MA LE NORME COMUNITARIE SONO VERAMENTE VINCOLANTI? di Francesco Bochicchio
27 settembre 2019
L’insigne amministrativista e costituzionalista, ex Giudice Costituzionale, e molto vicino alla componente moderata, liberista ed acriticamente europeista del Pd (ancora dopo lo scisma renziano?) Sabino Cassese, dopo molti uscite indignate contro gli anti-europeisti, ed addirittura contro gli europeisti critici e quelli scettici, deve proprio aver perso la pazienza per ammonire, con grande severità, chi vuole non allinearsi agli indirizzi europei, ricordando che le norme europee (ed a monte le fonti normative europee) che sono vincolanti per gli Stati aderenti, i quali devono eseguirle, attuarle ed adeguare a esse la normativa interna, con le norme interne in contrasto con essa che diventano “iposo jure” illegittime.
Di fronte a cotanta perentorietà, manifestata da cotanto luminare, chiunque non può che arretrare sgomento e pronto ad alzare le mani in segno di resa.
Passato lo sgomento, esce fuori lo sconcerto: ma perché uno dei massimi luminari in materia spreca il proprio tempo prezioso, impegnando le pagine del più importante giornale italiano, per affermazioni così ovvie?
Le norme europee sono collocante su un piano superiore a quello delle nome interne: altrimenti non avrebbe avuto alcuno senso l’adesione all’Europa.
E’ pertanto evidente che lo scopo vero dell’articolo trascende il suo contenuto.
Non rientra nelle corde vocali dello scrivente fare il processo alle intenzioni.
Pertanto, è bene ricordare altre ovvietà singolarmente trascurate da Cassese.
Innanzitutto, le norme europee non possono violare la Costituzione italiana: ogni norma della Costituzione italiana è suscettibile di interpretazione piena senza indebolirsi in alcun modo rispetto alle norme europee che non sono suscettibili di espansività.
Se qualcuno ha la tentazione di nutrire l’opinione contraria è bene che se ne liberi in quanto insana. La nostra Costituzione è c.d. “rigida”, non può essere modificata, e quindi nemmeno violata, da norme ordinarie: ciò a maggior ragione se le norme ordinarie sono di un ordinamento sovranazionale cui si è aderito. Per sostenere il contrario, si dovrebbe avere l’ardire di arguire (il gioco di parole è, non casuale, ma … “causale”) che l’adesione all’Europa abbia comportato un automatismo di ricezione di tutte le norme europee, ma una tesi siffatta non meriterebbe commento.
In ulteriore battuta, nemmeno le fonti costituzionali europee possono violare la Costituzione italiana: si è aderito all’Europa come “Italia”, vale a dire mantenendo le proprie caratteristiche ed il proprio assetto istituzionale, al cui apice vi è proprio la Costituzione.
In via squisitamente normativa, la Costituzione prevede all’art. 11 “limitazioni di sovranità” e non una cessione od un sacrificio di natura totale: la rinunzia a decidere il proprio assetto istituzionale è non una limitazione di sovranità, ma una rinunzia totale alla sovranità, questa che costituisce l’elemento caratterizzante, in via indefettibile, qualsivoglia Stato ed Ente sovranazionale: “Suprema potestas superiorem non recognescens”.
L’opinione contraria sarebbe ammissibile solo l’adesione all’Europa si fosse tradotta nell’estinzione dei singoli Stati aderenti, il che è pacificamente mancato.
Per inciso, l’impostazione rigoristica di Cassese acquisisce un senso concreto per scoraggiare il nostro Paese dall’avvalersi degli spazi di autonomia che l’Europa riconosce agli Stati aderenti nel recepire le norme europee. Si vuole imporre al nostro Paese un primato di europeismo, del tutto fuori luogo visto il trattamento che l’Europa impone ad esso, su cui v. “infra”.
Chiuso l’inciso, il discorso finisce qui, o meglio finirebbe qui in condizioni normali, ma non siamo, purtroppo, in condizioni normali.
L’adesione all’ Europa si è realizzata in palese ed eclatante violazione dell’art. 11 della Costituzione che ammette le sopra menzionate limitazioni della sovranità, non solo se “in condizioni di parità con gli altri Stati”, ma solo se dette limitazioni sono “necessarie ad un ordinamento che assicuri pace e giustizia tra le Nazioni”.
La norma, sintetica ed ellittica non può certamente significare che la necessità in questione sia fissata per un ordinamento che assicuri pace e giustizia tra le Nazioni “tout court”, dovendosi invece intendere esclusivamente per un ordinamento che assicuri pace e giustizia in via (e, perché no, anche in misura) superiore a quelle in essere in assenza di adesione. Altrimenti, la limitazione sarebbe senza corrispettivo e sarebbe così del tutto ingiustificata ed inammissibile.
