LE DUE SPAGNE di Alberto Benzoni
30 aprile 2019
Cominciamo dai dati. Che sono molto rivelatori.
Prima, perché ci dicono che le due coalizioni in lizza nelle elezioni di
domenica scorsa - quella formata dal Psoe e da Podemos e quella PPE,
Ciudadanos, Vox - si collocano, entrambe, intorno al 43% dei consensi (lo
squilibrio in termini di seggi sta tutto nel sistema elettorale che premia il
partito più forte, quello di Sanchez con il suo 29%, e punisce un’opposizione
divisa, intorno al 16% il Ppe e Rivera, poco più del 10% per Vox). Come si
dice, un paese “spaccato in due”; e intorno a questioni riguardanti la sua
stessa identità.
A dircelo, la mappa dei collegi. Quelli in cui vince il centro-destra-destra
sono tutti quelli della Spagna profonda, acquisiti alla crociata del ’36: la
Castiglia, il Leon, la Mancia, l’Aragona, l’est dell’Andalusia più Madrid. Per
la sinistra, le zone rosse della cintura esterna, catalani, valenciani,
andalusi, assieme ad altre regioni autonome (vittime, quasi tutte, della guerra
civile e della successiva repressione franchista). Il tutto, in un contesto di
una partecipazione record.
Un richiamo che definisce la natura dello scontro. Che non divide destra e
sinistra, liberali e socialisti e men che meno ordoliberisti e
sovranisti/populisti; ma semplicemente franchisti e antifranchisti. I primi
intenti a rimettere più o meno in discussione la Spagna cresciuta all’indomani
della “ruptura pactada” del 1975 e quelli che intendono difenderla ad ogni
costo.
Inizialmente il patto (riassumibile, molto schematicamente, da parte dei
repubblicani, nel “a voi la Spagna di ieri, da passare in conto profitti e
perdite; a noi la Spagna di domani”) aveva funzionato. Portando con sé grandi
conquiste sociali ma, soprattutto, civili, il mutamento dei costumi, i diritti
delle donne, l’apertura alle diverse “ nazioni” costitutive della comunità
nazionale e la loro crescente autonomia, la scelta europea (mai veramente
rimessa in discussione) e, infine, il dilagare del “politicamente corretto”
tanto inevitabile quanto fastidioso.
Dopo, però, le cose hanno cominciato a guastarsi. Nell’immediato e nel visibile
sui temi dell’austerità; dove i socialisti, prima con Zapatero e poi con
Sanchez (e contro i dinosauri incattiviti alla Felipe Gonzales) hanno rifiutato
di associarsi all’”embrassons nous” patrocinato da Bruxelles in nome di
un’austerità condivisa. Successivamente e nel profondo rimettendo in
discussione i fondamenti stessi dell’accordo del ’75.
Così, ancora da Zapatero a Sanchez, il Psoe hanno fatto propria la causa dei
vinti del ’36. Fisicamente e politicamente “desaparecidos”: riaprendo tombe,
riparando ingiustizie e torti, allontanando Franco dalla cripta a lui riservata
nel Mausoleo costruito in primo luogo, riaprendo una serie di vertenze che si
ritenevano chiuse da tempo. Fino a riconoscere pubblicamente il debito della
Spagna di oggi nei confronti delle tante vittime repubblicane della guerra
civile e dei loro dirigenti. Così gli eredi dei vincitori di allora non solo
hanno rivendicato con forza le loro “buone ragioni” ma hanno rimesso
concretamente in discussione un assetto istituzionale che doveva trovare il suo
compimento in un federalismo variamente articolato.
Con l’iniziativa, francamente un po’ avventurista, di Puidgemont e degli
indipendentisti di destra catalani, tutto è poi precipitato. Ripristinando la
categoria dei prigionieri politici. Proponendo l’eliminazione dell’identità
catalana in tutte le sue forme. Fino a promuovere la formazione di uno
schieramento elettorale compattato nel segno della lotta della Spagna eterna
contro i suoi nemici (al punto di accusare Sanchez di essere “complice dei
terroristi”e di avere le “mani lorde di sangue”; e solo per avere incontrato il
presidente catalano, Quim Torra).
Un vero e proprio scontro di civiltà; almeno nelle intenzioni dei suoi
promotori. E che questi l’abbiano nettamente perso, almeno qui ed ora, è cosa
buona e giusta.
La partita, naturalmente, è tutta aperta. Il vincitore ha un programma a un
tempo razionale e ragionevoli e i numeri per formare un governo. Ma si troverà
da subito sotto un vero e proprio fuoco di sbarramento.
Molto dipenderà da quello che succederà a livello europeo. E dalla capacità dei
popolari e dei socialisti di cogliere il messaggio che viene dalla Spagna.
Per i primi, la consapevolezza che l’unico populismo esistente sul mercato è
quello di destra; e che questo è il naturale nemico della destra classica,
sottraendole molti consensi e trascinandola su posizioni che non hanno nulla a
che fare con le sue tradizioni e con i suoi valori.
Per i secondi la gratificante constatazione che il socialismo, dato per
disperso, può ancora vivere e lottare insieme a noi; e magari, perché no,
vincere quando si presenta come alternativo alla destra.
(Per concludere, è bene ricordare che il Pd fu l’unico partito assente
all’incontro di Sanchez con i partiti fratelli chiamati a sostenerne la
candidatura. Perché dolorosamente consapevole della sua prossima sconfitta? O
perché terrorizzato dall’ipotesi di una sua vittoria?)