L'INTRODUZIONE DI UGO INTINI AL CONVEGNO "DALLE RIFORME ALLE RIFORME. IL FUTURO DELLA STORIA"

18 febbraio 2010

L'INTRODUZIONE DI UGO INTINI AL CONVEGNO

Oggi leggerò. Per l’emozione che mi provoca il tema di Craxi. E anche per misurare le parole. Per una esigenza di equilibrio. Perchè tutti ormai dobbiamo fare un grande sforzo di moderazione, per ricostruire una storia condivisa dell’Italia. Diciamo la verità. L’Italia è l’unico grande Paese che non ha una storia condivisa. Non ha mai rimarginato la ferita della guerra civile 1943-45. Lo shock di Mani Pulite,e della caduta della prima Repubblica, si ripropone in continuo,come è accaduto in questi giorni con la polemica su Craxi. La divisione è andata estendendosi addirittura alle radici dello Stato nazionale, perché la Lega contesta lo stesso Risorgimento e l’unità d’Italia. Ogni passaggio cruciale della nostra storia costituisce ormai un trauma irrisolto,trasformando la vita politica in una guerra civile strisciante. Alimentata da chi, per mancanza di idee e di cultura politica, vive soltanto su di essa. Questa guerra civile deve finire, perché non c’è futuro senza una radice comune, senza il supporto di un passato unificante e condiviso. E’ il tema del mio ultimo libro.
Partendo dunque dalle radici, quelle di Craxi hanno sempre guidato tutta la sua vita politica. Il padre fu un capo della Resistenza,vice prefetto dopo la Liberazione a Milano,fedelissimo di Pietro Nenni e del suo socialismo autonomista. Fedelissimo esattamente come Craxi,che seguì Nenni nella buona e nella cattiva sorte. Ricambiato da altrettanto affetto. In una notte del dicembre 1979, mentre il segretario Craxi rischiava di essere messo in minoranza dalla direzione del PSI, nel pieno di un attacco mediatico e scandalistico al quale ne sarebbero seguiti molti altri,Nenni, ormai vecchio, andò stremato a dormire. Ma prima di sparire nell’ascensore gli disse: ”ricordati, se hai bisogno del mio voto chiamami a qualunque ora e torno”. Furono le sue ultime parole in pubblico. Perché morì a casa sua pochi giorni dopo. Questa foto ha un valore profondo.
Appena diventato segretario del partito, Craxi innanzitutto pose le basi teoriche del nuovo corso. Ruppe clamorosamente nel 1978 con l’ideologia marxista leninista in nome non solo di un socialismo democratico, ma di un socialismo liberale, aperto ai principi del libero mercato e dell’efficienza.
Questa idea di socialismo liberale, che i socialisti italiani sostennero persino prima degli altri, influenzò profondamente i compagni spagnoli e portoghesi, da poco ritornati alla libertà, e in grado di leggere l’italiano.
Era un socialista liberale, Craxi. Ma non liberista. Distantissimo dalla nuova ideologia thatcheriana e reaganiana del libero mercato assoluto, senza freni,che avrebbe portato all’attuale disastro economico mondiale. E che una sinistra ex comunista e neofita dell’Occidente ha accettato in Italia senza spirito critico.
Il nuovo corso socialista sfidò l’egemonia culturale comunista (consolidata negli anni ’70) con una grande battaglia delle idee. Trasformando Mondoperaio e l’Avanti! in laboratori culturali. Portando per la prima volta nella Assemblea Nazionale socialista,accanto agli uomini di partito, intellettuali e tecnici: da Franco Rosi a Lina Wertmuller, da Sergio Zavoli a Mario Soldati,da Francesco Alberoni a Paolo Portoghesi, da Umberto Veronesi ai tecnici condotti poi a fare i ministri, come Antonio Ruberti, o Renato Ruggero.
Per i maestri di Craxi, prima della politica veniva l’elaborazione culturale. E prima veniva, soprattutto per Nenni, il contesto internazionale.