Ebbene, è già azzardato sostenere che l’Europa, quale entità sovranazionale, sia necessaria per la pace: non lo è certamente di più di meri accordi non limitativi della sovranità interna.
Poi, se uno Stato decidesse di uscire dall’Europa, non vi sarebbero strumenti adeguati per bloccarne iniziative belliciste.
Allora, per sostenere detta tesi, si sarebbe dovuto arrivare all’estinzione dei singoli Stati, il che non è avvenuto assolutamente.
Né si può sostenere che l’attuale Europa è solo un gradino intermedio verso l’obiettivo finale costituito dalla nascita di un vero superiore Stato, tipo gli Stati Uniti d’Europa. L’obiettivo finale potrebbe al limite anche essere legittimo –ma sull’argomento si tornerà “infra”-, previa abrogazione della nostra Costituzione con le modalità da essa previste (art. 138), in mancanza della quale abrogazione sarebbe non un’adesione, ma un’annessione, manifestamente del tutto illecita.
Il passaggio intermedio è in ogni caso del tutto inammissibile in mancanza di modifica all’art. 11: ma le conclusioni non cambierebbero nemmeno se vi fosse stata siffatta modifica, inammissibile visto si tratterebbe di una surrettizia rinunzia alla sovranità, con la quale lo Stato si auto-estinguerebbe.
Ebbene, una tesi del genere non è nemmeno prospettabile per la giustizia tra Nazioni, in quanto l’impianto istituzionale dell’Europa non è assolutamente indirizzato in tal senso, essendo al contrario basato sulla discriminazione tra Paesi forti e Paesi deboli e sul dominio dei primi sui secondi (come addirittura statuito nel recente accordo di Aquisgrana -che non a caso richiama il Sacro Romano Impero- tra Germania e Francia; lo scrivente non ricorda manifestazione di indignazione al riguardo da parte di Cassese). I secondi sono stati addirittura espropriati della loro politica economica, ed in materia di debito pubblico e bancaria, per cui ci si trova di fronte ad un vero e proprio sacrificio della sovranità. Né si può sostenere che non è l’impianto istituzionale e costituzionale dell’Europa ad essere illecito, mentre la natura illecita si manifesta a livello attuativo: ed infatti, poiché gli abusi sono gravi, continuativi e diffusi, nonché consolidati e tali da aver trasformato radicalmente l’Europa, è ovvio che l’impianto stesso non è assolutamente in grado di “assicurare giustizia tra le Nazioni”, potendo al limite rivelarsi al riguardo solo neutro. La violazione dell’art. 11 è in ogni caso palese. Sul perché tale violazione sia passata ed in modo indolore si rimanda ad altra sede sui profili di tenuta costituzionale in genere.
Per completezza, l’art.11 non può non richiedere anche “giustizia all’interno delle Nazioni”, in conformità agli altri principi (e valori) fondamentali della Costituzione, il che è violato dall’assetto palesemente ed in modo estremo liberista dell’Europa, che ha comportato la dilatazione abnorme nella distribuzione della ricchezza: dalla ricerca rigorosa della giustizia sociale –art. 41,2° e 3° comma, art. 4 e soprattutto art. 3,2° comma- all’esaltazione dell’ingiustizia.
Che l’adesione all’Europa da parte nostra sia stata anticostituzionale non può certamente essere utilizzato quale elemento di sanatoria, inammissibile in materia costituzionale.
Ma non basta ancora: l’art. 11, come si è visto, prescrive che le limitazioni alla sovranità in tanto siano ammissibili solo in quanto siano in condizioni paritarie con gli altri Stati, il che è assolutamente violato nell’assetto dell’Europa, che si basa proprio sul dominio degli Stati forti su quelli deboli.
In definitiva, le norme europee sono vincolanti nel nostro ordinamento interno purché non siano in contrasto con la Costituzione italiana.
Ebbene, tale contrasto è pressoché generalizzato, con scarso margine di ammissibilità, anche in considerazione della circostanza che tale contrasto investe anche le norme costituzionali e fondative europee e che la stessa ammissione dell’Italia all’Europa è incostituzionale.
Lo spazio di concreta operatività del principio della natura vincolante delle norme comunitarie nell’ordinamento interno è pertanto assai ristretto.
La presa di posizione di Cassese è, evidentemente, forte, potente ed addirittura irresistibile, ma sterile.
