MENO MALE CHE UMBERTO C’È, di Gianfranco Pasquino, da Mondoperaio 4, aprile 2010
17 maggio 2010
È diventato imperativo rimettere in discussione tutti i luoghi comuni sulla Lega. Per farlo in maniera produttiva è indispensabile tenere conto dell’ambiente nel quale la Lega opera e di quello che fanno i suoi concorrenti. Contesto e competizione sono le chiavi interpretative più corrette e più utili. Il primo luogo comune, da tempo logoratosi, è costituito dall’idea che la Lega esprima quasi esclusivamente la protesta,
sia territoriale, ovvero del Nord e delle sue zone “provinciali”, sia sociale, ovvero di alcuni ceti specifici, prevalentemente lavoratori autonomi con reddito medio-basso e parecchia insicurezza. Da oramai quasi dieci anni la Lega e’ partito di governo nazionale, con un personale che, unitamente a qualche elemento flocloristico alla Calderoli, è costituito da ministri come Maroni, Zaia, Castelli e da sottosegretari che, senza essere dei fulmini di guerra, se ne intendono e lo dimostrano.
Naturalmente, è possibile avere una visione diversa su ciascuna delle
tematiche (ordine pubblico, giustizia, agricoltura) che quei ministri frequentano e trattano; ma le differenze di opinione non possono fare sparire le competenze esistenti e acquisite che quei ministri (e i sottosegretari leghisti) dimostrano. A livello locale, poi, insieme ad un ricercato effetto mediatico, esagerato ad arte, qualche volta non soltanto in maniera ludica, stanno sindaci e assessori che governano e che, comunque, sono rappresentativi delle zone nelle quali hanno vinto e rivinto le elezioni da quasi vent’anni a questa parte. Sembra che i commentatori politici italiani abbiano dimenticato (ovvero, forse, mai saputo) che il potere di governo, esercitato in maniera decente e onesta, si insedia e si riproduce.
Crea interessi costituiti, sollecita altri ad impegnarsi in politica, ha un effetto volano. In tutto il Nord la Lega è destinata a durare. Quanto al non-coinvolgimento in scandali, la spiegazione appare relativamente semplice. Esiste nei confronti degli eletti della Lega, nelle varie zone locali, quel meccanismo potentissimo che un tempo operava per e nel Partito Comunista: chi si arricchisce indebitamente lo si vede subito; viene chiamato a rendere conto, ed eventualmente allontanato con una certa rapidità perchè danneggia tutti e sciupa l’immagine del movimento leghista.
Secondo luogo comune, diffusissimo, ma da specificare e analizzare: la Lega vince e avanza perchè è radicata sul territorio.
E’ verissimo che il radicamento territoriale è un punto di straordinaria forza della Lega, che in effetti nasce dal territorio. Ma una volta rilevato il fenomeno sembra il caso di chiarirne le componenti. Il radicamento non è mai esclusivamente localismo, fermo restando che il localismo in un paese che ha quasi novemila comuni è un elemento importante, non disprezzabile, spesso positivo: in particolare quando da un lato produce emulazione nella competizione, dall’altro garantisce rappresentanza, che definirei “di base”, proprio a quei ceti che lavorano sul territorio a “cose” molto materiali. Dalla considerazione relativa al radicamento territoriale della Lega, gli opinionisti traggono due conseguenze analitiche.
La prima è che la Lega è un partito vero (magari lo si sarebbe dovuto scoprire già dieci anni fa) e che (questa è un’affermazione più discutibile) il suo radicamento è come quello del defunto (ma tristemente tradito dai suoi piccoli eredi pasticcioni) PCI. La seconda era relativa al fatto che, fino a qualche tempo fa, il radicamento leghista incontrava dei limiti geografici: prima il Po, poi l’Appennino. Ma, adesso che la Lega è già scivolata verso le Marche e la Toscana, non si trova neppure più il confine geografico. Nella misura che il voto leghista diventa accettabile e praticabile poichè non vi si attacca più nessuno stigma, poichè ha uno sbocco di governo, insisto, locale e nazionale, poichè contribuisce a eleggere rappresentanti “come noi”, allora, in assenza di chi faccia una politica altrettanto aderente alle esigenze locali e altrettanto incisiva a livello nazionale, la sua lenta e graduale espansione risulta inarrestabile.
Dovremmo anche sapere che il radicamento non è soltanto un fenomeno fisico e pedissequamente territoriale. E’ piuttosto, in senso lato, un fenomeno sociale e culturale, riconoscendo che la cultura è fatta soprattutto di stili di vita e di modelli di società, anche quelli che non ci piacciono, ma che esigono rappresentanza fisica, corposa, concreta.
