LA VIA VECCHIA NON È DA BUTTARE di Luca Cefisi dall'Avanti della Domenica del 9 giugno 2013

18 luglio 2013

LA VIA VECCHIA NON È DA BUTTARE di Luca Cefisi dall'Avanti della Domenica del 9 giugno 2013

Luca Cefisi risponde a Mauro Del Bue sul Congresso del PSI

Caro Mauro, consentimi di obiettare al tuo articolo del 21 maggio “La via nuova”. Tu proponi una “via nuova”, e la contrapponi ad una “via vecchia”, la via identitaria.
Certo che le affabulazioni sull’identità socialista sono stucchevoli: specie se pensiamo a certi che solo recitano giaculatorie sulle passate glorie e sui nostri morti, e tacciono ipocriti sui nostri errori, ma soprattutto non sanno mai dire cosa fare ora.
Tu sostieni, con chiarezza e sincerità che apprezzo, che c’è una cosa da fare, una coalizione liberale e laica, e ti richiami alla Rosa nel Pugno, progetto, come sappiamo, già tentato e fallito nel 2007.
Questa via, sostieni, corrisponderebbe meglio alla nostra storia e più facile sarebbe percorrerla con programmi comuni. A me pare invece che questa via sia inadeguata, e davvero vecchia: oggi non ci sono più la chiesa comunista e la chiesa cattolica, che con le loro mura definivano, per lo meno per differenza, un campo laico. Soprattutto, sono del tutto cambiate le coordinate del dibattito nella sinistra italiana: se negli anni ‘80 vi era il peso del Pci, e insomma c’era un’egemonia massimalista sulla sinistra italiana, da ormai molti anni viviamo in una dimensione del tutto opposta, quella dell’egemonia culturale di un neoliberalismo all’insegna del ‘there is no alternative’ di thatcheriana memoria.
Quando parli di schierarci con l’ala più “revisionista” del Pd (Veltroni ? Renzi ?), oltre che con i radicali e altri liberali, ti riferisci, mi pare, proprio ad un cosiddetto riformismo che non serve ai socialisti, perché è diventato ideologia, non più metodo intellettuale aperto al servizio di valori.
A Roma, in un seminario promosso dal nostro partito, si sono sentiti certi richiami così scolastici e astratti alle riforme liberali, che pareva fossimo a Pechino, nella Cina prima di Deng, e non nell’Europa del 2013. L’Europa al centro della crisi economica e finanziaria più devastante, con povertà crescente, ma la forbice larga con i ricchi sempre più ricchi, e un’economia finanziarizzata, simboleggiata dagli ‘hedge fund’, quei giocattoli pericolosi tanto amati da Renzi e dai suoi amichetti così moderni, che sottraggono risorse alla società e alla produzione … a chi rivolgersi per chiedere conto di questo, dovremmo incolpare ancora un massimalismo ormai esaurito e insignificante, oppure quelle politiche neoconservatrici, di esaltazione dei valori del mercato, di retorica neoliberale sparsa a piene mani, che hanno imperato in questi decenni?
Dalle colonne del ‘Corriere della Sera’ e de ‘La Stampa’ gli Alesina, i Giavazzi, i Ricolfi ci predicano che ancora non basta, ci vuole più austerità, più “liberalismo”, più rigore e ortodossia economica: quando saranno soddisfatti, quando si fermeranno? Pare, solo quando il modello europeo di welfare sarà ridotto in pezzi, in nome dell’esecuzione di un modello economico astratto: il paziente sarà morto, ma l’operazione sarà perfettamente riuscita. Saranno morti allora anche i partiti popolari.
I populismi antieuropei, i grillismi, i leghismi nascono da qui, dalla nostra difficoltà ad offrire un’alternativa seria, civile, credibile, che affermi che l’Europa è una cosa buona, ma è governata male. O la proponiamo noi, oppure non serviamo a niente: per fare come Monti, c’è già Monti e lo fa benissimo (voti pochini, e non perché la gente non capisce, ma perché capisce anche troppo bene).
Oggi, per costruire un partito decentemente socialdemocratico, e che sia largo e plurale se no non lo sarebbe, occorre rivolgersi proprio a coloro che tu escludi a priori: l’ala che tu chiami “sinistra” del Pd, diciamo l’ala socialdemocratica, via!, e persino Sel, hanno abbandonato la falce e il martello, quali altre prove ancora esigiamo da loro?
È il contrario di una proposta autistica, identitaria nel senso deteriore, perché mira a parlare, con tutte le difficoltà prevedibili, con chi svolge una funzione che è nella pratica riformista (nel senso antico della parola, non in quello svuotato di senso di oggi), lasciando perdere, una volta per tutte, la nevrotica ricostruzione identitaria del Psi di vent’anni (venti secoli) fa. Le alternative mi sembrano coalizioni elettorali, al massimo: niente di necessario, né per noi né per gli altri.
Non sono chiare, in particolare, le speciali convergenze programmatiche con i radicali: certamente una lista di campagne sui diritti civili, ma proprio su questo non c’è differenza alcuna tra sinistre cosiddette riformiste e sinistre cosiddette massimaliste, differenza a cui tu sembri tenere sommamente, insomma su cittadinanza, matrimoni gay ecc. non c’è alcun problema tra noi e Pannella, ma neppure, tanto per dire, tra noi e Ferrero.
Il divorzio breve (questione in sé più che meritevole, sia chiaro) rischia quindi di essere una foglia di fico per colorarci di un carattere di sinistra superficiale, se poi non ci schieriamo su quello che più conta, cioè la questione sociale, l’economia e il welfare, e qui davvero non vedo quali facili convergenze politiche ci siano coi radicali.
Se poi venisse attuata la raccomandazione dell’Europarlamento, che invita a mettere sulla scheda nel 2014 le affiliazioni europee delle liste, con i Radicali fieri membri dell’Alde, la questione programmatica incontrerebbe persino una difficoltà simbolica. A livello europeo, il Pse non è il Comintern, per fortuna, ma ha cominciato faticosamente a darsi un programma, basato sul rilancio del lavoro contro la finanza, sul rifiuto dell’austerità, sulla difesa del welfare che produce anche sviluppo (oltre ad essere giusto): i conflitti proprio con l’Alde paiono maggiori persino di quelli con il Ppe.

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