Quando il termine socialdemocratico suonava ancora come una eresia nella sinistra (e non soltanto nel PCI), Craxi ancorò innanzitutto saldamente il PSI all’Internazionale socialista e al socialismo europeo, diventandone uno dei leader riconosciuti. Con Brandt, Schmidt, Palme, Mitterrand, Gonzales, Soares. Tutti insieme ebbero un ruolo decisivo nel porre le basi dell’attuale Unione europea. Craxi ebbe personalmente, come presidente di turno,l’opportunità di lasciare una impronta nella storia. Nel 1985, quando, al vertice di Milano, isolando la euroscettica Thatcher, impose il voto a maggioranza per passare al Mercato Unico.
Una forzatura coraggiosa che però i conservatori britannici e i loro giornali, a cominciare dall’Economist, non gli hanno mai perdonato. Un passo decisivo verso la realizzazione di un sogno che fu di quanti passarono alla storia come padri fondatori al tempo stesso dell’Europa e dei partiti democristiani e socialisti dell’Europa. Come Adenauer e De Gasperi. Come Henry Spaak, Brandt, Nenni e, prima ancora, Turati, il quale, nel 1929, scriveva al leader socialista britannico: ”abbiamo bisogno degli Stati Uniti d’Europa,altrimenti diventeremo una colonia di quella nostra ex colonia di un tempo, gli Stati Uniti d’America”. 1929! L’Europa, ricordiamolo, è stata fatta dai Partiti con la P maiuscola, non dalla antipartitocrazia.
Un’altra impronta Craxi la lasciò quando, sfidando la piazza e i milioni di manifestanti pacifisti (una campagna di odio, oggi si direbbe) trasse sino in fondo le conseguenze della scelta Atlantica e consentì il dispiegamento dei missili Pershing e Cruise per bilanciare gli SS-20 puntati dall’URSS contro l’Europa, allo scopo di intimidirla e separarla dagli Stati Uniti. Molti anni dopo, l’allora segretario di Stato americano Brezinski mi disse in sostanza.
L’Italia era l’anello debole dell’Europa, per la presenza dei comunisti, del pacifismo cattolico e di una grande industria economicamente legata a Mosca, a cominciare dalla Fiat (Togliattigrad). Se il partito socialista non si fosse impegnato con coraggio,l’Italia non avrebbe installato i missili. Se l’Italia non lo avesse fatto, la Germania, e quindi l’Europa si sarebbero tirati indietro (come preannunciato dal cancelliere Schmidt). Se l’Europa non avesse installato i missili, la guerra fredda tra Est e Ovest, combattuta a tavolino da decenni e giunta alla mossa finale, sarebbe stata non vinta, ma persa dall’Occidente. E’ così. Le circostanze hanno voluto che un piccolo partito italiano abbia avuto un ruolo storico decisivo.
Craxi portò sino in fondo la scelta Atlantica, si, ma difendendo nel contempo la autonomia e la sovranità nazionale italiana anche nei confronti dell’alleato americano (talvolta un alleato imperiale). Come indica la fermezza verso i marines di Reagan a Sigonella (anch’essa,forse,mai perdonata in alcuni ambienti americani militari e dell’intelligence).
Per la prima volta a sinistra, manifestò una solidarietà verso i perseguitati dalla tirannia non a senso unico. Non solo a Ovest (come usava fare il PCI) ma anche a Est. Aiutò gli oppositori e gli esuli cileni, greci, portoghesi (e palestinesi, pur nel rispetto dei diritti di Israele). Ma anche quelli russi e dell’Europa orientale. Sino a fare eleggere parlamentare europeo Jiri Pelikan, simbolo della primavera di Praga.
Craxi sfidò la piazza, e una campagna di odio, per i missili, ma (e qui veniamo alla politica interna) anche per la riforma della scala mobile. Che lo portò ad affrontare nel 1985 il rischio mortale di un referendum. Vincendolo,spezzò un circolo vizioso tra caro vita e aumenti salariali nato da un accordo tra un sindacato a egemonia comunista e la Confindustria di Gianni Agnelli. Tra il 1984 e il 1987 ridusse così l’inflazione dal 16 al 6 per cento, mentre nel contempo l’economia italiana cresceva a tassi superiori alla media degli altri Paesi industriali. Ma segnò anche una svolta politica. Era finita l’epoca del sindacato cinghia di trasmissione (secondo la teoria comunista) della volontà del partito. Era finito il consociativismo, finita la possibilità per il PCI di esercitare, attraverso il sindacato, un diritto di veto sulle scelte economiche dei governi. Tutto ciò, però, nel rispetto del ruolo dei sindacati, sempre considerati da Craxi non un ostacolo, ma una grande risorsa per il Paese.
