MANI PULITE, LA RIVOLUZIONE CHE NON CAMBIO' L'ITALIA di Michele Brambilla da La Stampa del 16 febbraio 2012
20 marzo 2012
La sera del 17 febbraio 1992, quando nelle cronache dei giornali milanesi arrivò la notizia dell’arresto di Mario Chiesa, la prima sensazione fu quella di un falso allarme. Nessuno pensava che Chiesa potesse finire in manette. Era un uomo potentissimo. Presidente del Pio Albergo Trivulzio - che ogni milanese chiama «Baggina» e che è lo storico ospizio della città - gestiva patrimoni immensi, in gran parte frutto di donazioni. E poi era socialista. E il partito socialista, se in Italia era molto potente, a Milano era tutto.
Psi a Milano voleva dire la poltrona del sindaco quasi per diritto naturale; ma soprattutto voleva dire Bettino Craxi, il líder máximo non solo di un partito, ma di tutto un folto e influentissimo milieu di manager pubblici, imprenditori privati, giornalisti, uomini di cultura e di spettacolo. I socialisti a Milano, dopo aver governato, avevano finito con lo spadroneggiare, come spesso capita a chi ha successo da troppo tempo e arriva al punto di credersi invulnerabile. Craxi aveva l’ufficio in piazza Duomo e abitava in via Foppa in un condominio tutto sommato normale.
Ma il regno del Garofano era quella specie di Montmartre meneghina che è Brera: il bar Jamaica, il ristorante Matarel, la Pelota, l’ex Macondo. Giravano naturalmente anche belle ragazze, come Demetra Hampton, l’ex Valentina della tv, che si era legata con un assessore di qualche lustro più anziano di lei: quando si parlava dei socialisti, la cronaca politica si intrecciava con quella mondana. Giravano poi molte voci. Alcune erano senz’altro cattiverie generate dall’invidia. Ma altre erano sicuramente fondate, e tra queste c’era anche il fatto che nel Psi l’abitudine di chiedere tangenti - certo non nuova nel mondo della politica - era diventata una pretesa senza misura e senza vergogna.
La Procura di Milano aveva già avviato, negli anni precedenti, alcune inchieste: ma senza venire a capo di un granché. Di prove, ne saltavano fuori poche o punto. Di gente disposta a parlare, neppure l’ombra. Per questo sembrava impossibile, quella sera del 17 febbraio 1992, che avessero osato mettere in cella un intoccabile per definizione come Mario Chiesa. Bastarono tuttavia poche ore per capire che questa indagine - che i carabinieri, parlandosi in codice fra loro nelle comunicazioni via radio, avevano battezzato «Mani pulite» - era diversa dalle precedenti. Questa volta l’indagato era stato preso con le mani nel sacco. O meglio «nella marmellata», come disse il giorno dopo il pubblico ministero che l’aveva incastrato: Antonio Di Pietro.
Sul perché Mani pulite riuscì laddove non erano riuscite le inchieste precedenti, si sono sprecate molte teorie, naturalmente quasi tutte incentrate sul complotto, i poteri forti, gli intrighi internazionali eccetera. Ma comunque la si pensi non si può prescindere dalle straordinarie capacità investigative proprio di quest’uomo, voglio dire di Di Pietro. Molisano, ex segretario comunale di un paesino ed ex poliziotto, era arrivato alla Procura di Milano cinque anni prima. I colleghi pm lo avevano accolto con un certo snobismo: «un questurino», diceva qualcuno.
E poi questo Di Pietro aveva una strania mania: usava il computer. Strumento bizzarro, in uffici dove regnava ancora incontrastato - sui mobili, sulle scrivanie, negli scaffali - il classico «faldone», oggetto investito chissà perché di una sua sacralità burocratica, ma in realtà un obsoleto raccoglitore ottocentesco pieno di fogli, e spesso di scartoffie, che impegnava i magistrati in ricerche di ore e ore a conti fatti buttate via. Di Pietro, con i suoi videoterminali, immagazzinava nomi, cognomi, verbali, interrogatori: e poi incrociava tutto trovando informazioni, collegamenti, riscontri. Aveva cominciato a specializzarsi nella lotta alla corruzione, partendo da quella per così dire «piccola»: le mazzette sulle merendine nelle scuole comunali, quelle sull’acquisto delle maniglie dei pullman, quelle per comprarsi la patente di guida. Quando si celebrò il processo per le «patenti facili», con centinaia fra imputati e testimoni, il tribunale dovette prendere in prestito una maxi aula della Corte d’assise perché Di Pietro aveva bisogno di uno schermo gigante per proiettare e commentare i suoi dati sul computer. L’avvocato Peppino Prisco, probabilmente il primo a cogliere il côté cabarettistico della parlata di Di Pietro (quella del poi celeberrimo «che c’azzecca»), chiese se sullo schermo sarebbero apparse anche le didascalie per tradurre in italiano.
Ma per pittoresco che fosse, Di Pietro andava accumulando un immenso patrimonio di dati, di nomi e di fatti sulla corruzione a Milano. Fu questo patrimonio a permettergli di mettere le manette a un potente come Mario Chiesa senza il timore di sbattere il muso. Di Pietro s’era infatti imbattuto in un piccolo imprenditore di Monza, tale Luca Magni, che faceva le pulizie a una sede staccata della Baggina a Merate, in Brianza. Magni disse a Di Pietro che Chiesa, in cambio della commessa, gli aveva imposto una tangente. Partirono le intercettazioni telefoniche, i pedinamenti, e infine la trappola: imbottito di microfoni, seguito dai carabinieri e ignaro di compiere un gesto che sarebbe finito sui libri di storia, lo sconosciuto Magni andò a portare la mazzetta a Chiesa.
