LO SCONTRO NEL PD di Paolo Bagnoli da critica liberale novembre 2016
08 novembre 2016
In un crescendo che non ha niente a che vedere con quelli rossiniani la polemica nel Pd si fa sempre più al calor bianco. Quanto viene spacciato per un dibattito sulla sostanza referendaria è, in effetti, un’aspra prova muscolare fatta – caso di una gravità inaudita – sulla pelle della Costituzione della Repubblica. Ognuno spara quello che crede e già ciò dà la dimostrazione della baraonda nella quale il presidente del consiglio ha portato il Paese. Quello che, tuttavia, ci sembra più grave, è come la storia dei costi della politica si stia progressivamente trasformando in un forsennato attacco al Parlamento e alla sua funzione poiché nessuno vuole apparire come “casta”. Assistiamo, cioè, allo spettacolo – si fa per dire – di una classe politica che infierisce sui luoghi della rappresentanza ai quali per qualcuno, tramite la riforma che va a referendum, si verrebbe a restituire dignità. Il risultato è che l’antiparlamentarismo prende sempre più campo e, se si legge bene il progetto dei pentastellati, ossia di un’ improbabile democrazia diretta tramite la rete, si vede cosa vi è nascosto nel remoto: che del Parlamento si può fare, in fin dei conti, anche a meno. Altro che casta: siamo praticamente all’anticamera del suicidio della democrazia. Evidentemente viene a raccolto quanto si è, a più mani, seminato. Ecco l’esito della transizione irrisolta; un lungo tormentato percorso irrisolto per vuoto di politica via via sempre più squassato dal populismo antisistema, aggravato dall’esperienza del Pd, e da cui si ritiene di venir fuori a spese della Costituzione che va cambiata soprattutto per limitare i costi della politica. È chiaro che l’esito del referendum, se vi è ancora una qualche riserva di razionalità politica, deciderà le sorti del Pd e del suo presidente-segretario. Pd, Renzi e nuova Costituzione vengono infatti giocati tutti insieme: simul stabunt,simul cadunt! Arrivati a questo punto, nel disperato – e permetteteci di dire pure un po’ grottesco – tentativo di salvare in ogni modo il Pd, Pier Luigi Bersani, che non è certo un cuor di leone, è arrivato a dire che il Pd di Renzi è finito e che il prossimo segretario invece che con le primarie deve essere scelto dagli iscritti. Diamo atto, una volta tanto, a Bersani di aver parlato fuor di metafora e di aver detto una cosa ragionevole. Una posizione che ha punto nel vivo il gruppo dirigente del partito se il presidente dei democratici, Matteo Orfini, non ha perso 054 07 novembre 2016 5 tempo a dichiarare che: «Sarebbe un errore rinunciare alle primarie per la scelta del segretario». L’affondo bersaniano sul congresso è stato forte, come lo è talvolta la verità. Vedremo se Bersani e i suoi riusciranno a far cambiare lo Statuto interno, ma ciò presuppone l’apertura di un’ampia e sincera discussione. È quanto Renzi non vuole poiché essa, inevitabilmente, non potrebbe prescindere dal giudicare il suo operato per cui è molto probabile, anzi praticamente certo, che tale porta rimarrà sbarrata e rigettando su Bersani una questione che si è fatto finta di non vedere: vale a dire, quella dell’identità e della strategia del partito. Qui emerge il nodo d’insufficienza della posizione di Bersani che ha in mente un’idea sola: far rinascere il centro-sinistra; pensiamo quello del modello Prodi. L’identità del partito – tema peraltro assente – si collega e si annulla in tale dimensione: un partito di centrosinistra per rifare il centro-sinistra. La proposta, in vero, appare assai debole poiché le vicende in atto ci dicono che, comunque vada a finire lo scontro sulla Costituzione, il Pd – Renzi o non Renzi – è finito. Infatti, se questi vince già Verdini ha annunciato quale sarà la sua evoluzione; se perde il contenitore – poiché di ciò si tratta e non di un partito propriamente detto - è destinato a frantumarsi. Il fatto, poi, che Bersani continui a dire che lui, accada quel che accada, non lascerà mai il partito, non è una posizione politica. Il Paese sta per ricadere nella sua storica difficoltà di non partorire alternative. Durante la prima Repubblica si imputava la rigidità del sistema al fatto che il Pci non era utilizzabile per i suoi legami con la Russia sovietica; quando il Pci è scomparso, è nato il bipolarismo di coalizione, è nato il Pd, ma sia il prodismo che il berlusconismo hanno fallito se pur vi sia stata alternanza di governo. Oggi siamo di fronte al possibile caudillismo partorito dalla convergenza parallela tra riforma costituzionale e legge elettorale. Se il disegno si avverasse non saremmo alla terza repubblica, ma a un’altra Repubblica reggentesi su un sistema di democrazia verticale. Giriamola come vogliamo, la verità è che siamo all’emergenza democratica, ma di ciò non riscontriamo segni ovunque ci voltiamo a guardare. Niente di niente, ma tanto ed esclusivamente tanto di costi della politica.
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