Per rimanere nel paragone con il PCI, i comunisti non paracadutavano, tranne casi eccezionali in circostanze e situazioni eccezionali, i loro dirigenti e meno che mai i loro candidati. Anzi, cercavano di fare emergere da ciascun territorio e dalle organizzazioni di riferimento i cosiddetti leader naturali, che naturalmente portavano con sè non soltanto voti, ma conoscenze e reti di relazioni.
Il radicamento della Lega deve essere letto, interpretato e studiato proprio in questa visione: candidati, dirigenti e governanti provengono dal territorio.
Hanno una biografia personale, spesso anche professionale, che si è dipanata in quel territorio. Fanno parte di associazioni del più vario genere.
Non sono affatto dei parvenus, dal momento che già erano lì da tempo; non sono dei miracolati da qualche dirigente nazionale che cerca, lui, di farsi e trovarsi dei referenti locali. Qui, forse, potremmo addirittura situare una terza conseguenza analitica del radicamento territoriale. Se il fenomeno dimostra di funzionare in una zona ha due effetti: di contagio e di imitazione. Effetti probabili che inevitabilmente prima lambiscono e poi penetrano in area socioeconomiche non molto differenti fra di loro (Marche e Toscana) senza dare segno di arrestarsi. A piccoli passi, con qualche candidatura rispettabile e rappresentativa, la Lega va, si insedia, viene malamente contrastata, avanza.
D’altronde i temi veri dell’agenda politica italiana la Lega li conosce e li pratica tutti, ovviamente nella sua versione che ha poco di costola della sinistra e molto di viscere del paese reale e non soltanto di quelle del Nord. Ne faccio un elenco sbrigativo: ordine pubblico e immigrazione (senza sicurezza non c’è lavoro e non c’è vita godibile); “le nostre tasse qui dove le paghiamo”; “la nostra identità ce la costruiamo noi”, alla faccia dei sociologi raffinati, anche in opposizione netta e brutale all’altro, al diverso, allo straniero che non porta rispetto ai nostri valori e costumi; decentramento (magari con la moltiplicazione delle province e delle prebende), autonomia, federalismo e, in fondo in fondo, l’Indipendenza della Padania. Risposta dell’elettorato non leghista e, quel che è peggio, dei politici non leghisti, caduti e rimasti impigliati nella rete di un federalismo che non sanno cos’è e non sanno come lo vorrebbero: “sì, ma...”. Allora, tanto vale votare chi ha le idee chiare, dice poche parole, anche approssimative, passa all’azione e alla rivendicazione sul territorio dove viviamo tutti, e continueremo a viverci.
Possibile che nella mia analisi abbia dimenticato l’antipolitica e il populismo (ovviamente ruspante, quello “elegante” lo pratica e lo esibisce Berlusconi) della Lega? Certamente no, anche perchè entrambi gli elementi si
trovano, unitamente alla territorialità, alle origini della Lega e vengono continuamente resuscitati ogniqualvolta necessario. Semmai la critica e la speranza dei commentatori d’alto bordo progressisti riguardano il modello di partito: il partito di Bossi. Fatto il dovuto omaggio ad un leader che si e’ rimesso da un ictus e che porta avanti, come si dice, il suo sogno politico e istituzionale, la Lega Nord e’ effettivamente il partito del leader. Non e’ e non sente il bisogno di diventare, anche se il discorso sarebbe lungo, complesso e tormentato, un partito democratico con le liturgie e le votazioni (ma anche le ipocrisie e le manipolazioni). La leadership di Bossi e’ indiscussa e non viene sfidata. Dovremmo preferire un partito dalla leadership discussa e costantemente sfidata? Il partito non è, forse, come ci ricorderebbero i classici, una “arma organizzativa” che deve conseguire gli obiettivi che elettori, seguaci, militanti e dirigenti desiderano e delineano? Se, lasciando da parte pelose e regolarmente disattese aspettative sulla democrazia nei partiti, la risposta per quel che riguarda la struttura della Lega è che, sì, il partito e’ un’arma che i suoi dirigenti lucidano, oliano e consegnano a Bossi, dovremmo soltanto chiederci se l’arma funziona in modo soddisfacente per gli elettori e per i ceti che la Lega vuole rappresentare e conquistare. Lasciando da parte, per adesso, il doloroso discorso sul non-modello degli apprendisti stregoni del Partito Democratico, per quel che riguarda la Lega la risposta non e’ soltanto facile da dare. E’ anche molto precisa e convincente tanto quanto i numeri del suo consenso elettorale e del suo potere politico, di governo locale e nazionale. Non c’e’ ombra di dubbio. Funziona.