MARCHIONNE MERITA UN ALTRO PD di Peppino Caldarola , Il Riformista del 6 gennaio 2011

03 febbraio 2011

MARCHIONNE MERITA UN ALTRO PD  di Peppino Caldarola , Il Riformista del 6 gennaio 2011

Sfide. Un partito moderno non può sostituirsi al sindacato ma non può neppure fingere di non vedere che ciò che accade a Mirafiori ci parla dell'Italia e che la durezza di Marchionne nasce anche dal fatto che il suo progetto è calato in un paese che ha perso la cultura industriale perché ha perso cultura politica.
Fra poco più di una settimana, il 13 e 14 gennaio, si svolgerà il referendum a Mirafiori. La Fiom lo considera un appuntamento segnato dal ricatto e dalla paura e chiede che si possano svolgere assemblee di lavoratori per discutere l’accordo. L’azienda viceversa ha fretta e ha messo in discussione addirittura la sopravvivenza della fabbrica nel caso in cui prevalessero i “no”. La sinistra si presenta a questa prova divisa. Il protagonismo di Sergio Marchionne rischia di travolgere il fragile compromesso che aveva compattato lo schieramento progressista in questi sedici anni di egemonia berlusconiana. Il pugno di ferro del capo della Fiat interrompe oltre un decennio di divagazioni sovrastrutturali e costringe la sinistra a fare i conti con problemi identitari e programmatici a lungo elusi. In primo luogo riproponendo due capisaldi delle antiche elaborazioni della sinistra. Il ruolo della grande fabbrica nell’economia italiana e la posizione verso la classe operaia. Nel secondo dopoguerra il movimento operaio, pur mostrandosi attento alla piccola impresa e al ceto medio, non aveva mai smarrito la consapevolezza che un’economia moderna non potesse fare a meno della grande impresa. Prima della degenerazione clientelare dell’intervento pubblico anche l’industria di stato si era misurata sui grandi progetti industriali. La centralità operaia, prima ancora di essere una scelta ideologica, rappresentava la presa d’atto che i lavoratori manuali impegnati nelle grandi imprese tecnologicamente agguerrite fossero un presidio di modernità. Anche per questo i temi della sindacalizzazione e del potere in fabbrica rappresentavano un aspetto rilevante del dibattito pubblico. Non è stata una storia lineare. Abbiamo conosciuto le suggestioni operaiste, sperimentato nuove forme di democrazia sindacale, sono state combattute grandi battaglie contro l’estremismo e il terrorismo, è stata frettolosamente archiviata la stagione della sconfitta dopo la marcia dei quarantamila.
La grande fabbrica restava comunque il fulcro dell’Italia produttiva. Per ragioni diverse, che non possiamo neppure riassumere in queste righe, le successive stagioni politiche hanno proposto altri modelli di produzione, di consumo e di democrazia. Fabbriche e operai sono passati in seconda o terza fila. I partiti politici si sono fatti evanescenti, i sindacati hanno difeso l’esistente, il progetto-Italia ha perso colpi nei settori produttivi che ne avevano sancito la storia industriale. Anche la narrazione della storia italiana veniva deformata. Una maggioranza di destra si coagulava come se si fosse appena liberata dalla cappa dello stato, del sindacalismo, del meridionalismo, della democrazia rappresentativa. L’idea liberale si faceva eltsiniana ignorando le caratteristiche occidentali della crisi del paese. Marchionne arriva a questo punto. Rimette il sistema Fiat al centro dell’universo produttivo e di quello politico-culturale ma anche lui si vuole avvantaggiarsi di una narrazione di destra della crisi italiana chiedendo al paese di liberarsi dalle pastoie del sindacalismo e della rappresentanza. Non c’è dubbio che il leader della Fiat coglie alcune verità di fondo. Marchionne impone alla politica e alla società di ragionare su un possibile futuro industriale che non faccia a meno della grande fabbrica e della specializzazione italiana sui motori e sull’auto e chiede che questo sforzo nazionale si faccia nelle stesse condizioni di mercato dei suoi più agguerriti concorrenti. La verità di Marchionne è tremendamente moderna e spazza via le futili discussioni degli anni dell’ottimismo berlusconiano e tremontiano anche se si avvantaggia di quel lascito culturale rappresentato dalla elusione delle responsabilità della crisi del paese. Anche Marchionne ragiona come se si trovasse a operare non in un moderno e democratico paese occidentale ma in una fragile democrazia dell’Est.
