LE MOLTE RAGIONI DEL FLOP DI LIBERI E UGUALI di Luciano Belli Paci da gliStatiGenerali del 7 marzo 2017
07 marzo 2018
Nella sinistra siamo consumati
specialisti nell’analisi delle sconfitte. Ed anch’io non voglio esimermi da un
ragionamento a mente fredda sul naufragio dell’ultima zattera sulla quale siamo
saliti, quella di LeU.
Tre sono le principali cause, in ordine di rilevanza, del fiasco del
rassemblement formato da Mdp-SI-Possibile.
La prima e principale causa è il Rosatellum, una legge elettorale concepita per
sabotare il M5S e LeU. Il sabotaggio è fallito con i pentastellati (anzi,
l’ordigno è scoppiato in faccia al Pd), ma ha funzionato alla perfezione per
segare le gambe alla lista di Liberi e Uguali. Infatti il sistema elettorale,
con l’invenzione delle finte coalizioni aggregate attorno ai candidati nei
collegi uninominali e con il divieto di voto disgiunto, non si limita a
sottrarre a priori 1/3 della rappresentanza a chi non è competitivo nei collegi
ma consente di suggestionare l’elettorato coinvolgendolo in una sfida di tipo
maggioritario nonostante il carattere eminentemente proporzionale della
contesa. In tal modo, ogni voto dato a soggetti esterni alle tre principali
aggregazioni elettorali è apparso come un voto inutile.
Questo ha indotto circa la metà del già ridotto elettorato potenziale di LeU ad
abbandonare la lista che avrebbe altrimenti scelto, ripiegando su due tipi di
voto utile: o il voto alla coalizione del Pd per fare argine contro i barbari
alle porte (prevalentemente al nord), o il voto al M5S per dare una lezione al
Pd e al tempo stesso battere le destre (prevalentemente al centro-sud). In
definitiva, con questa legge truffa un Pd dall’esangue vocazione maggioritaria
è riuscito a perpetuare quel tanto di “nulla salus extra ecclesiam” che bastava
per soffocare in culla qualunque alternativa alla sua sinistra.
La seconda causa è costituita dal fatto che lo spazio politico-sociale che LeU
si proponeva di occupare era già presidiato in forze da altri protagonisti, a
modo loro più credibili agli occhi di larga parte dell’elettorato potenziale.
Il ceto medio alle prese con lo scivolamento verso uno status deteriore, i
lavoratori dipendenti ed autonomi deprivati di potere contrattuale e sicurezze,
le periferie abbandonate, gli sconfitti della globalizzazione lasciati soli da
uno stato sociale in ritirata … tutti costoro erano i destinatari naturali del
messaggio di una forza di sinistra antiliberista, schierata per la giustizia
sociale, contro lo sfruttamento e la precarizzazione, per uno Stato che si riappropri
delle funzioni di protezione delle persone, di regolazione e di intervento
nell’economia. Però la rappresentanza di quegli stessi gruppi sociali era già
stata in larghissima misura conquistata in parte dal M5S, col suo messaggio di
protesta anticasta e con proposte antiliberiste di taglio prevalentemente
assistenzialistico, e in parte dalla Lega, con il suo investimento sulla paura
dell’immigrazione e con l’impegno contro misure di macelleria sociale (Fornero)
e contro il mercatismo della UE. Fare breccia in un elettorato già fidelizzato
da questi partiti della rabbia e della paura, consolidati e molto
riconoscibili, era obiettivamente arduo per una formazione nuova, di dubbia
efficacia perché piccola e di dubbia credibilità a causa dei trascorsi “liberaloidi”
ed austeritari di alcune sue componenti.
La terza causa è quella sulla quale più si sono soffermati i mezzi di
(dis)informazione ed attiene ai limiti intrinseci della genesi e della
conduzione dell’operazione politica Liberi e Uguali. Essa è l’ultima in ordine
di importanza non perché quei limiti non siano macroscopici, ma perché
riguardano fattori che catturano l’attenzione degli addetti ai lavori e dei
“malati di politica”, ma vengono molto dopo le altre due cause nell’influenzare
le scelte dell’elettore medio e “sano”. Nell’analisi della catena di errori si
potrebbe partire da lontano, dalla sconsiderata cancellazione dei partiti che
avevano plasmato la Repubblica, alla stagione dell’Ulivo con il cedimento
culturale (privatizzazioni, deregulation, idolatria del mercato) e con
l’antiberlusconismo come identità surrogata, alla nascita del Pd con la
definitiva capitolazione ideologica, l’assunzione del ruolo di garante
dell’establishment, la contendibilità del partito da parte di spregiudicati homines
novi. Ma il discorso sarebbe troppo lungo.
Limitandoci ai fatti più recenti, il catalogo degli errori è comunque molto
assortito. C’è il travaglio senza fine della minoranza Pd, che prima ha perso
tutti i treni possibili per uscire “a furor di popolo” dal partito (jobs act,
buona scuola, grande riforma, Italicum, voto del 4 dicembre …) e poi una volta
uscita ha perduto ancora mesi preziosi inseguendo gli arabeschi del Forrest
Gump – Pisapia. C’è la dissennata smobilitazione dei comitati del No dopo la
vittoria nel referendum. C’è la sconclusionata vicenda del Brancaccio che ha
lasciato nella frustrazione migliaia di militanti.
C’è l’allestimento di un cartello elettorale last minute, fuori tempo massimo
per un processo partecipato e dunque consegnato agli accordi spartitori di
vertice. C’è l’inutile cedimento al leaderismo col nome di Grasso nel simbolo,
per poi ritrovarsi con un capo politico inadeguato e negato per la
comunicazione televisiva (che era cruciale per una lista sconosciuta). C’è poi
la mancata proclamazione di quel parallelo processo costituente del nuovo
partito che avrebbe indicato una prospettiva più ampia di quella di sfangare un
altro appuntamento elettorale. C’è l’incapacità di lanciare efficaci proposte
programmatiche, con l’unica eccezione di quella sulle tasse universitarie, che
peraltro ha suscitato vaste perplessità. C’è infine l’ingenuità di alimentare
sospetti di ambiguità politica proprio negli ultimi giorni della campagna.
In queste condizioni, se vogliamo essere obiettivi, i traguardi raggiunti – un
milione di voti, 3,4 %, una sia pur minima presenza parlamentare della sinistra
nella nuova legislatura – hanno quasi del miracoloso. La delusione tuttavia è
altissima e pochi oggi scommetterebbero un euro sul futuro di LeU.
Eppure io penso che, dopo tante dissipazioni e troppi “rompete le righe”,
questa volta abbiamo il dovere di andare avanti. Abbiamo una responsabilità
storica verso questo esercito demoralizzato ma non vinto, verso questo popolo
della sinistra – migliaia di persone presenti sui territori – che ancora una
volta ha risposto all’appello ed ha resistito in un’altra impari lotta.
Partendo da questa base e dai piccoli gruppi parlamentari di LeU, dobbiamo
creare con umiltà e con tenacia il partito che non c’è. Un partito permanente,
che chiuda la stagione degli espedienti last minute, che si faccia trovare
ancora in campo la volta dopo, e quella dopo ancora.Se non faremo questo, se
l’esperimento di LeU si concluderà con l’ennesimo “tutti a casa”, quel piccolo
grande popolo non risponderà ad altre chiamate alle armi. Resterà a casa
definitivamente.