LA VIRTÙ LIBERALE NON È INFUSA NEL PARTITO DEMOCRATICO – di Biagio de Giovanni da il Riformista del 3 febbraio 2006

09 febbraio 2006

LA VIRTÙ LIBERALE NON È INFUSA NEL PARTITO DEMOCRATICO – di Biagio de Giovanni da il Riformista del 3 febbraio 2006

Separati o divisi? Io so che l’ultima volta che forze di origine cattolica e comunista si sono incontrate hanno prodotto un compromesso storico

Per ora, abbiamo la necessità della prova, in un quadro che sembra condurre su percorsi assai più accidentati, per cui l’ipotesi di Salvati non regge, se costituisce il dato (indimostrato) su cui tutta la costruzione finisce con il fondarsi. Partiamo da una domanda di carattere storico-ideale: perché mai forze d’origine cattolica e comunista, senza significativi sostegni esterni, dovrebbero possedere la virtù infusa dello spirito liberale, e avere la disponibilità a metterla in comune? In altri momenti, non è stato questo lo spirito che metteva insieme forze di ispirazione cattolica e comunista, e il fatto stesso che ci siano dei precedenti dovrebbe invitare a riflessione più approfondita. Il precedente più visibile, è l’ipotesi di «compromesso storico» degli anni settanta, certo in presenza, si potrebbe dire, di un altro mondo, di altri soggetti e di altre finalità, ma sintomatico della tentazione costante di un rapporto fra culture politiche che proprio non hanno nello spirito liberale il loro punto caratteristico. Non voglio forzare paragoni impossibili (ripeto: siamo in un altro mondo), e tornerò rapidamente all’attualità, ma resto più che mai convinto che allora il cuneo che interruppe il rischio di un regime unanimistico - in un tentativo di cui, ben s’intende, si potevano comprendere le ragioni - fu immesso prevalentemente dai socialisti e dall’azione culturale del Mondoperaio di Federico Coen: credo che Giuliano Amato, che fu uno dei protagonisti, potrebbe confermarlo. Oggi, perché dobbiamo dare per scontato che quel cuneo abbia prodotto tutti i suoi effetti, e il sistema Margherita-Ds ne abbia interiorizzato le spinte liberal-socialiste, laiche e moderne? Si potrebbe dire: ma ne è passata acqua sotto i ponti, e certamente ne è passata, e l’acqua è certo più cristallina e tante scelte sono andate nella direzione giusta. Ma non tutte (e forse non molte), e l’ambiguità di parecchie impostazioni rischierebbe di restar tale nell’accelerazione di processi unitari in cui ciascuna forza finirebbe con il portare i punti di più dura resistenza interna per ragioni che argomenterò fra un momento.
Proviamo a fare qualche esempio. Sicuramente la laicità è al cuore dello spirito liberale, e personalmente non considero affatto alternativo un progetto di ispirazione liberale a un beninteso spirito cristiano, tutt’altro. Ma a una condizione, per tradurre il problema in cultura politica, alla condizione che nel partito dove è più presente la componente cattolica (la Margherita, nel caso che discutiamo) prevalga, aggiornata, quella dimensione cattolico-liberale che fu di De Gasperi e per molti aspetti di Sturzo. Ma è così, o non sta avvenendo proprio il contrario? Io credo che stia avvenendo proprio il contrario, sia per la mancata attuazione (a mio avviso, s’intende) delle promesse che sembravano presenti nella direzione Rutelli sia per l’ingombrante presenza di quei filoni di cristianesimo sociale di ascendenza dossettiana i quali (checché se ne sia detto di recente) non convergono di certo in una rappresentazione laicamente aperta della società italiana, che è un altro filo continuo nel rapporto antico cattolici-comunisti. Il prodismo, a mio avviso, sta largamente in questa koiné. Si potrebbe insistere molto sul tema della laicità in un momento a dir poco problematico nei rapporti fra cattolicesimo e mondo moderno (e nelle conseguenze "italiane" di questo problema), ma me ne astengo, interessandomi qui di fissare solo qualche coordinata di principio intorno ad alcuni problemi.
