MANCO' IL COLPO D'ALA DEI MIGLIORISTI di Luigi Covatta, il Riformista 22 novembre 2007
07 dicembre 2007
Già Federico Fornaro ha spiegato perché non è il caso di prendere il lutto se con la costituzione del Partito democratico è finita «la storia della sinistra italiana», come aveva sostenuto Massimo L. Salvadori. La sinistra che è finita, infatti, come ci ha insegnato lo stesso Salvadori in tanti suoi saggi, è quella che dopo la prima guerra mondiale non capì il pericolo fascista, e dopo la seconda preferì aspettare Baffone invece di sfidare i moderati a una politica di riforme. È la sinistra, insomma, che a lungo si è crogiolata nel culto della felice «anomalia italiana», fino a perdere il senso della realtà quando, mentre il sistema sovietico implodeva, pretendeva addirittura di avere voce in capitolo per realizzare la riforma democratica dell'Urss. In questo senso, quindi, c'è da sperare che Salvadori abbia ragione, e che ad onta dei trascorsi dei soci fondatori il Pd non sia la continuazione con altri mezzi di vecchie politiche, come quella del compromesso storico. Salvadori mette anche in rilievo la contraddizione che esiste fra il macroscopico elemento di discontinuità da lui segnalato e la microscopica continuità degli apparati, deplorando che «a guidare la trasformazione dal Pci al Pd, dal comunismo al democraticismo, sia stato un ristretto gruppo di dirigenti sopravvissuto a tutte le mutazioni». Il rilievo non è del tutto esatto. Non c'è bisogno di giurare sulla celestiale armonia della procedura delle primarie o sulla geometrica potenza della simbologia del loft, infatti, per prendere atto che di quel gruppo erano parte importante non solo Achille Occhetto, ma anche, per esempio, Fabio Mussi e Gavino Angius, e che quindi i «compagni di scuola» per la prima volta si sono divisi su diverse opzioni politiche. Mentre è evidentemente esatto l'altro rilievo, quello relativo al mancato approdo socialdemocratico di D'Alema, Veltroni e Fassino, dei cui falsi movimenti Salvadori fornisce l'elenco preciso e puntuale, concedendo però, se non a loro ai loro predecessori, l'attenuante costituita «dal nessun fascino del partito craxiano». Per la verità ancora nel 1992 qualche fascino nel «partito craxiano» un comunista tosto come Antonello Trombadori riusciva a coglierlo, tanto da proporsi di pubblicizzare la sua intenzione di votare per il Psi (non lo fece solo per rispetto di Paolo Bufalini), afferrandosi a «più di un secolo di lotta per il socialismo» (mentre invece «c'è chi spinge in tutt'altra direzione, per esempio alla scuola di Pannella»), se non altro per «non dover gettare a mare tutto» della sua storia personale. Su questo tema Trombadori aveva già polemizzato coi suoi compagni miglioristi, fin da quando, nell'ultimo congresso del Pci, essi avevano rinunciato a dare battaglia per ottenere l'approdo dei postcomunisti nella famiglia del socialismo europeo. «Dev'esser vero che non ho mai capito un'acca di politica», annotava allora per giustificare la scelta di quelli che invece di politica capivano, e che perciò, piuttosto che finire in minoranza, si convinsero che all'inevitabile approdo socialdemocratico il nuovo partito sarebbe comunque arrivato, come poi in effetti fu. Ma resta da stabilire se quella scelta fu davvero lungimirante alla luce delle circostanze in cui poi, nel 1992, si realizzò l'adesione del Pds all'Internazionale socialista. Prevalse allora, fra i miglioristi, la preoccupazione unitaria.
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