I carabinieri entrarono nell’ufficio di presidenza della Baggina quando il manager socialista aveva ancora in mano il malloppo: sette milioni di lire. Non si trovarono, invece, i soldi di un’altra stecca che secondo Di Pietro Chiesa aveva incassato subito prima di ricevere Magni: pochi milioni anche quelli. Lo sventurato, interrogato da Di Pietro, disse che, vedendosi scoperto, era riuscito a far sparire almeno quella prima mazzetta, gettandola nel water e tirando lo sciacquone. Questa leggenda è resistita a lungo. In realtà quei soldi non erano spariti: avvolti in un giornale, erano lì in bella vista sulla scrivania, ma i carabinieri non se n’erano accorti. «Li utilizzai - raccontò Chiesa dieci anni più tardi - per pagare l’anticipo al mio avvocato».
Con Chiesa in galera - e blindato da prove schiaccianti - scattò a livello prima milanese e poi nazionale la polemica sul già chiacchieratissimo Psi. Craxi provò a liquidarla dando del «mariuolo» al suo ex boiardo, cercando di farlo passare per una mela marcia in un partito virtuoso. Partì un delirio mediatico, con assalti di cronisti all’ufficio di Di Pietro, divenuto all’improvviso inavvicinabile. In realtà i cronisti giudiziari che lo conoscevano sapevano che Di Pietro aveva, oltre all’uso dei computer, un’altra caratteristica che lo distingueva dai colleghi: lavorava anche dopo le ore quattordici. Così il pomeriggio, nei corridoi deserti del palazzo di giustizia milanese, quando il grosso della truppa dei cronisti era sparita, i «giudiziaristi» andavano a bussare alla porta di Di Pietro e raccoglievano quel che si poteva raccogliere.
Ma l’inchiesta, dopo il botto iniziale, languiva. Pochi ricordano che per due mesi l’unico indagato di Mani Pulite è stato Mario Chiesa. C’era molta paura, nel toccare altri nomi grossi del Psi milanese. Solo dopo le elezioni politiche - che segnarono un crollo dei partiti tradizionali e una sorprendente avanzata della Lega - la Procura trovò la forza per andare avanti: così arrivarono gli avvisi di garanzia agli ex sindaci socialisti Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri (cognato di Craxi), poi gli arresti di manager pubblici e privati, e così via.
Una valanga che i partiti ebbero il torto di sottovalutare, convinti com’erano che la politica avrebbe presto ripreso in mano il pallino, e che tutto sarebbe finito come gli scandali precedenti: cioè nel nulla o quasi. I cronisti giudiziari si sentivano dire, dai loro colleghi che seguivano la politica: abbiamo parlato con tizio e con caio del Psi e della Dc, state attenti perché presto Di Pietro finirà a fare il vigile urbano e i partiti regoleranno i conti anche con voi. Ma i cronisti giudiziari vedevano una cosa che gli altri non vedevano: le code degli imprenditori che andavano da Di Pietro a confessare le corruzioni.
Al di là delle molte dietrologie, spesso cervellotiche, che si sono fatte sul perché Mani Pulite ha finito poi per spazzare via tutta una classe dirigente, ci sono questi due fatti: il popolo che alle urne ha voltato le spalle ai vecchi partiti e una classe imprenditoriale che era stufa di pagare il pizzo. Dopo quei primi mesi successe di tutto.
Arresti a raffica, dimissioni eccellenti, fughe all’estero, molti suicidi. La storia che seguì a quel 17 febbraio 1992 è troppo lunga e complessa per essere raccontata qui.
Di certo da quei sette milioni di lire una miseria già allora - trovati in mano a Mario Chiesa partì una slavina che ha seppellito la Prima Repubblica, favorendo la nascita di una seconda che non può dirsi migliore.
Fu una rivoluzione o un colpo di Stato? Una concatenazione naturale di eventi o una strategia studiata a tavolino? Un’inchiesta finalmente non bloccata dalla politica o una forzatura favorita da un clima popolare forcaiolo e moralista? Fu una guerra alla corruzione o al finanziamento dei partiti, e quindi ai partiti stessi? E perché il Pci-Pds fu di fatto risparmiato, mentre Dc e Psi vennero spazzati via? I giornali fecero bene ad appoggiare l’inchiesta o finirono con il diventare megafoni di una parte sola, la Procura? È ragionevole pensare che ci furono luci e ombre come in ogni altra vicenda umana; che ci furono eccessi nella caccia all’untore ma che davvero la corruzione era arrivata a un punto non più tollerabile. Purtroppo però ancora oggi a quella serie di domande che abbiamo elencato si risponde quasi sempre con lo stile del bipolarismo isterico che ha segnato i nostri ultimi vent’anni: si sceglie anzi si parteggia in modo tranchant per la prima o la seconda risposta, dividendo il mondo e la storia in vittime e colpevoli, in buoni e cattivi, in bianco e nero. E questa è - tra le tante eredità di quella stagione - una delle peggiori.