L'ITALIA E L'AUSTERITÀ CHE NON C'È di Lino Terlizzi
02 giugno 2018
A differenza di quanto viene spesso detto, non c’è stata una politica di
profondo riassetto dei conti pubblici.
Un’ampia parte del maxidebito accumulato risale all’epoca della lira e non è
collegata all’entrata nell’euro.
Una tesi ormai diffusa è che l’economia italiana sia stata rovinata
dall’austerità (è la parola che circola, anche se sarebbe meglio dire rigore,
più completo e di lungo periodo). Ma è davvero così? Dati e i fatti dicono
altro. In realtà si tratta della stessa, ripetitiva tesi adottata anche per
altri Paesi, che sono entrati in difficoltà semmai per il contrario, cioè per
non aver applicato dosi ragionevoli di austerità-rigore.
Fiumi di parole ci sono stati per la Grecia, salvo poi scoprire che il Governo
ellenico anti-austerità stava facendo marcia indietro. Il Portogallo sembrava
avviato verso una linea anti-rigore e in realtà ha fatto l’opposto, riportando
alcuni successi. Spagna e Irlanda non hanno nemmeno iniziato la battaglia
anti-rigore ed hanno avuto miglioramenti. Questi riapprodi all’austerità ci
sono stati solo a causa dell’euro e dei mercati? È lecito dubitare che questa
sia la sola ragione. Se non tutti, almeno molti nelle varie capitali europee
sanno ancora far di conto. E alcune misure bisogna prenderle non tanto e
soltanto per l’UE o la moneta unica, ma perché sono necessarie per il proprio
Paese.
Ma restiamo all’Italia, Paese di peso e tra i fondatori dell’UE. Secondo i
sostenitori delle maxispese pubbliche, l’austerità sarebbe non solo la causa
della scarsa crescita economica nella Penisola, ma addirittura avrebbe
provocato un aumento del debito pubblico italiano. Un singolare rovesciamento
della realtà, che potrebbe anche essere divertente se non fosse che l’Italia
rischia ora nuovamente di avvicinarsi al burrone, considerando il riacutizzarsi
delle incertezze politiche.
Questo tipo di affermazioni anti-austerità incorrono in un duplice errore.
Anzitutto, non è vero che quando c’è più spesa pubblica ci sia sempre più
crescita. Se fosse così, allora i Paesi più indebitati dovrebbero essere anche
quelli che crescono di più. Il Giappone è indebitatissimo e da tempo non ha
crescite brillanti. Gli USA non hanno avuto i loro momenti migliori in
occasione delle risalite del debito. E così altri. È semmai vero il contrario,
cioè i Paesi meno indebitati sono quelli che nel lungo periodo hanno una
crescita più solida, basti pensare alla Svizzera, alla Germania, ad altri Paesi
del Nord Europa.
Poi, nel caso specifico dell’Italia l’austerità-rigore si è vista/o molto meno
di quanto spesso venga detto. Ci sono molti dati che lo dimostrano, per sintesi
si possono prendere quelli del Fondo monetario internazionale per il 2010-2017.
Nel 2010 le conseguenze della crisi finanziaria 20082009 si sono fatte sentire
parecchio sui bilanci pubblici. In Europa la crisi dei debiti ha inciso almeno
sino al 2014, poi è iniziato il miglioramento. Nell’Eurozona il debito
pubblico/PIL era nel 2010 all’83,8%, è salito sino al 91,8% del 2014 e poi è
sceso sino all’86,6% del 2017. Ecco come è andata in Italia: 115,4% nel 2010,
131,8% nel 2014, 131,5% nel 2017. Già qui è evidente la differenza: il debito
pubblico italiano in pratica non è sceso negli ultimi quattro anni. E non è
sceso non solo in rapporto al PIL, ma anche in cifra assoluta. Vediamo anche il
deficit pubblico/PIL. Nell’Eurozona era al 6,2% nel 2010, al 2,6% nel 2014,
allo 0,9% nel 2017. In
Italia era al 4,2% nel 2010, al 3% nel 2014, all’1,9% nel 2017. Il deficit è
stato ridotto in Italia, ma molto meno di quanto sia stato ridotto nel
complesso dell’Eurozona. Partita da condizioni migliori rispetto alla media
dell’area euro, l’Italia ha poi perso velocità nella manovra e alla fine del
2017 si è ritrovata con un deficit superiore a quello dell’Eurozona. Il
rapporto spesa pubblica/PIL conferma d’altronde l’andamento lento
dell’austerità in Italia. Nell’Eurozona questo rapporto era al 50,5% nel 2010,
al 49,2% nel 2014, al 47,1% nel 2017. In Italia era al 49,9% nel 2010, al 50,9%
nel 2014, al 48,6% nel 2017. Come si vede, anche su questo versante c’è stata
una riduzione inferiore a quella dell’area euro.
La crescita economica italiana è stata in ognuno degli otto anni considerati
inferiore alla media dell’Eurozona. Per la cronaca: 1,7% contro 2,1% nel 2010;
0,1% contro 1,3% nel 2014; 1,5% contro 2,3% nel 2017. Il circolo vizioso
debito-crescita insufficiente evidentemente non si spezza con una spesa
pubblica elevata, bensì con tagli alla spesa pubblica improduttiva che
consentano di ridurre debito e deficit e che liberino risorse per la crescita.
Secondo i dati del ministero dell’Economia, l’Italia ha pagato 83 miliardi di
euro di interessi sul debito nel 2012 e prevedeva sino a gennaio di pagarne
circa 63 miliardi nel 2018 (bisognerà ora vedere l’evoluzione politica e dello
spread sui mercati). Nonostante la riduzione dell’onere – consentita dai tassi
ai minimi e dagli acquisti della BCE, entrambi fattori destinati a cessare – si
tratta di cifre ancora troppo grandi. Tutte cose che sa bene Carlo Cottarelli,
ex FMI ed ex responsabile spending review, contattato dal presidente Mattarella
come eventuale premier tecnico. Si può essere d’accordo o no con la scelta di
Mattarella di bloccare la nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia nel
Governo Lega- 5 Stelle. Ma, al di là di questo, due fatti sono chiari: sin qui
non si è vista la copertura finanziaria del combinato flat tax (Lega) – reddito
di cittadinanza (5 Stelle) e senza altri elementi un aumento del debito e una
collisione con l’Eurozona (con vantaggi per chi?) sarebbero inevitabili;
inoltre, se un Governo punta ad una discutibile uscita dall’euro almeno deve
dirlo, altrimenti non c’è chiarezza né per gli elettori né per i mercati (ecco
i cali di Borsa e l’aumento dello spread sui titoli pubblici italiani).
Cottarelli ha una sua ricetta anti-debito (vedi intervista al Corriere del
Ticino del 7 aprile e intervento a Ticinomoda del 22 maggio), basata sul
portare l’avanzo primario, cioè il saldo senza gli interessi, dall’attuale
circa 2% al 3,5%-4%; supponendo una crescita economica attorno all’1,5%, le
entrate dovrebbero lievemente aumentare; la spesa pubblica reale dovrebbe
essere congelata per almeno tre anni; se ci fossero riduzioni della tassazione,
la spesa dovrebbe però essere tagliata. Si vedrà cosa il nuovo Governo farà.
Resta il quadro di un Paese che sin qui non ha trovato la rotta adeguata. Una
parte del Paese se la prende con l’euro, scordando che un’ampia fetta del
debito è stata accumulata con la lira (nel 1999 il debito/PIL era già al 109%).
Sempre per via della mancanza di sufficiente rigore.