Craxi fece eleggere alla Camera a Milano Loris Fortuna, il padre della legislazione sul divorzio e sull’aborto. Lo appoggiò in modo determinante in tutte le sue battaglie laiche e libertarie, che contribuirono a rinnovare il costume, lo portò a fare il ministro. Ma lasciò grande spazio ai cattolici nel partito socialista e come presidente del Consiglio perseguì il nuovo Concordato con la Santa Sede, che ebbe l’onore di firmare solennemente nel 1984.
Recuperò per i socialisti e per la sinistra la tradizione risorgimentale che si era perduta. Il termine “patria” riacquistò per noi il suo significato profondo,con la musica di “viva l’Italia” di De Gregori ai congressi e con lo slogan del “socialismo tricolore”. In sintonia profonda con il presidente Pertini, che contribuì a portare al Quirinale e che poi ebbe a sua volta un ruolo decisivo nel portare Craxi stesso a palazzo Chigi. In questo contesto tricolore si iscrive l’operazione mediatica e simbolica realizzata riaccendendo il mito di Garibaldi.
Figlio della resistenza e dell’antifascismo, immaginò sotto il tricolore un percorso di pacificazione nazionale, che superasse uno dei traumi ricordati all’inizio, quello della guerra civile. Per la prima volta, mandò perciò una delegazione socialista al congresso del MSI di Almirante, perseguendo (una intuizione che oggi si dimostra lungimirante) il processo di integrazione nella democrazia di quanti militarono in buona fede dalla parte sbagliata della storia.
Condusse una battaglia isolata, controcorrente (non certo la sola) per cercare, durante il sequestro Moro,una via umanitaria per la sua liberazione, in alternativa alla linea cosiddetta della fermezza. Non mi permetto di dare giudizi su posizioni tutte rispettabili, comprensibili e basate su ragioni solide. Non so se Moro potesse essere salvato concedendo qualcosa alle BR. Certo è tuttavia che, prima e dopo il 1978, in Italia e altrove, fermezza e legalità furono contraddette più volte. Certo è che un leader democratico insostituibile non c’è più, mentre i suoi assassini fanno conferenze all’università. Certo è che il terrorismo rosso è stato definitivamente sconfitto soltanto quando è stata isolata la sua matrice profonda. Una matrice non sufficientemente sottolineata e combattuta ai tempi del compromesso storico: il leninismo e lo stalinismo.
Ecco, infine, le questioni sollevate da Craxi che ancora oggi sono al centro,irrisolte, del dibattito politico.
Lanciò nel 1979 la proposta di una “grande riforma” delle istituzioni. Che desse più stabilità, rapidità di decisione ed efficienza ai governi. Fu trattato come un decisionista autoritario (questi erano i termini).Quasi come un eversore.
Tuttavia, se le istituzioni fossero state rinnovate in tempo, attraverso una via riformista, non sarebbero state travolte attraverso una via traumatica nel 1992-‘94. Soprattutto, si sarebbe passati a una Repubblica rinnovata nella continuità e senza vuoti. Oggi, abbiamo soltanto il vuoto, perché la prima Repubblica è stata distrutta, ma la seconda non è mai nata.
