LE QUESTIONI SOCIALI SI AVVICINANO CON LA BUONA LETTERATURA. UN'INTERVISTA CON LUCIANO GALLINO, di Alberto Papuzzi, da http://circolorossellimilano.blogspot.com, 7 giugno 2009
25 giugno 2009
Quando gli chiedo se legga anche letteratura, non solo testi di sociologia, lo scienziato sociale Luciano Gallino sorride sotto i baffi (metaforici):
«Posso dire di avere imparato a capire le società leggendo letteratura. Sa che cosa diceva della letteratura Henry James? Che essa reca in sé i colori della vita, mentre i manuali, di sociologia, di economia o che altro, sono grigi, o in bianco e nero. Ho sempre letto tanta letteratura e anche ai miei studenti ho raccomandato la buona letteratura, come mezzo per avvicinare e conoscere le questioni sociali. Un autore per me decisivo in questo senso è stato Thomas Mann. Non sarei quello che sono, non scriverei come scrivo, se non avessi frequentato alcune centinaia o migliaia di romanzi. Dovrebbe uscire nei prossimi giorni la riedizione einaudiana d'uno dei racconti più importanti sulla condizione dei neri negli Stati Uniti, Uomo invisibile di Ralph Ellison.
Era del 1952, cominciò a tradurlo Carlo Fruttero, che poi me lo passò, io avevo bisogno di guadagnare, parliamo del 1954 o giù di lì. Riappare con una mia prefazione in cui lo collego alla vicenda di Obama».
D'altronde il professor Gallino, un ottantaduenne alto e diritto, come uno degli alberi che circondano la sua bella casa sulla collina torinese, ha alle spalle una lunga e dorata stagione professionale alla Olivetti di Ivrea, dove lavorò per oltre quattordici anni, dal 1955 al 1970; quella Olivetti dove anche gli ingegneri e i manager, gli architetti e i tecnici imparavano a familiarizzare non solo con la letteratura, ma con tutte le varie espressioni del bello, dalla Palazzina degli Uffici di Figini e Pollini al designer delle macchine da scrivere di Ettore Sottsass o di quelle da calcolo di Marco Bellini.
Quindi il passaggio all'Università di Torino, per una gratificante carriera di docente, maestro di centinaia di sociologi. La sua bibliografia presenta almeno una ventina di titoli (gli ultimi due quest'anno: Con i soldi degli altri e Il lavoro non è una merce, usciti da Einaudi e da Laterza), più edizioni, prefazioni, introduzioni, traduzioni.
In questo percorso, il libro è stato - da Cuore di Edmondo De Amicis a Le benevole di Jonathan Littell - un compagno di viaggio indispensabile e ineguagliabile, come testimonia questa intervista.
Professore, ci ricorda quando e come entrò alla Olivetti?
«Io sono stato assunto da Adriano Olivetti nell'ottobre del 1955. Lo incontrai a Torino in via Viotti, dove aveva il suo ufficio e la sede di Comunità. Qualcuno gli aveva parlato di me. Ne seguì un colloquio del tutto privo di filo conduttore. Ti faceva domande del tipo: “Che libri ha letto?” o “Le piace il cinema?”. Non avrei scommesso una lira sull'esito del colloquio, invece un mese dopo ricevetti la lettera di assunzione. Diressi l'Ufficio ricerche sociologiche e studi sull’organizzazione, un acrostico impronunciabile».
Quali scrittori incontrò a Ivrea?
«Per molti anni ebbi come superiore Paolo Volponi, il quale era il grande romanziere di Memoriale ma anche un signor direttore del personale. Capufficio stampa era Libero Bigiaretti, direttore della biblioteca era Luciano Codignola; un funzionario della stessa era Ludovico Zorzi, grande conoscitore di Ruzante. Passava Franco Fortini, a Milano c'era Giudici. Mentre Geno Pampaloni fu segretario generale».
Che cosa aveva di così speciale Adriano Olivetti?
«Aveva l'idea che la fabbrica deve produrre occupazione, creare ricchezza e diffondere attorno a sé bellezza. Sue parole. Oggi non gli permetterebbero neppure di accedere a una convention secondaria. Questo diffondere bellezza lo applicava a dettagli minimi: dal logo della carta da lettere alle carrozzerie delle macchine da scrivere. Nutriva una convinzione etico-politica profonda, che gli faceva dire ai suoi operai: “La fabbrica chiede molto a voi, fatica, tempo, duro lavoro, perciò ritengo sia un dovere ripagarvi in forma di servizi sociali, asili, scuole, biblioteche pubbliche e buoni salari”. Alla Confindustria veniva l'orticaria solo a sentir nominare Olivetti».