Per passare ai Ds, e senza affatto svalutare gli sforzi operati soprattutto da Fassino, mi pare che la stagione liberal-socialista incontri crescenti difficoltà, sotto le spinte delle grandi corporazioni (sia di natura sindacale sia capitalistico-imprenditoriale sia professionali) che invadono il terreno della politica, riducendo l’autonomia riformista di quel partito che sembra privilegiare, preparandosi a una risposta di governo, l’organizzazione di compatti sistemi di potere in un orizzonte bloccato dalla riduzione dell’autonomia della responsabilità politica, tratto decisivo dello spirito liberale. Ma spirito liberale significa anche tante altre cose di cui non sembra esserci abbondanza: una proposta compiuta di riforma dello stato sociale e del lavoro, in una chiave di cui Blair dovrebbe essere modello, mutatis mutandis, ma nel frattempo è diventato quasi un nemico; una attenzione per le libertà individuali piuttosto che per i poteri corporati e "concertati"; una visione non strumentale nel rapporto fra i poteri e gli ordini che danno forma allo Stato, fra politica e giustizia, ad esempio; una assunzione piena della responsabilità politica, in una società capace di liberarsi dall’imperio di poteri cogenti che vanno riassumendo forma feudale; una liberazione del sistema informativo dal peso della lottizzazione politica e tante altre cose. Non mi sto riferendo frettolosamente ai cardini possibili di un programma di governo, ma a uno spirito più complessivo e quasi ad esso preliminare che riguarda percorsi di lunga lena, e insomma a una ispirazione che si sente poco presente e che anzi spesso viene giudicata con sufficienza, e sarebbe per alcuni già alle spalle, essendosi molti già "rimangiata" la affermata necessità, in passato, di una rivoluzione liberale.
Insomma, la koiné liberale di cui parla Salvati, non solo è tutta da dimostrare, ma quando si affonda il dito oltre qualche dichiarazione di principio e qualche scelta essenziale, e qualche atteggiamento consolidato, appare problematicamente aperta. Esiste in parte, nessuno lo nega (altrimenti, non staremmo qui a discutere), ma si può consolidare - ecco un punto centrale - più nella distinzione delle forze che nella loro uniformità, più esaltando di ciascuna forza la potenzialità riformista sicuramente insediata nelle varie culture, che immettendo tutto in uno stesso contenitore, dove probabilmente finirebbero con il prevalere scontri di gestione e autodifese corporative.
Provo a precisare questo passaggio importante. So bene che sto forzando le tinte della descrizione, ma se in essa c’è del vero, dove può condurre la rapida sommatoria di queste forze? Perché mai il loro sommarsi dovrebbe sprigionare uno spirito che non è affatto pacificamente presente nelle sue componenti? Il rischio è proprio l’opposto, applicando canoni di scienza politica che si aggiungono a quelli, accennati, di storia politica: un veloce processo di sintesi dei due partiti non può che significare una sovrapposizione delle sue élite dirigenti così come sono, in modo che ciascuna di esse tenderà a difendere rigidamente il terreno su cui si sente più forte e più capace di conservare e sviluppare il proprio rapporto con la società italiana e con l’élite di altra provenienza. Non sembra facile, insomma, che dal processo unitario possa scaturire una sintesi superiore, in grado di indebolire proprio quei tratti che danno a ciascun gruppo dirigente la propria consistenza e fisionomia e garanzia di vita.