Tra le riforme istituzionali rinviate in eterno, con conseguenze catastrofiche, Craxi indicava quella della giustizia, perché già alla fine degli anni ’70 era evidente la sua assoluta inadeguatezza. Si scontrò con quei magistrati che subito alzarono un muro di conservazione corporativa. Certo. Ma in un contesto ben diverso da quello attuale. Perché quando poté indicare un ministro della Giustizia scelse il più grande penalista del dopoguerra, l’uomo che nel 1944 aveva liberato dal carcere nazifascista due futuri presidenti della Repubblica, Saragat e Pertini. Scelse un galantuomo indipendente e al di sopra di ogni sospetto, come Giuliano Vassalli. Da poco scomparso. In un recente discorso, dopo avere ricordato che Craxi gli chiese una volta di tenere conto di alcune preoccupazioni espresse dai magistrati sul nuovo codice di procedura penale, Vassalli ha aggiunto: ”non ricordo, in tre anni e mezzo al ministero della Giustizia, alcun altro suggerimento o invito di Bettino, che pure era il segretario del mio partito”.
Craxi non era un uomo della destra, come tale in lotta contro i comunisti e Berlinguer. Al contrario, era un uomo della sinistra che contrastava i comunisti e Berlinguer perché voleva una sinistra a guida socialista contro la destra. In una lotta per l’egemonia all’interno della sinistra. In uno schema simile a quello che il suo amico e compagno Mitterrand era riuscito a rendere vincente in Francia. L’obbiettivo finale di Craxi era il bipolarismo, una sinistra socialista democratica e pragmatica civilmente contrapposta a una destra altrettanto democratica e pragmatica, come in tutta Europa.
Oggi il bipolarismo c’è, ma non quello immaginato da Craxi. Non c’è infatti una sinistra socialdemocratica, con identità e radici chiare, quindi potenzialmente vincente, come nel resto d’Europa. Peggio. Ma questa è una opinione assolutamente personale. Il bipolarismo funziona ovunque perché in ciascuno dei due poli l’area dell’estremismo e della antipolitica (la chiamerei dell’impazzimento)è assolutamente ininfluente. Il bipolarismo da noi non funziona, ed è ormai un male per l’Italia, perché l’area dell’impazzimento, in ciascuno dei due poli,non è ininfluente. Al contrario, è assolutamente determinante e a tratti persino egemone. E’ all’origine di quella eterna guerra civile strisciante ricordata all’inizio.
Craxi fu un rinnovatore della politica e soprattutto della sinistra. Forse a volte troppo in anticipo rispetto ai tempi. E qui si manifesta un paradosso. Una parte spesso maggioritaria dell’establishment, dei suoi giornali, della cultura italiana, anziché sostenerlo, anziché incalzare a sua volta il partito comunista verso un processo di occidentalizzazione e democratizzazione, fece esattamente il contrario, ostacolando Craxi e dando per conclusa positivamente sin dai tempi di Berlinguer una evoluzione del PCI che, come i fatti hanno dimostrato, doveva ancora affrontare un lungo cammino. Persino sulle battaglie cruciali per la contestazione del marxismo, per i missili, per la riforma della scala mobile, i socialisti furono circondati dalla freddezza o addirittura dall’aperta ostilità di parte di questo establishment. E’ la stessa parte ancora adesso pregiudizialmente ostile a Craxi. Quella che, come recentemente Giorgio Bocca su La Repubblica, continua a vedere nella grande storia appena ricordata soltanto una pagina di cronaca criminale, chiusa da Tangentopoli.
Parliamo allora con franchezza di questo punto. Politique d’abord (la politica prima di tutto,come diceva Nenni). A la guerre comme a la guerre. Questi erano i principi seguiti durante la guerra fredda tra Est e Ovest. Durante la guerra, tutti i partiti, assolutamente tutti, si finanziavano in modo illegale o border line con la legalità. Consideravano i soldi necessari alla propaganda come le armi necessarie alla guerra. Ma finita la guerra, non hanno capito in tempo che per i cittadini la politica non veniva più d’abord, prima di tutto.
Prima, venivano trasparenza e efficienza. Hanno continuato invece come prima e anzi peggio di prima, perché esaurita la carica ideologica e militante dei tempi, appunto, di guerra, gli apparati dei partiti cominciarono a diventare macchine di potere inutilmente pesanti e intrusive, fini a se stesse, spesso incapaci di impedire il dilagare della corruzione personale. Il partito socialista fu forse più fragile e più esposto di altri, perché non aveva alle spalle né la Chiesa e il potere vero, come la Democrazia Cristiana, né una tradizione di organizzazione e disciplina anch’essa quasi ecclesiale, come il PCI. Tutto questo va detto. C’è stata, prima di Mani Pulite, una degenerazione della politica.