Torniamo alle sue letture: a proposito di Thomas Mann, quale dei romanzi ha prediletto?
«Innanzi tutto precisiamo che leggevo un po' di tutto. Sono stato un lettore precoce, forse per l'esempio di una madre che era grande lettrice. Da ragazzo lessi non dico tutto ma molto Jack London, come anche Zane Gray, autore western. Più avanti ho letto i russi: Guerra e Pace, Gogol, Oblomov, Turgenev. Quanto a Mann, naturalmente I Buddenbrook sono il grande romanzo sulla borghesia: sull'avidità, ma anche la capacità, sullo scontro con la politica. Ma il libro di Mann che ho letto due, tre volte è Doctor Faustus. Perché ho sempre coltivato le letture e gli studi sul nazismo, come questa versione letteraria di un anima che si perde, si smarrisce, queste meravigliose famiglie dove la sera si suona Bach, dove si dà del lei al padre, dove tutti sono biondi e colti, ma qualche anno dopo diventano comandanti di campo o ufficiali delle SS per sterminare ebrei. Anche Le benevole di Littell è in questo senso terribile e straordinario: racconta di una SS colta e azzimata, che partecipa attivamente ai peggiori massacri. L'ho comprato in Francia, dove lui vive da tempo, quindi l'ho preso anche in italiano. A parte alcuni eccessi è un romanzo del tutto fedele alla realtà storica».
Lei e sua moglie, Tilde Giani, alla metà circa degli Anni Sessanta, siete stati anche i traduttori di un libro simbolo: «L'uomo a una dimensione» di Marcuse. Come accadde?
«Sì, io ero fellow del Centro di studi superiori di Stanford, dove passai quasi due anni. Einaudi mi scrisse che era uscito questo libro e valeva la pena di tradurlo subito. Cosa che facemmo. Lì in California avemmo anche l'opportunità d'incontrare Marcuse: ricordo un uomo amabile e spiritoso, con battute taglienti sul mondo politico».
Parliamo degli ultimi due suoi saggi. Uno, «Il lavoro non è una merce», smentisce i sostenitori del lavoro flessibile.
«Ho letto non so quanti discorsi che magnificavano i vantaggi del lavoro flessibile: accumula esperienze, arricchisce la persona, è adatto alle esigenze dell'economia globalizzata. Allora sono andato a vedere e ho raccolto dati che dicono tutt'altro: con limitate eccezioni il lavoro precario, flessibile, discontinuo, ha costi umani elevatissimi e anche dei costi aziendali, perché le persone non hanno alcun legame con l'azienda e non ci sono incentivi a fare formazione. In più incide negativamente sui cosiddetti figli della precarietà, cresciuti in famiglie dove c'è un reddito non da poveri ma c'è anche una perenne incertezza. Io parto da uno splendido saggio, La grande trasformazione di Karl Polanyi, il quale diceva che ci sono tre cose che non vanno mai trattate come merce: la terra, il denaro e il lavoro».
Chi sono invece i bersagli dell'altro nuovo libro, «Con i soldi degli altri»?
«Trovavo straordinario che non ci fosse nulla sulla vera grande novità della finanza mondiale negli ultimi quindici anni: l'enorme peso degli investitori istituzionali. I soldi nostri, i nostri risparmi, i fondi comuni, i fondi pensione, le assicurazioni vita, hanno permesso agli investitori istituzionali di accumulare un portafoglio che nel 2007era di 53 trilioni di dollari, quando il Pil del mondo era in quell'anno di 54 trilioni, quasi equivalente».
Ma perché economisti, politici, studiosi sono, secondo la sua valutazione, inattendibili e ingannevoli?
«La vittoria della destra: di questo si tratta. Il suo successo politico ha avuto come componente di enorme portata una vittoria culturale. In trent'anni è stato rovesciato l'insegnamento dell'economia. Negli Anni Sessanta l'idea di un mercato che si autoregola sarebbe stata oggetto di ludibrio, nessuno l'avrebbe presa sul serio».
Professore, le capita mai di sentirsi un estremista?
«No. Mi preoccupa però il fatto che dicendo e scrivendo le stesse cose di cinquant’anni fa, quando preparavo i discorsi di Adriano Olivetti, oggi posso apparire un estremista: significa che lo spettro della sensibilità politica si è spostato a destra. Molto a destra. Per cui uno che ha sempre votato socialista, che si considera un progressista moderato, rischia di apparire un sovversivo.».