L’unico tentativo di renderlo provvista di senso è quello di superare le censure di incostituzionalità alla luce che l’accoglimento delle stesse comporterebbe, come esito inevitabile, l’uscita dall’Europa. Il superamento delle censure verrebbe così superato in via non di sanatoria, come detto inammissibile, il che rende impossibile ogni salvataggio di natura giuridica e costituzionale, ma di realismo politico per impedire un nostro isolamento, esiziale, vista la nostra debolezza.
Il superamento in via politica non risolve peraltro la questione, essendo anch’esso inammissibile, visto che la politica non può violare la Costituzione.
Né si rivelerebbe più proficuo il ricorso allo stato di necessità e conseguentemente allo stato di eccezione per giustificare, in nome della salvaguardia dell’Italia derivante dalla sua appartenenza ad una entità sovranazionale forte, strappi così profondi alla legalità costituzionale. Anche ad ammettere che lo stato di eccezione consenta tale strappo, il che viene radicalmente negato dallo scrivente, lo stesso stato di eccezione non ricorre nemmeno, in quanto l’appartenenza dell’Italia all’Europa si realizza in un contesto di sopraffazione che viola l’essenza dello Stato e configura uno scenario non comunitario ma imperialistico.
Da Maestri del livello di Cassese ci si deve aspettare una presa di posizione che non si fermi a conclamazioni sterili, suscettibili di essere rivitalizzate da atteggiamenti in via pretesa realistici bensì in realtà eversivi, ma si richiami al realismo, in un’ottica del tutto opposta, per prospettare decisioni da assumere in sede giudiziaria costituzionale che sanciscano l’incostituzionalità dell’appartenenza dell’Italia all’Europa, ammettendo peraltro nel contempo un periodo transitorio ragionevole –del tutto ammissibile per evitare situazioni traumatiche-, da sei mesi ad un anno, perché l’Europa rimuova i vizi normativi.
Scelgano gli insigni giuristi alla Cassese tra sterilità rimossa solo da un “vulnus” al cuore della Costituzione da un lato e dall’altro legalità costituzionale ed in particolare preparino il terreno per un realismo che consenta alla legalità costituzionale di superare gli ostacoli politici e non per un realismo che consenta alla forza politica bruta di abbattere la legalità costituzionale.
Il discorso non sarebbe completo se non si affrontasse l’impostazione qui avversata da un punto di vista apparentemente più dimesso che si limiti, non a sostenere l’ammissibilità delle censure di incostituzionalità, ma le giustifichi evidenziando che l’incostituzionalità è resa necessaria dalla circostanza che le norme costituzionali hanno portato l’Italia sul baratro: tale ipotesi in prima battuta pone l’alternativa tra illegalità e rovina, mentre in una ulteriore, più raffinata, pone la necessità di superare dall’interno la Costituzione mediante modifica per preparare così la strada alla legalizzazione
Due sono i profili eclatanti.
In primo luogo, come già visto, vi è stata l’espropriazione della politica economica, della politica del debito pubblico e di quella bancaria. Ebbene, si è sostenuto che ciò dipende dall’abnorme livello del debito pubblico e dall’incapacità dell’Italia di ridurlo e di gestirlo in autonomia: ben venga così il vincolo esterno, che si è tentato di aiutare con modifiche all’art. 81 Cost., al fine di introdurre il pareggio di bilancio –queste non solo discutibili, visto che non escludono dal pareggio se non timidamente le spese per investimenti, ma anche dalla dubbia efficacia, visto che l’Italia presenta un avanzo primario e che il suo debito è esclusivamente per interessi-.
E’ da replicare che alti debiti pubblici sono stati -e sono tuttora- gestiti con efficaci politiche economiche pubbliche, il ricorso alle quali è stato rifiutato dall’Italia già dall’81 con lo scellerato divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, che ha impedito allo Stato di avere un efficace ombrello a protezione dei propri conti pubblici. Lo Stato è dovuto quindi ricorrere alle aste pubbliche per sostenere il proprio debito: non solo il debito, invece di essere controllato –si sperava che ciò si realizzasse per magia per il solo venir meno di facili coperture, in omaggio alla leggenda “reaganiana”, secondo cui occorreva “affamare la bestia-, è esploso in maniera abnorme: ma anche le aste pubbliche sono finite in mano alle grandi banche d’affari internazionali che man mano hanno invaso la politica economica pubblica, ed inquinato il nostro mercato finanziario con prodotti rovinosi. Per completare l’opera, con la demenziale normativa europea “bail-in” si sono limitati e quasi eliminati i salvataggi bancari in qualche modo pubblici, completando la colonizzazione estera del sistema bancario italiano. E’ da notare che tale demenziale normativa è stata attuata solo per i Paesi deboli e non per i Paesi forti: in sede comunitaria e da parte della Germania –che non a caso è adesso alla prese con la terrificante crisi della grande “Deutsche Bank- si è evidenziato che ciò è del tutto giustificato perché solo gli Stati con conti pubblici floridi potrebbero salvare a proprie spese le banche interne. Si trascura così che, impedendo a Stati deboli di mantenere un settore bancario solido, li si pone in condizione di essere impossibilitate ad uscire dal loro stato di debolezza. Perché Cassese non si si indigna per questa concezione, quanto meno singolare, dello spirito unitario europeo?