Si poteva però percorrere una via riformista per rinnovare la politica. Da iniziare dopo un bagno di verità. In fondo era questa la strada indicata da Craxi nel suo famoso discorso davanti alla Camera. Si imboccò invece la via rivoluzionaria, ovvero quella di distruggerli. Gli eccessi di una parte della magistratura furono amplificati e resi devastanti dal sostegno acritico della Confindustria e di tutta la grande stampa, e ovviamente dei partiti estranei alla maggioranza del tempo, che speravano di avvantaggiarsene: ex PCI, MSI, Lega.
Mani Pulite trionfò rapidamente insieme alla antipolitica ma la rivoluzione, se proprio così vogliamo chiamarla, ebbe una caratteristica unica nella storia. Era infatti una rivoluzione senza progetto (tutte le rivoluzioni, buono o cattivo, ne hanno sempre avuto uno). Possedeva solo la pars destruens, non la pars costruens.
E infatti ha distrutto la Repubblica dei partiti democratici senza riuscire a costruire una nuova Repubblica. Condannando il Paese al quasi ventennio di interminabile transizione. Distrutti i partiti democratici, svuotata e delegittimata la politica nel suo complesso, l’Italia è diventata un caso da manuale, a dimostrazione di una nota teoria di Lester Thurow, un grande politologo liberal del nostro tempo. “Quando si indeboliscono i partiti, crescono tre grandi mali: localismo, lobbismo, corporativismo”. E infatti l’Italia è oggi il terreno dove dominano separatismo e xenofobia dei leghisti, il denaro delle lobby, le corporazioni più forti.
La magistratura di Mani Pulite ha fatto semplicemente e scrupolosamente il suo dovere? Craxi è condannabile perché è stato latitante rispetto a una giustizia neutrale e serena, alla quale ci si poteva e doveva affidare? No. La magistratura di Mani Pulite non era neutrale, aveva il progetto salvifico, esplicitamente dichiarato, di distruggere il sistema politico per aprire la strada a un felice ordine nuovo. La prova del nove, a posteriori, della sua politicizzazione è il fatto che Di Pietro, deposta la toga, è diventato immediatamente, appunto, un leader politico. Non tra i più equilibrati e sereni. La carcerazione preventiva è stata trasformata in uno strumento di tortura per estorcere confessioni, provocando una catena di suicidi. L’avviso di garanzia è stato trasformato in una lettera di licenziamento dalla vita politica e di consegna al pubblico linciaggio. Il segreto istruttorio è stato ridicolizzato da un lavoro di equipe tra giornalisti e magistrati(un circo mediatico giudiziario) rivolto ad alimentare la caccia alle streghe che tutti ricordano sulle prime pagine di quotidiani fotocopia: una caccia alle streghe che ha spesso impedito ai tribunali giudizi sereni e che ancor oggi è una macchia nella storia d’Italia. Una macchia sulla quale,per riprendere il cammino e tornare finalmente alla normalità,deve essere fatta un’opera di verità. Anche tutto questo va detto. C’è stata,durante Mani Pulite, una degenerazione della giustizia e dell’informazione.
In questo contesto, va vista la storia umana di Craxi. E la sua fine in esilio.
Su di essa, per la esigenza di equilibrio ricordata all’inizio,concluderò non con le mie parole, ma ancora una volta con quelle di un grande giurista e di un padre della Repubblica, Giuliano Vassalli. ”Il pensiero di quanto è accaduto continua a ferirmi nei miei sentimenti più profondi. Se si fa astrazione dalla tragica fine di Aldo Moro, occorre riconoscere che nella storia dell’Italia prefascista e in quella dell’Italia democratica,nessuno che fosse stato presidente del Consiglio aveva subito una sorte tanto amara”. Tanto amara, e tanto ingrata. Perché Craxi ha scritto alcune delle pagine più importanti e più nobili per la sinistra e per l’Italia.

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