanza tra Società e Stato, rendendo il secondo del tutto autonomo
dalla prima. E’sì, quella propugnata da Heller, una Società egualitaria, che ha
però un nucleo di potere superiore, da essa non influenzabile: è un’uguaglianza
che non tocca la sfera alta.
La nostra Costituzione si
è basata su un effettivo e ricco pluralismo che parte della Società:
l’unificazione è nella programmazione economica pubblica (art. 41, 3° comma),
che si realizza mediante sia coordinamento delle istanze dal basso sia
indirizzo vincolante del potere economico.
Condizione essenziale è
che la Società sappia far emergere istanze dei soggetti non esercenti il
potere, mentre la sintesi è del potere politico pubblico che in tanto è
efficace e si legittima solo in quanto la sintesi sia costantemente riconosciuta,
nelle dinamiche sociali, dai soggetti non esercenti il potere, i quali devono
quindi trovare una propria autoregolamentazione, tale da dover essere solo
completata dalla sintesi.
In conclusione ed in
sintesi, l’art.3, 2° comma, con il principio di eguaglianza sostanziale, quale sopra si è cercato di declinare, è la
norma a base (“GrunNorm”, in termini kelseniani) dell’intero edificio
costituzionale: va letto in collegamento indefettibile con l’art. 1, 1° comma
(collegamento tra Repubblica –non Stato, e quindi questi non è più esaustivo- e
lavoro) e con l’art.4 (tutela del lavoro); ma non ci può fermare qui, ed
infatti essa riceve il supporto indefettibile dell’art. 1,2° comma in ordine ai
principi –sovranità popolare– e dell’art. 41,3° comma in ordine al concreto
assetto –programmazione economica-.