LEGGE ELETTORALE. ELOGIO CONTROCORRENTE DEL VOTO DI PREFERENZA di Alberto Benzoni da "Il Riformista" del 25 febbraio 2012

05 aprile 2012

LEGGE ELETTORALE. ELOGIO CONTROCORRENTE DEL VOTO DI PREFERENZA di Alberto Benzoni da

Il sistema elettorale vigente – il cosiddetto “porcellum”- è, a detta di tutti, in assoluto il peggiore. E tra le sue varie magagne, sempre a detta di tutti, c’è quella di dar luogo ad un “Parlamento di nominati”.
Sarebbe stato dunque lecito attendersi che al centro di qualsiasi progetto di riforma elettorale ci fosse la restituzione ai cittadini di un diritto di scelta loro arbitrariamente sottratto; e questo nel modo più semplice possibile, ripristinando quel voto di preferenza, presente nel nostro paese lungo tutto il corso della prima repubblica.
Si dà il caso, però, che almeno nei circoli politici, l’argomento “voto di preferenza” sia automaticamente accompagnato dal gelo cortese quanto imbarazzato che accompagnava chi parlava di cibo e soprattutto di sesso in un salotto vittoriano. Temi che, insomma, era meglio evitare, senza che però fosse necessario, o anche solo opportuno, spiegare le ragioni del tabù.
Nello specifico, chi si oppone al ritorno delle preferenze avrebbe un’estrema difficoltà nel motivare sino in fondo il suo no. Perché si tratta delle stesse persone che invocano ad ogni piè sospinto i diritti, anzi la superiore moralità dei “cittadini” (alias “gente, popolo, società civile”) di fronte alla miserabile protervia dei partiti e della classe politica. E che sono, invece, convinte nel profondo che il “cittadino reale” sia, per ragioni diverse, un soggetto passivo in balia di condizionamenti esterni, per definizione negativi; a cui è bene allora non affidare responsabilità che non è in grado di esercitare. A ben vedere, siamo di fronte ad una specie di giuoco al massacro che coinvolge, in una condanna senza appello rappresentanti e rappresentati, senza misurarsi però con le sue logiche conclusioni: l’appello ai “tecnici” (in questo caso della morale) per assicurare, assieme a quelli della economia e della finanza, la salvezza del paese…
Il discorso dei sostenitori del voto di preferenza potrebbe essere, invece, molto più realistico e sobrio. Nessuna sopravvalutazione degli effetti positivi della reintroduzione del sistema; dopo tutto, le vicende della seconda repubblica dovrebbero avere insegnato a tutti che è illusorio pensare di risolvere i problemi politici con questo o quel marchingegno istituzionale.
E, ancora e soprattutto, nessuna sottovalutazione dei rischi e delle controindicazioni comportati dal ritorno della preferenza; rischi e controindicazioni presenti a tutti e obbiettivamente aggravati dalla scellerata introduzione della preferenza unica. Con il duplice effetto di trasformare la competizione in una sorta di guerra di tutti contro tutti e di accentuare oltre misura il ruolo del danaro nel determinare l’esito della gara (e nel condizionare i comportamenti successivi dell’eletto…).
Ma ciò non contrasterebbe affatto con il loro ragionamento conclusivo: l’essere il voto di preferenza, assieme al sistema proporzionale, parte integrante di un assetto complessivo tendente alla massima inclusività possibile; nel senso di attribuire al più ampio arco di persone e di gruppi un insieme sempre più ampio di diritti. Dando, in qualche modo, per scontato che questo processo di inclusione comportasse dei rischi; ma, nel contempo, essendo comunque convinti che il suo effetto netto per il paese sarebbe stato complessivamente positivo; o, detto in altro modo, che i benefici avrebbero superato i costi.
Punto debole di questo schema la crescente disattenzione di fronte al problema dei costi (nel caso che qui ci interessa, dei costi della politica); con il risultato di vederli progressivamente crescere sino a superare il livello di guardia. Si poteva, a quel punto, affrontare la crisi in modo puntuale eliminando sprechi, distorsioni e pratiche improprie e illecite, all’insegna della riforma della politica; si è invece deciso di ridurne gli spazi e i diritti. Così, sempre nel nostro tema specifico, un cittadino italiano che, sino alla fine degli anni Ottanta, aveva il diritto di scegliere il partito e i candidati a lui più vicini, si troverà, verso la metà degli anni Novanta, sostanzialmente costretto a scegliere tra due candidati di due opposti schieramenti, indicati da un ristrettissimo numero di persone e, quasi sempre, paracadutati da chissà dove.
