LA TREGUA TRA ISRAELE E HAMAS È ANCHE UN RISULTATO DELLA PROTESTA DI MASSA di Alberto Angeli del 24 novembre 2023
24 novembre 2023
Oggi Gustave Le Bon si troverebbe in
difficoltà a descrivere la psicologia delle masse, poiché le proteste che
riempiono le strade di mezzo mondo hanno un obiettivo preciso: la pace e la
condanna di Israele, che dal giorno del massacro di 1200 suoi cittadini, ha
reagito scatenando una durissima guerra contro Gaza, con bombardamenti brutali facendo
miglia di morti, dei quali oltre la metà sono bambini. Se stiamo ai media, si
tratta delle più grandi proteste nella storia americana, nella storia europea,
nella storia dell'America Latina; delle più partecipate dai tempi di Black
Lives Matter e dalla Marcia delle donne e dopo la Primavera Araba, o le
manifestazioni globali contro la guerra in Iraq nel 2003. Insomma, le strade
del mondo si sono riempite di manifestanti sotto il simbolo della pace, ma
divisi dal sostegno alle parti in guerra: organizzazioni giovanili,
universitarie, associazioni di sinistra che includono movimenti e partiti a
sostegno dei Palestinesi e di condanna dei bombardamenti scatenati da Israele
su Gaza; un’altra parte, per reazione e risposta alle posizione più
antisemitiche i sostenitori di Israele che, come accaduto in Germania, ha
spinto il Governo a criminalizzare lo slogan: “ dal fiume al mare”.
Soprattutto ci sono state folle, enormi.
Il 4 novembre c’erano forse 300.000 manifestanti a Washington a sostegno dei
palestinesi. Dieci giorni dopo, erano decine di migliaia a sostenere Israele.
L’11 novembre, a Londra, furono 300.000 a favore della causa palestinese, e il
ministro degli Interni, Suella Braverman, fu licenziata per aver chiesto alla
polizia di trattare più duramente i manifestanti. A Parigi, il giorno
successivo, 180.000 persone hanno marciato “contre l’antisémitisme”, tra cui
Marine Le Pen, il volto della Francia reazionaria, ma non il presidente
Emmanuel Macron, che recentemente ha chiesto un cessate il fuoco. Di fine
settimana in fine settimana, di paese in paese, ciò che ha sorpreso è l'affluenza
alle urne, che è in crescita e sembra orientarsi a vantaggio della destra
estrema e populista che si sta imponendo, come in Argentina e Olanda.
Una prima parte di questo inizio del XXI
secolo il mondo arroventato dalle ingiustizie della globalizzazione, dalla
pandemia e dalle guerre è sconvolto da proteste di massa: Occupy Wall Street e Piazza
Tahrir e la Primavera Araba, Gezi Park in Turchia, Brasile e Cile e Ucraina e
Hong Kong. Ci hanno fatto impallidire rispetto alle manifestazioni del 68,
poiché all’epoca era quasi irresistibile trascurare le differenze tra questi
movimenti e vedere invece una sorprendente e imprevista rottura nell’ordine
globale, una rottura che continuava a lacerarsi: un moderno 1848 di rivolta
globale parallela. Ciò che più colpisce guardando retrospettivamente a quegli
avvenimenti è il modo in cui è finito: con quasi tutti i paesi tornati al punto
di partenza o peggio, mentre le forze reazionarie e le reazioni violente hanno
incanalato quello che una volta sembrava un inevitabile arco della storia che
ci faceva sperare in un futuro migliore. Gli analisti ci dicono che si tratta
soprattutto di strategia e struttura politica, in quanto la protesta
contemporanea ha confuso lo scopo con il desiderio, peraltro sottraendosi alle
forme tradizionali di gerarchia radicale che, nel passato, erano indicate come
Marxiste.
Come ci spiega Le Bon, i movimenti hanno
bisogno di seguaci e di un tema contro cui indirizzare la loro rabbia e,
soprattutto, di un leader. Al contrario, se scelgono di feticizzare
l’imperfetto che assume l’aspetto di una orizzontalità della lotta, le prospettive
di un cambiamento reale si riducono piuttosto rapidamente, cosi l’energia
genuinamente rivoluzionaria, che caratterizza questi movimenti, subisce una
manipolazione tematica fino a scemare nella banalità. Può così accadere che la
protesta di massa si trasforma in uno sfogo, mentre in altre occasioni, con
leader più strategici e portatori di obiettivi più chiari, e anche più vicini
all’establishment, incanalino l’energia della protesta orientandola in un cul
de sac. In altri casi ancora, le proteste finiscono per rappresentare la
provocazione attorno alla quale altri indignati possono mobilitare una reazione
reazionaria.
