MENO STATO; PIU’ SPESA PUBBLICA di Alberto Benzoni
20 giugno 2019
Per il nostro senso comune un’assurdità. Nella sostanza un fenomeno inevitabile. Come ampiamente dimostrato dall’esperienza italiana.
Tutto comincia con la liquidazione premeditata, negli ultimi decenni del secolo scorso, della Cassa del Mezzogiorno e dell’Iri. Due strumenti per un intervento pubblico programmato. Due strumenti osteggiati dal Pci della vecchi fede pubblicista perché di matrice e controllo Dc; e perciò bisognosi della gestione “democratica” delle periferie: regioni, enti locali, sindacati. L’abolizione della Cassa del Mezzogiorno e la, disastrosa, regionalizzazione delle relative competenze sarà il primo e decisivo passo in questa direzione.
Lo stesso Pci (ora Pds), folgorato sulla via di Damasco dalla nuova fede liberista/europeista, sarà poi protagonista della liquidazione dell’Iri e del rinnegamento della sua stessa ragion d’essere: ”fare le cose che i privati non possono fare”. Un abominio della furbizia italica per i signori di Bruxelles e di Berlino; un ferrovecchio per i nuovisti nostrani inebriati dalla scoperta del ruolo centrale del mercato e dell’iniziativa privata nello sviluppo dell’economia.
Pure, i nuovi salvatori della patria si dimostreranno, da subito, del tutto impari alla bisogna. Come dimostrato dal fatto che il “sistema Italia”, a trent’anni data dalla sua rifondazione, è segnato dalla debolezza e dalla stagnazione: eccellenze sparite, grandi imprese vendute all’estero, cronica insufficienza di investimenti, facilitazioni ai privati di ogni genere tradotte in maggiori utili per gli azionisti e così via.
Così alla rinuncia dello stato di “fare politica” (che fosse industriale, anticongiunturale o territoriale) con investimenti pubblici mirati si accompagna una dispersione della spesa pubblica a servizio di interessi corporativi di vario tipo.
Una miscela che diventerà esplosiva con l’avvio della politica di austerità. In un contesto in cui una seria caccia all’evasione o una rimodulazione delle pressione fiscale nel senso della progressività sono, di fatto, “off limits” (e non perché “ce lo chiede l’’Europa“). Come lo sono gli incentivi versati a piene mani ai privati e, già che ci siamo, anche una razionalizzazione delle spese per acquisti di beni e servizi.
Rimane, allora, in un rito sacrificale che si ripete anno dopo anno, il taglio della spesa pubblica. Che, sia chiaro, non si traduce affatto in un “sano dimagrimento” ma in puro e semplice degrado; nella ritirata dello stato e del pubblico che lascia dietro di sé solo rovine. Nei rapporti tra i cittadini e la pubblica amministrazione: costretti i primi a pagare sempre di più per servizi pubblici sempre più inadeguati; vittima, quest’ultima, di frustrazioni crescenti. E nel tessuto sociale e territoriale segnato da uno scontro sempre più aspro per l’accesso a risorse pubbliche sempre più limitate.
Per il governo italiano (ma anche per molti altri governi dell’Europa occidentale) un degrado potenzialmente esplosivo. Impensabile, allora, proseguire lungo una via oramai senza uscita. E senza uscita perché il ritiro dello Stato e del pubblico alimenta una sofferenza sociale che può essere contenuta solo attraverso nuova spesa pubblica questa volta di tipo esclusivamente redistributivo e assistenziale.
Ecco, allora, il duplice paradosso. Il meno Stato che crea più spesa pubblica. Ma anche la politica di austerità che rende impossibile il raggiungimento dei fini (contenimento del deficit e del debito pubblico).
Una duplice contraddizione destinata a portare l’Italia e l’Europa a una comune rovina. Ma anche una contraddizione che si può affrontare solo con iniziative collettive volte alla riforma del sistema, e non con furbizie e/o fughe individuali.
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