Un sistema che Berlusconi avrebbe parzialmente modificato; ma in nome degli interessi del proprio schieramento politico e non certo dei diritti di scelta dei cittadini. Nell’insieme, rimarrà riservata a pochissimi (e nella totale assenza di regole) la scelta dei candidati da eleggere. Mentre, con singolare corrispondenza, sarà ancora affidata alla decisione del leader (attraverso la concessione, o meno, dell’apparentamento) la scelta dei partiti cui concedere una rappresentanza parlamentare (metodo che, per inciso, i socialisti hanno sperimentato sulla loro pelle nel 2008).
In sintesi, i rivoluzionari degli anni Novanta potevano correggere le distorsioni anche gravi nel funzionamento della politica introducendo nuove regole; hanno preferito invece ridurre se non eliminare i diritti con il risultato di non avere oggi né regole né diritti.
In questa chiave, tra l’altro, si può capire perché chi si oppone alla reintroduzione del voto di preferenza su scala nazionale (a livello locale si è molto più liberali: qui il cittadino non solo partecipa alle primarie; ma successivamente può votare non solo per il sindaco e/o presidente della provincia e della regione ma anche esprimere voti di lista e di preferenza e senza sbarramenti), si guardi bene dall’usare l’argomento principe a sua disposizione. Che non può essere quello dell’incapacità dell’elettore nel farne buon uso; ma potrebbe benissimo essere quello della totale assenza di questa facoltà in tutti i sistemi elettorali europei.
Qui, che si tratti di sistema proporzionale, modello tedesco o spagnolo oppure senza alcun sbarramento, di uninominale a uno oppure a due turni o di varie combinazioni tra questi modelli, il principio è sempre quello. Sono i partiti a predisporre le liste così come l’ordine delle candidature all’interno delle medesime; così come sono ancora i partiti a scegliere i candidati nei collegi uninominali. E, cosa ancora più importante, nessuno contesta loro l’esercizio di tale diritto e nessuno perciò si straccia le vesti per lo scandalo del “Parlamento di nominati” e dei diritti democratici conculcati.
Si potrebbe ritenere che questa accettazione tacita sia dovuta al fatto che il meccanismo di scelta è governato da regole precise e formali.
L’analisi è corretta. Ma non spiega tutto. Ed ha anzi il rischio, se eccessivamente enfatizzata, di farci vedere una realtà in bianco e nero. Come sicuramente non è.
Certo, le regole ci sono. Formali (ma, in questo senso, non dissimili da quelle esistenti nel nostro paese) per l’elezione degli organismi dirigenti dei partiti; del tutto informali, invece, e affidate alla consuetudine, alla ricerca del massimo consenso e a ragioni di opportunità di vario tipo, per quanto riguarda la scelta delle candidature. In un contesto in cui peseranno, in vario modo, gli umori della periferia, gli equilibri tra le varie correnti organizzate, la necessità di lanciare, attraverso le candidature, nuove aperture verso l’esterno e la costruzione di nuovi gruppi dirigenti. E in cui, come risultante di queste diverse esigenze, il margine di manovra del centro tende oggettivamente a crescere.
Come si vede, non stiamo parlando di Shangri La o del paese dell’Utopia. Stiamo descrivendo una realtà fatta di consuetudini e di imperfezioni. Di una realtà in cui, per inciso, è presente il disprezzo per i partiti e la politica- come in Italia- ma in cui- a differenza dall’Italia- nessuno si sogna però di contestare le loro prerogative, insomma i loro diritti e i loro doveri. Questi, purchè correttamente esercitati, non sono soggetti a prescrizioni di sorta; e giudice di questa correttezza può essere solo il corpo elettorale; e non certo procuratori autocertificati. Con il risultato che nessuno mette in discussione il Parlamento, il suo ruolo e la sua rappresentatività.
Da noi, questi procuratori invece abbondano. E, nel caso specifico, utilizzano del tutto strumentalmente il richiamo ai diritti dei cittadini. Ciò che a loro interessa è di denunciare l’indegnità dei partiti; e non per richiamarli ai loro diritti e ai loro doveri, o per contestarne la, del tutto immaginaria, onnipotenza; ma piuttosto per certificare ulteriormente la loro disgregazione e la loro debolezza. Il tutto in una logica di confronto tra cittadini e partiti comunque a somma zero.
Attendiamo allora con fiducia che l’Europa- o un suo portavoce autorizzato e credibile- inviti i partiti italiani a fare ordine in casa propria. E in tutte le direzioni possibili. E non c’è bisogno di tabelle o di pagine specializzate per spiegare cosa ciò significhi. In questo quadro potremmo tranquillamente esercitare il nostro diritto di cittadini; quello di votare, insieme, per il partito e il candidato a noi più vicino.

Vai all'Archivio