Questo è un canone paretiano e moschiano di conservazione del potere delle élite, che potrebbe esser destinato a riportare con i piedi per terra un ragionamento di ingegneria politica, troppo concentrato sul calcolo un po’ astratto dei costi e dei benefici. Certo, chi non vorrebbe un grande partito, riformista, liberale, socialista, moderatamente cattolico e insieme laico e radicale, europeista, aperto al nuovo e capace di promuoverlo, dove i dirigenti vivono per la politica e non di politica? Ma sembra difficile immaginare un effettivo dibattito di idee che promuova questa ipotesi, in presenza di una unificazione dei gruppi dirigenti, e piuttosto la tendenza può esser quella di inchiodare le élites dirigenti nella organizzazione di un macrosistema partitico nel quale ognuno ha il suo posto e non intende metterlo in discussione in un più alto processo di elaborazione. Questa prognosi, certo, non è obbligata; effettive volontà politiche possono mutare il determinismo dei processi, ma allora, per avere qualche garanzia, bisogna immaginare ben altro che una accelerazione dei tempi che mescoli in modo confuso e velleitario storie diverse, gruppi dirigenti di formazione assolutamente differente, culture politiche destinate a difendere in modo rigido le loro provenienze per il principio dell’auto-conservazione - che agisce più fortemente quando si indebolisce l’autonomia organizzativa - e spinte, dalla necessità delle cose, a ritrovarsi nella dimensione gestionale del potere politico. Tutto ciò, peraltro, in presenza di una distinzione europea delle famiglie politiche che preserva tratti essenziali della loro storicità, pur riuscendo a trovare (si pensi alla Germania) occasioni di collaborazione e di governo comune. La ragione delle difficoltà che vedo sono anche in un altro elemento che non può non incidere sugli sviluppi del ragionamento generale che propongo. C’è una crisi radicale dei partiti (si legga il recente volume di Mauro Calise sulla Terza repubblica, acutissimo libro che mi riappacifica con la politologia) che non hanno più polpa e sono ridotti a quell’osso che si chiama «partito degli eletti». Ma questa crisi non si affronta, credo, unificando ciò che oggi è rinsecchitamente distinto, e dunque lavorando di fatto al rafforzamento della situazione esistente (giacché proprio qui sta il paradosso), bensì spingendo, se ancora possibile, alla riapertura della dialettica politica nella società civile, tra forze politiche distinte, attraversate dalla storia e dalle loro storie, che possono governare insieme senza perdere, anzi riconquistando e portando più avanti, nella direzione giusta, le ragioni storiche della loro identità. Perché mai la forma del sistema di governo (la convergenza) deve avere una corrispondenza puntuale e organizzativa nella società civile? C’è più garanzia di aria fresca e di conflitto produttivo di politica in una situazione di questo tipo, di quanto non ce ne sia in accorpamenti forzati se visti nella luce di un unico partito e non di una collaborazione necessaria, in determinati momenti, tra forze diverse per il governo del paese. La tensione oligarchica già presente nelle attuali costituzioni partitiche rischierebbe di venir esaltata dalla costruzione di un gruppo dirigente praticamente inamovibile nella sua estensione, e tenuto insieme contraddittoriamente da tensioni di potere e magari da un capo (o due?) in cui si troverebbero solo confusamente accorpate le vecchie distinzioni. Ma i limiti del prodismo - e del parisismo - non sono proprio in questa visione? E’ da tempo, peraltro, che considero pericolosamente generico e rischiosamente ideologico il discorso sull’unità delle grandi componenti storiche del riformismo italiano. Si può ravvicinare questo discorso, in modo che non sia rappresentato, come è stato autorevolmente detto, da una socialdemocrazia attenta ai valori del cattolicesimo? Si può descrivere, ammesso che esista in modo univoco, la koiné liberale che fonda l’unità delle grandi componenti e che anche nella tesi di Salvati è la necessaria premessa di tutto? Voglio qui esser ben chiaro: personalmente, non sono interessato a difendere l’autonomia e quasi la purezza della tradizione socialista, e distinguo la mia posizione da quelle di Macaluso o di Caldarola, le cui tesi seguo naturalmente con molta attenzione e spesso con sintonia. Ma su quel punto centrale la penso diversamente, anche perché la socialdemocrazia ha dovuto revisionare i propri canoni dopo la fine (a vista d’uomo) della prospettiva di una "società socialista" anche in chiave socialdemocratica. Insisto: per me il punto centrale, oggi, è la koiné liberale da conquistare, liberatoria di uomini e di rapporti sociali, proprio quella koiné che viene data per acquisita. Liberal-socialismo, capace di difendere le libertà individuali dai poteri corporati che non rappresentano più la dimensione sociale; cattolicesimo liberale, capace di difendere con forza la laicità dello Stato e la coscienza laica della vita comune, nel quadro di un ben accettabile solidarismo sociale; radicalismo laico, che viva nel patrimonio della grandi battaglie sui diritti civili, tre cose (premessa di tante altre) che possono trovare punti di raccordo nelle loro diverse provenienze, e di cui oggi non esistono consolidati bastioni. Una costruzione difficile e lenta, pur se ce ne sono parecchie condizioni, che può esser tuttavia compromessa dall’unificazione veloce delle élites politiche dei due partiti maggiori.