La modernità di Marchionne rischia così di trasformarsi in un modello politico-culturale degli albori del movimento operaio e della lotta di classe. O se volete, più semplicemente del primo capitalismo. L’idea cioè che esista una incompatibilità fra il lavoro di fabbrica e la democrazia. Il pieno controllo del lavoro è l’unica condizione per la sfida produttiva e per l’uso intensivo delle nuove tecnologie che non sopportano alcuna deroga legata al protagonismo operaio, sia quello che guarda alla tutela di migliori condizioni di lavoro sia quello che pensa a tematiche di potere. La fabbrica evita la contaminazione democratica e resta affidata a un patto leonino che lega l’operaio alla sua singola azienda e al suo management. La verità è che si stanno capovolgendo le premesse da cui eravamo partiti. Siamo entrati nel nuovo secolo con il carico di problemi di una società avanzata e ne usciamo con le stesse ricette dell’Est europeo. Una fabbrica a così bassa densità democratica si affaccia così su una società socialmente disgregata retta da un sistema politico neo-feudale. Difficile immaginare che questo possa essere il viatico alla modernità come ci viene proposto nelle interpretazioni entusiastiche della svolta di Marchionne.
La sinistra qui rivela i suoi strutturali punti deboli. D’improvviso è costretta a ragionare su un modello industriale che azzera tutta la sua discussione pubblica di questi anni. Deve fare i conti con una grande sfida produttiva e con modelli di rappresentanza che erano sfuggiti alla sua cura e persino alla sua visione. Quando si propone nella stessa stagione politica di tornare alle gabbie salariali, di abolire il contratto nazionale di lavoro, di escludere dalla contrattazione il contraente minoritario si perdono di vista punti fondamentali del proprio radicamento sociale. E’ l’idea abnorme di una società senza conflitti che viene proposta come modello in un mondo che ne conosce sempre più nuovi. La responsabilità della Fiom è nella sua mancanza di immaginazione nell’ elaborare una strategia nuova di fronte al tentativo più radicale di espellerla dalla fabbrica. La responsabilità del partito di sinistra, o di centro-sinistra, è di non cogliere gli elementi paleo-capitalistici nelle pretese del nuovo gruppo dirigente della Fiat. Il paradosso di questa fase sta proprio nel fatto che la segreteria di Bersani che coraggiosamente e tempestivamente aveva messo nel suo temario la questione del lavoro oggi si trovi a dover fronteggiare l’accerchiamento dei marchionnisti e dei pan-sindacalisti. Non sappiamo come gli operai valuteranno l’accordo anche se appare probabile, ma non scontato, che la paura della fuga della Fiat dall’Italia li potrebbe spingere verso il sì. Sappiamo che un minuto dopo le questioni si presenteranno ancora nella loro ruvida pesantezza. Fin dove vorrà spingersi Marchionne per considerare normalizzata la sua fabbrica? E quali territori dovrà esplorare il conflitto operaio una volta che una parte importante del sindacato si troverà fuori dalla rappresentanza pur non essendo fuori dalla fabbrica? Un partito moderno non può sostituirsi al sindacato ma non può neppure fingere di non vedere che ciò che accade a Mirafiori ci parla dell’Italia e che la durezza di Marchionne nasce anche dalla cruda consapevolezza che il suo progetto è calato in un paese che ha perso la cultura industriale perché ha perso cultura politica. Finalmente possiamo parlare di cose serie. Marchionne e la Fiom nella loro unilateralità hanno messo il dito nella piaga.

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