In secondo luogo, da tempo si criticano le norme costituzionali che danno una forte impronta sociale all’assetto dell’economia, in particolare l’art. 41 che al 2° ed al 3° comma prevede rispettivamente limiti sociali all’iniziativa economica privata –in ogni caso solennemente riconosciuta al 1° comma- e la programmazione economica pubblica.
Ed infatti, tali norme sarebbero in contrasto con le dinamiche della globalizzazione e con l’assetto economico e con la relativa disciplina a livello europeo, sottostante alla quale vi èla relativa normativa conforme al liberismo dei principali Paesi europei: pertanto dovrebbero essere abrogate –e l’allora Ministro Tremonti dell’ultimo Governo Berlusconi fece un tentativo in tal senso-. In ogni caso tali norme sarebbero superate ed oggetto di auto-esaurimento.
In tal modo si utilizza l’Europa per giustificare l’incisione su norme costituzionali fondamentali, insuscettibili di modifiche incisive in quanto emanate a specificazione e ad attuazione dei “Principi Fondamentali (artt.1-12, in particolare art 3,2° comma ed art. 4, ma anche artt. 3-4). E’ un utilizzo del tutto inammissibile.
L’innesto su detta impostazione di realismo in virtù del ricorso alla globalizzazione che renderebbe anacronistiche tali norme è pretestuoso vista la rovinosità cui ha condotto il capitale finanziario, vero “deus ex machina” della globalizzazione e delle collegate de-materializzazione e de-localizzazione. Che il problema sia non solo di natura sociale ma anche di efficienza economica è dimostrato dalla circostanza che l’offensiva qui criticata ha investito, oltre alle norme testé citate anche l’art. 47 con la tutela del risparmio sacrificata sia dal dominio incontrastato della speculazione rovinosa, i cui derivati abnormi non vengono sanzionati sia dalla citata normativa “bail in” che per la prima volta sacrifica il risparmio in depositi bancari. La natura rovinosa del capitale finanziario non si è fermata a distruggere i valori sociali, avendo investito anche l’efficienza economica, buttata alle ortiche: esso è non solo anti-sociale, ma anche anti-economico. Ecco cosa tutelano i prodi difensori dell’Europa.
Una volta acquisita consapevolezza dell’inammissibilità di un intervento costituzionale diretto sulle norme costituzionali di cui ai due punti, si è tentata la strada della modifica delle norme costituzionali relative all’assetto dello Stato in modo da consentire accentramento assoluto o quasi dei poteri –come candidamente e non a caso auspicato da JP Morgan, una delle più grandi banche d’affari americane ed internazionali-, in modo da rendere irreversibile il depotenziamento delle norme costituzionali di natura sociale. Questi tentativi, da Berlusconi a Renzi sono per fortuna falliti ed è difficile che siano ripetuti.
Per concludere, è bene accettare la sfida dell’impostazione generale qui criticata: la sacralità dell’Europa, con le relative forzature restare sul piano costituzionale, deve fare i conti con il fallimento dell’Europa stessa. Il rifiuto di ogni autocritica non può che favorire la netta e cieca opposizione dei nazionalismi sovranisti, con il rischio di una dissoluzione della stessa Europa ad opera di avversari ancora peggiori degli europeisti. L’attacco alla legalità costituzionale degli Stati deboli può fornire un’arma a detti avversari dell’Europa per abusi in caso di vittoria.
Ai luminari come Cassese si può –e si deve- chiedere di battersi per la piena ed assoluta tutela della legalità costituzionale interna: da questa può derivare lo stimolo per una autocritica che conduca ad una profonda revisione con abbandono di molti degli aspetti qui stigmatizzati. Questa probabilmente non disinnescherà la protesta ma potrebbe favorire opposizioni più costruttive e foriere di minori rischi di autoritarismo.
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