Si pretende di chiudere la situazione nel momento in cui essa forse si sta riaprendo. Che intendo dire? riferirmi a una tesi (un po’curiosa in verità) presente nel saggio di Salvati. Provo a riassumerla così: facciamo presto a inventare il nuovo partito, prima che sia troppo tardi, prima cioè che il tonfo del berlusconismo diventi, per la Margherita, una tentazione irresistibile, quella di riorganizzare il Centro e dunque tirarsi fuori dal partito democratico. Qui veramente non mi riesce di comprendere, e quel che comprendo mi capacita assai poco. Che si propone? Una sorta di lotta contro il tempo, peraltro già perduta, per legare la Margherita, e far trovare… la storia dinanzi al fatto compiuto. Qui, mi permetto di aggiungere, si avverte in modo un po’ ambiguo il peso della militanza diessina di Salvati. Il suo discorso si potrebbe ritradurre così: i ds e Prodi (il veroUlivo) sono (e comunque sono destinati a essere) i protagonisti convinti dell’operazione e dunque, si può intendere, le forze egemoni di essa. La Margherita, invece, ci sta dentro in maniera ambigua, quasi costretta dalle circostanze, pronta al salto verso il centro, che le va impedito prima che si apra la voragine in quel punto dello schieramento politico.
Ma la verità è un’altra, e aggiunge altre ragioni, a veder mio, per discutere sui tempi politici e le modalità di una riorganizzazione delle forze. Quando Berlusconi cadrà, e dunque forse già il dieci di aprile, tutta la scena politica italiana è destinata a mutare. Se poi non cadesse…Ho sempre pensato (e scritto) che l’Ulivo, in qualunque forma organizzato, non reggerà alla prova, e dunque il paradosso può essere che la sua vittoria (o la sua improbabile sconfitta) sarà anche il presagio della sua scomparsa nella forma conosciuta. La situazione italiana è drogata dal berlusconismo, come tutto il dibattito in corso. La sua fisiologia è sconvolta. Quando Berlusconi scomparirà dalla scena politica, allora ce ne accorgeremo pienamente. Ma una situazione, per dir così politicamente "inautentica", coinvolta nella crisi esistenziale della più sconvolgente novità dell’ultimo decennio, non è la miglior garanzia per una costruzione duratura. L’argomento di Salvati si può letteralmente rovesciare: proprio perchè lo scenario italiano sembra destinato a riaprirsi in tutto il suo ventaglio, proprio per questo la transizione italiana è destinata a prendere allora la sua forma nuova, ad avviare allora la fase ulteriore e non del tutto prevedibile del confronto. E non escludo - so di provocare qualche reazione ma non mi sottraggo - che dal corpo del centro-destra italiano, in dissoluzione probabile, forze liberali potranno aggiungersi, e raggiungere il campo di Agramante, e consentire un decollo nuovo e imprevedibile di tutto il contesto. Inteso come lo intende Salvati, e con un rispetto serio e profondo della sua complessa argomentazione, il partito democratico non mi pare un oggetto reale. Per me, tuttavia, non è nemmeno l’oggetto del desiderio, un desiderio che forse si va inaridendo ma che da questo suo stato immagina di avere più freddezza per valutare lo stato di cose esistenti.

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