LA SPERANZA È L’ULTIMA A MORIRE! di Alberto Angeli del 19 giugno 2020

19 giugno 2020

LA SPERANZA È L’ULTIMA A MORIRE! di Alberto Angeli del 19 giugno 2020

Lo stato confusionale in cui versa il sistema politico italiano è l’esito del percorso zigzagante lungo il quale la funzione sempre più evanescente dei partiti, il continuo logoramento della democrazia rappresentativa, la crescente freddezza dell’opinione pubblica all’attuale includente manifestarsi della vita politica, l’occupazione mediatica dello spazio politico e il crescente discredito in cui versano le istituzioni pubbliche a ogni livello (alimentato con spregiudicatezza dai populisti e sovranisti), sono la base esegetica su cui riflettere e fondare una ragionevole proposta politica di cambiamento. Deve, infatti, preoccupare la spiccata miseria della cultura politica di quella che, tra i molti elementi patologici indicati, si qualifica come la “classe dirigente”. Per questo varrebbe la pena di approfondire la ricerca dei sintomi inquietanti che materialmente danno corpo a questo rovinoso declino del sistema paese, magari ricorrendo ad una felice intuizione, appropriatamente e validamente formulata da Piero Gobetti: “Autobiografia della Nazione” (comparsa sulla rivista Rivoluzione Liberale il 23-12-1922); un esercizio, l’autobiografia, che non pare suggestionare il nostro presente e i nostri politici, lontani da quella realtà storica che, proprio cento anni or sono, coinvolse alcuni intellettuali antifascisti, i quali vollero invece interrogarsi sul drammatico passaggio che dalla crisi bellica vide il paese aprirsi all’avventura fascista. Come alchimisti, allestirono un laboratorio e dettero corso ad analisi e diagnosi per capire quale fosse stato il male che aveva contaminato e ucciso la democrazia liberale e spalancato le porte al virus fascista.   

Confidando nell’aforisma: che la speranza è l’ultima a morire, ci si aspetterebbe che fosse la sinistra a riprendere nelle sue mani i contenuti di quelle analisi, magari dirigendo la sua attenzione ai dati di base di quel lavoro culturale compiuto dalle elitès in quella fase storica; quindi, impegnandosi in un’autobiografia, come si è detto, accompagnata da una riflessione sugli elementi che sono alla base dell’attuale declino politico, sociale ed economico del paese. Certamente aiuterebbe ciò che rimane della sinistra a comprendere le ragioni della crisi del suo rapporto con il mondo del lavoro e con quello giovanile e a valutare la gravità dei sintomi che stanno mettendo a rischio la tenuta democratica del paese. Dissipata la speranza ciò che rimane è’ l’avvilente asfissia intellettuale in cui si svolge il cosiddetto dibattito politico, per l’imperdonabile assenza di riferimenti alla nostra storia repubblicana e alla carta Costituzionale, quale esito finale della lotta condotta in opposizione il fascismo, contro la quale non sono mancate inefficaci iniziative revisionistiche e fantasiose invenzioni di un nuovo linguaggio mediante cui dar voce alla società civile, comprensibilmente disorientata dalla pandemia e dalla crisi economica, con il proposito di unire ciò che storicamente e politicamente non si poteva unire: il pensiero socialista con quello liberale. Un tentativo di sperimentare oggi ciò che non è riuscito nel corso della storia ad altri più autorevoli pensatori, impegnati a dare concretezza ai due orientamenti riassunti nel pensiero socialista e in quello liberale, integrando il tentativo con esperienze del XX secolo, che la realtà si è incaricata di rivelare inutili e per questo caduti nell’oblio, perché non sarebbe di alcun aiuto nella messa a punto di un’autobiografia riscritta con l’intento di falsificare i dati storici, che dividono socialismo e liberalismo, essendo due ordinamenti politici e sociali incompatibili, poiché per il liberalismo si tratta di incardinare i processi di formazione e descrizione delle classi sul potere, anziché sui rapporti di produzione e sulle corrispondenti forme di proprietà come indicato da Marx a proposito del conflitto di classe.

Tutto ciò non deve stupire se proprio da parte di quelle forze politiche e culturali che credono nella possibilità di un rinnovamento della società italiana e della sinistra, viene posto l’interrogativo in cui centrale è la domanda: cosa siamo e dove vogliamo andare. A questo interrogativo rispondere lodando la fine delle ideologie come semplificazione e congedo da ogni visione del mondo e da ogni progettualità fondata su categorie sociali e politiche, le uniche in grado di interpretare il tempo storico, condurrebbe verso l’eclissi ogni interpretazione della società industriale o, come si ama dire, post-industriale. E’ giusto pensare che a questa situazione sia possibile opporre una diversa visione delle cose, magari inventando formule politiche non proprio di nuovo conio, come quella di coniugare socialismo e liberalismo, archiviando la storia del socialismo italiano per gli studiosi di storiografia, confidando che si creino gli spazi a favore di altre forze politiche alle prese con una crisi di identità e in piena difficoltà in questo momento di grave epidemia virale e di crisi economica. Allora, dobbiamo chiederci, di nuovo, quale senso può avere oggi una ridefinizione del socialismo dicotomizzando la sua origine e tradizione storica al fine di favorire il recupero di spezzoni di ciò che rimane del liberalismo e della sinistra, che oggi si identifica nel Partito Democratico, il quale governa con un movimento fondamentalmente conservatore con pulsioni di destra. A questo punto della storia in cui lo scontro sociale e la crisi economica (e l’incertezza sulla fine dell’epidemia) pongono seri problemi sulla tenuta della democrazia,  lasciamo che siano gli studiosi a sorprenderci nell’esplorazione dei testi filosofici su come interpretare il mondo, noi lavoriamo per cambiarlo, magari sotto le insegne del socialismo.

 

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