Si tratta di un paradigma che può valere
sia Paesi sottosviluppati del mondo sia di quelli più ricchi e formalmente
“stabili” dell’Europa e del Nord America. Qui, le recenti proteste sono state
caratterizzate dalle stesse due caratteristiche distintive: la loro enorme
portata e la loro vulnerabilità. Eliminando i social media, si possono ottenere
milioni di manifestanti nelle strade e impressionanti fotografie aeree dei
partecipanti, ma si rischia anche di consegnare qualcosa più simile a un segno
simbolico nella storia che a un’eredità politica concreta. Se scorri poi un
elenco di questi movimenti, ad esempio, ti troverai a dover richiamare alla
mente narrazioni di fallimento e, in alcuni casi, di reazioni negative.
Tuttavia, quando si protesta, da parte dell’osservatore è sempre un azzardo
dare giudizi affrettati o ridurre tutto ad una questione di comprensione dei
motivi, sui quali poi esprimersi parlando di vittoria o sconfitta, anche se, vedendo
milioni di persone nelle strade, a qualsiasi osservatore tornerà difficile
credere che l'energia di questa immensa folla possa mai essere repressa, almeno
non senza alcune concessioni.
Qui, ogni strategia che volesse
depolarizzare le masse potrebbe apparire ingenua o addirittura antiquata, se ci
atteniamo alla realtà data la reputazione sclerotica del potere istituzionale e
il modo in cui può compiere sforzi per sconvolgere uno status quo
apparentemente indifferente, assomigliando più a conferme della sua
indifferenza (o a espressioni performative di pura frustrazione). E in un luogo
così polarizzato negativamente come l’Italia contemporanea, dove la fedeltà
politica della maggior parte delle persone è modellata più dall’antipatia per
l’altra parte, che dall’impegno per un’idea politica precisa, chiara e alla
quale ci si senta legati, cosi che le manifestazioni su larga scala possono
anche sembrare un rischio a mobilitarsi maggiormente contro la causa che a
sostegno della stessa.
Gli esempi li ritroviamo scegliendo i temi: ad
esempio, gli scioperi climatici. Questo autunno segna il quinto anniversario
della fama mondiale di Greta Thunberg, la prima protesta di massa di Extinction
Rebellion a Londra e nel 2018 e 2021 in Italia. Cos’è cambiato? La storia va oltre la protesta
climatica, ma mentre un tempo gli attivisti climatici potevano denunciare con
disinvoltura la totale indifferenza dei potenti del mondo, oggi vivono in un
mondo che si affretta a decarbonizzarsi rapidamente, se non abbastanza
rapidamente. Thunberg viene ora ripudiata da alcuni scioperanti del clima per
la sua posizione su Gaza; la leadership di Extinction Rebellion si è
frammentata in diverse direzioni.
Le proteste di massa per il clima iniziate nel 2018
hanno offerto anche un chiaro contrasto con quelle precedenti, che si
concentravano sull’arresto della costruzione di gasdotti attraverso azioni
mirate con richieste molto concrete. Oggigiorno le masse si scontrano e
polarizzano sulle guerre in corso, e rivendicano la pace mentre le istituzioni
internazionali si dimostrano incapaci di affrontare con la dovuta energia e
risolutezza i pericoli che il mondo sta correndo, fermando la corsa di uno
scontro tra civiltà. Eppure, comunque
siano divise queste manifestazioni sono produttive, ovviamente; si concentrano
sulla causa e, anche quando falliscono, tendono a aiutare a identificare i
responsabili del loro rifiuto, sebbene le proteste non siano tutte
rivoluzionarie, non mirano nemmeno a ottenere vittorie politiche limitate.
Possiamo riconoscere che stanno modellando il mondo anche se in modo sismico, ma
ci rincuora il fatto ineludibile e di maggiore rilevanza che stanno aprendo la
strada all’agitazione futura, affinché il mondo cambi senza sconvolgimenti.